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Fu per Rywka che tornò dall’America. Diceva di non aver pensato ad altro che a lei per quattro anni, e così si era deciso a comprare un biglietto della nave. Non diceva di essere tornato senza un soldo e di essere stato costretto a chiederne a suo fratello maggiore. Preferiva invece ficcare nei suoi discorsi qualche parola americana, che in famiglia non capiva nessuno.
Così inizia Gli Stramer, il nuovo romanzo dello scrittore polacco Mikołaj Łoziński edito da Bottega Errante. Chiusa in poco meno di quattrocento densissime pagine, la storia segue la vita di una famiglia ebraica nella Tarnów tra le due guerre mondiali. Nathan Stramer infatti si decide, dopo alcuni anni trascorsi a New York, a tornare dall’America per andare a vivere con Rywka in una cittadina polacca nei dintorni di Cracovia, in una casa con a malapena due stanze sulla via più povera di Tarnów: l’incipit, nella sua peculiarità, cattura subito il lettore.
Al contrario dei protagonisti dei romanzi della tradizione letteraria in lingua yiddish, come il celebre La famiglia Karnowski, infatti, gli Stramer “ritornano” in Polonia, in una terra che diventa, mano a mano che la Storia si evolve e fa capolino nelle vite dei protagonisti, via via più ostile, avvelenando lentamente e in modo quasi impercettibile le loro esistenze. Lo scenario storico resta sullo sfondo, e sembra quasi entrare solo casualmente in quella che rimane una sorta di semplice epopea familiare, che racconta – attraverso il punto di vista e lo sguardo unico di ciascuno degli otto componenti della famiglia – la vita quotidiana di una famiglia ebraica e polacca di inizio Novecento.
La suggestione del romanzo si fa subito potente e cattura il lettore in un quadro curiosamente, al tempo stesso, abusato e sconosciuto: la vita degli ebrei polacchi subito prima del nazismo, i fermenti politici dell’epoca, con l’adesione alle ideologie comunista e nazionalista, ma anche il rapporto ambivalente con la propria tradizione religiosa e con l’identità polacca.
Si tratta di temi sicuramente già affrontati nel panorama letterario polacco ma assai raramente sotto una chiave di lettura così scevra di preconcetti e stereotipi, e ancor di più in maniera così del tutto indipendente dalla Shoah. L’imminenza del genocidio, infatti, è sicuramente nell’immaginario del lettore durante tutto il romanzo e finisce per assumere un ruolo cruciale, eppure lungo quasi tutto il racconto rimane come una sorta di sottofondo nero, sottile, che l’intreccio riesce a smussare, quasi a far perdere di vista al pubblico che resta troppo coinvolto dalla fragile, ingenua quotidianità degli Stramer e rimane quasi stordito dalla sottile ironia della narrazione.
A Tarnów si diceva che più ci si allontanava da Grabówka, più l’aria diventava pulita. Nusek quando era lì respirava solo con la bocca. L’odore di quel quartiere gli faceva venire in mente quello del gabinetto di casa in via Goldhammer, ma anche le notti tra il venerdì e il sabato, quando, dopo la cena dello Shabbat, lui e i suoi fratelli non riuscivano a prendere sonno, per il troppo cholent, lo stufato tradizionale, che avevano mangiato.
I personaggi appaiono – specialmente quelli maschili, di gran lunga i più interessanti del volume – assolutamente credibili nel loro sviluppo psicologico, ognuno con le proprie sicurezze e le proprie ambiguità. I fallimenti imprenditoriali del capofamiglia Nathan Stramer, tremendo quanto instancabile commerciante, gli insuccessi scolastici e matrimoniali dei figli, le costanti difficoltà economiche sono il ritratto antieroico e vivace di una famiglia come tante e che pure ci appare così intrigante per la sua fragile eppure così evidente identità ebraica e polacca. La traduzione, che sceglie di mantenere la trascrizione fonetica in polacco dei nomi ebraici, è una scelta editoriale precisa, che intende proprio valorizzare questa duplice identità, rendendola esplicita anche per il lettore italiano.
Uno scenario storico ricco e dettagliato
Solo pochi momenti riescono a spezzare la “sospensione di incredulità” del lettore: la ricostruzione della vita ebraica dell’epoca, infatti, è molto precisa ma non priva di errori, come la citazione, da parte dell’autore, dei filatteri in uso ai membri maschi della famiglia Stramer per la festa di Kippur: i tefillin non sono mai utilizzati, nei rituali del culto ebraico, durante le feste solenni, ma solo nei giorni feriali. Un’imprecisione che, seppur trascurabile, non sfuggirà a un pubblico esperto.
Nel complesso, comunque, lo scenario storico è denso di dettagli che contribuiscono ad arricchire la ricostruzione storica: penso al cheder, la scuola ebraica dei bambini, ai vari movimenti giovanili ebraici dell’epoca come l’Hashomer Hatzair o il Bund, rievocati con precisione e coerenza nell’adolescenza di Salek e Hesio Stramer.
Colti durante i momenti di infedeltà coniugale, durante i momenti di cedimento, di prigionia politica ma anche di crescita umana e politica, Gli Stramer sono senza dubbio una piccola grande scoperta della narrativa contemporanea in lingua polacca. Il romanzo di Łoziński ha l’enorme pregio di raccontare una storia banale, eppure al tempo stesso così autentica e avvincente, in un contesto – una cittadina polacca all’alba della Seconda guerra mondiale – cruciale per lo sviluppo della coscienza storica della Polonia contemporanea.
Gli Stramer, Mikołaj Łoziński, traduzione di Francesco Annichiarico, Bottega Errante Edizioni, 2023.
Laureata in giurisprudenza, nel 2016 ha trascorso un semestre all'Università di Cracovia. Si interessa in particolare di diritti delle minoranze, stato di diritto, cultura ebraica, femminismi e movimenti lgbt+ nell'Europa centro-orientale. Di questi e altri temi ha scritto per East Journal e Diritto Consenso.