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Ne è passato di tempo, da quando l’artista albanese Adrian Paci ha portato in scena un rituale funebre in Vajtojca: ma a distanza di anni, questa performance del 2002 continua a esercitare un’attrazione potente in chi la guarda, e non necessariamente per la prima volta.
Come da titolo, Vajtojca s’ispira alla figura della lamentatrice funebre diffusa in Albania, Grecia e dintorni, che richiama la figura della prefica italiana studiata da Ernesto De Martino; queste donne, professioniste del lamento, esprimevano un dolore collettivo e comunitario attraverso canti e gesti rituali.
Le vajtojce dei Balcani e le prefiche del Sud Italia condividono una funzione arcaica e profonda: dare voce al lutto di una comunità, incanalando il dolore attraverso il canto, rendendo la sofferenza un elemento visibile, ritualizzato, a cui tutte e tutti possono partecipare.
Un viaggio nella memoria
In Vajtojca, Paci (Scutari, 1969) attualizza questo rito ancestrale, trasformando la lamentatrice in un simbolo di identità e memoria. Nella sua performance, l’artista si immerge nella dimensione più profonda del distacco e del lutto: la morte stessa. La scena è costruita con grande intensità e senza effetti speciali – un uomo bussa a una porta e viene accolto da una donna in una stanza spoglia; si cambia d’abito, vestendosi in modo elegante, mentre lei prepara il letto.
Lui si sdraia e lei si copre il capo, intonando un lamento funebre ipnotico e struggente, che colpisce chi guarda al di là della comprensione delle parole. La donna, una vera vajtojca albanese, esprime con forza il dolore universale che la separazione porta con sé. Il canto, carico di tensione e di una teatralità quasi primitiva, colpisce dritto agli occhi, alle orecchie e al cuore. È una manifestazione autentica, immediata, del dolore.
L’opera riflette sulla morte e sulla sua possibile interpretazione estetica, un tentativo ben riuscito di Adrian Paci di stabilire un dialogo diretto con l’inevitabile presenza della morte. L’artista prende ispirazione da un’antica tradizione dei Balcani, ancora praticata nel suo paese natale, dove il lutto per i defunti è regolato da norme rituali rigorose: Vajtojca mette in scena il connubio tra il pensiero estetico e la morte, tra la speranza di un “lieto fine” e la realtà di un epilogo tragico e inevitabile.
Nella performance, Paci inscena la propria morte e chiede alla vajtojca di piangere sul suo corpo. La lamentatrice professionista piange per il defunto per diversi minuti, mentre l’artista rimane immobile, obbligato a sostenere il peso del dolore per la propria morte. Quando il rito è finito, la scena si rinnova come per miracolo: l’artista si risveglia, si alza e, con le lacrime agli occhi, ringrazia la vajtojca prima di uscire.
Il potere del rituale, tra passato e presente
Questo rito, in cui la vajtojca piange e accompagna il defunto nel suo ultimo viaggio, fa da ponte tra il passato e il presente, interrogando il pubblico sulla fragilità della vita e sul significato universale della perdita; la performance assume così una forte valenza culturale e identitaria, che va oltre la sua origine geografica. Vajtojca, insomma, come dialogo universale sulla morte e sulla rinascita, sulla resilienza e sul potere trasformativo della memoria e del rito.
In un’epoca di movimenti migratori e di diaspora, culture come quella albanese rischiano di perdere contatto con le proprie radici: è probabile che tanto le vajtojce quanto le prefiche italiane siano destinate a scomparire, travolte dalla globalizzazione e dall’omologazione culturale.
Paci, riportandole in scena, contribuisce a preservarne la memoria e a caricarle di una nuova attualità – non più semplice lamentatrice, la vajtojca stessa diventa una cultura che resiste e si rinnova, celebrando la memoria collettiva e il suo ruolo essenziale nell’affrontare la perdita.
Bellissime, a tal proposito, le parole di Adrian Paci sul suo interesse per i rituali, religiosi e laici, come dichiarava in un’intervista a Flash Art nel 2017:
Il rapporto che ha avuto l’arte con la necessità umana di affrontare i momenti importanti della vita e della morte attraverso l’immagine è fondamentale. Oggi che questo credo si è frantumato, non mi propongo di far rivivere i rituali, ma di analizzare questa frattura. Nel rito religioso mi affascina la collettività e la capacità di trasformare bisogni e domande fondamentali in segni visibili. Non mi ritengo un anacronista, semplicemente trovo sciocco ignorare una dimensione che ha accompagnato l’umanità per migliaia di anni in nome di un presente che, non avendo nessun rapporto con il passato, si vede negare anche qualsiasi prospettiva verso il futuro.
A più di vent’anni dalla sua messa in scena, Vajtojca ci ricorda che, anche in un mondo globalizzato, la vulnerabilità umana resta un legame universale, capace di trascendere le differenze e di unirci nell’esperienza comune della fine della vita.
È un ricercatore e divulgatore indipendente; si occupa di decolonialità e culture visuali nello spazio del Nuovo Est, in particolare post-ottomano ed eurasiatico. Oltre che per Meridiano 13, scrive regolarmente su Meridiano 13, Est/ranei - Letteratura, cinema e culture dell'Europa orientale e Antinomie - Rivista di scritture e immagini. È anche contributing editor dell'edizione digitale di Harper's Bazaar Italia e, dall'aprile 2024, fa parte dello staff di Lossi 36 - Weekly Highlights from Central Europe to Central Asia. Oltre a tenere seminari e insegnare nelle scuole superiori, è stato consulente di ricerca e catalogazione per l'Archivio Ico Parisi, l'Archivio Mario Radice e l'Archivio Heidi Bedenknecht-De Felice.