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1920. Da un paio d’anni nell’ormai ex Impero russo imperversa la guerra civile, che vede i bolscevichi – cosiddetti “rossi” – contrapposti alle fazioni controrivoluzionarie e zariste dei menscevichi – i “bianchi”. A Cherson, nell’attuale Ucraina meridionale, un intellettuale ventottenne arruolato con i rossi si sta occupando degli esplosivi da utilizzare nei combattimenti. Accende con una sigaretta un piccolo cilindro di provenienza tedesca per provarlo. L’ordigno gli scoppia tra le mani. In quell’istante la sua mente è attraversata da un solo pensiero: chi porterà a termine il libro che sto scrivendo?
Il giovane in questione è Viktor Borisovič Šklovskij, pioniere della critica e teoria della letteratura, che nelle sue memorie riguardo a questo episodio riporta le seguenti frasi:
Mi sono sentito allargare le braccia, sollevare in alto, bruciare, capovolgere, e l’aria era piena di scoppi. Il cilindretto mi era esploso in mano. Ho avuto appena il tempo di pensare fugacemente al mio libro L’intreccio come fenomeno di stile: chi avrebbe finito di scriverlo? (Viaggio sentimentale, Viktor Šklovskij, traduzione di Mario Caramitti, Adelphi, 2019)
Il libro a cui fa riferimento, però, “esiste e non esiste”. Federica Arnoldi, Luca Mignola e Alfredo Zucchi nell’autunno 2021 partono alla ricerca di questo titolo che sembra essersi disintegrato insieme all’esplosivo. I tre sono i curatori della collana Ostranenie, pubblicata da Wojtek Edizioni, il cui nome si fonda proprio su uno dei concetti chiave del formalismo russo, la celebre scuola di critica letteraria che tralascia l’interpretazione contenutistica per dedicarsi all’analisi degli aspetti più concreti – struttura, lingua, contenuti, espedienti narrativi – dell’arte.
Qui tutto sta nel cambiamento del punto di vista, nel mostrare la cosa ex novo, nel contrapporla a un materiale nuovo, a uno sfondo nuovo.
La teoria dello “straniamento” (questa la traduzione del termine russo ostranenie), introdotta da Šklovskij nel 1916, consiste infatti nel rinnovare la percezione dell’opera artistica proponendo una lente d’ingrandimento speciale. Il bisturi del formalismo ha come obiettivo la scomposizione in frammenti e la messa a nudo dell’impalcatura su cui si regge il testo, smascherando i procedimenti della letteratura al fine di uscire dalla stessa e liberarla dagli automatismi della finzione letteraria.
Altro punto cardine del formalismo russo, sempre teorizzato da Šklovskij e che lo ossessionerà per tutta la vita, è l’intreccio (sjužet), e cioè “la legge organizzatrice del materiale di cui una prosa letteraria si compone”. Nella prefazione firmata da Arnoldi, Mignola e Zucchi si legge che
[i]n un saggio successivo, “Verso una tecnica della prosa senza intreccio”, Šklovskij si spinge oltre: “l’intreccio deforma il materiale”, ed è come il grimaldello per la porta, non la chiave”; la prosa senza intreccio è una forma in grado di emancipare il materiale dalla schiavitù dell’intreccio. Perché l’effetto o lo scopo dell’arte si verifichi bisogna dunque, in ultima istanza, liberare il materiale dagli automatismi della finzione letteraria. Questa posizione ha ispirato non solo la nascita della collana Ostranenie ma anche la relazione tra i titoli che la compongono.
La ricerca iniziata due anni prima ha finalmente dato i suoi frutti: la redazione di Wojtek, entrata in contatto con la professoressa Maria Zalambani, ha rintracciato lo scritto che la guerra civile rischiava di lasciare incompiuto. Si tratta di un breve saggio dal titolo Rozanov. Dal libro “L’intreccio come fenomeno di stile”. Zalambani, la quale durante la propria carriera accademica si è lungamente occupata anche di formalismo russo, e già traduttrice di Zoo o lettere non d’amore (Sellerio, 2002), ha accettato la sfida occupandosi di ricercare, tradurre e curare l’ultimo atto di Ostranenie.
Ma, studiando l’opera d’arte e guardando alla sua cosiddetta forma come a un rivestimento che bisogna penetrare, il teorico della letteratura contemporaneo è come un cavaliere che, mentre monta in sella a un cavallo, lo scavalca. L’opera d’arte è pura forma, non è un oggetto, non è un materiale, ma un rapporto fra materiali. […] Ma io cercherò di dimostrare che l’anima di un’opera letteraria non è altro che la sua struttura, la sua forma. Oppure, secondo la mia formula: “Il contenuto (in questo caso l’anima) dell’opera letteraria è uguale alla somma dei suoi procedimenti stilistici”.
All’Italia l’opera di Viktor Šklovskij non è nuova, grazie anche alle testimonianze raccolte di persona da Serena Vitale. Questo testo inedito fino a un paio di mesi fa è però particolarmente interessante per due motivi. Il primo è l’approfondita disamina delle istanze formaliste già apparse nel saggio L’arte come procedimento (1917), applicate alle opere del controverso scrittore e filosofo Vasilij Vasil’evič Rozanov, che tra il 1912 e il 1915 pubblica due libri “scandalosi” i quali però catturano l’attenzione dell’emergente critico e teorico. In Foglie cadute (Opavšie list’ja, 1912-1915) e Solitaria (Uedinënnoe, 1912) Rozanov rompe con la tradizione letteraria dell’epoca, mettendo insieme brandelli filosofici e riflessivi con appunti quotidiani personali intimi “in modo oltraggioso”, che si traducono in rottura dell’intreccio e straniamento.
E qui mi potrebbero dire: «E a noi cosa importa di ciò?». E io potrei rispondere: «E a me cosa importa di voi?», ma con gli anni sono diventato più docile (il 12 gennaio ho compiuto ventotto anni) e così vi spiegherò. Il libro di Rozanov è stato un tentativo eroico di uscire dalla letteratura, “di esprimersi senza parole, senza forma” e il risultato è meraviglioso, perché ha creato una nuova letteratura, una nuova forma.
La seconda ragione è indissolubilmente legata alla brutale vicinanza, nonostante il secolo di distanza, tra il contesto storico di Šklovskij e quello attuale: la necessità di conoscenza che, pur essendo inscindibile dalle circostanze belliche, si sforza di alienarsi dalla guerra. Gli atavici bisogni dell’essere umano di sapere e comprendere che, alimentandosi dell’incertezza e della violenza dilaganti, non si sottomettono a quest’ultime; “un modo, questo, di provare a fare della propria finitezza lo strumento per stare dentro e fuori dal proprio tempo, al di qua e al di là di esso”.
Accompagnato da un esaustivo paratesto e punteggiato dell’ironia sagace di Viktor Šklovskij, Rozanov è un testo assolutamente accessibile al grande pubblico. Wojtek e Zalambani consegnano un’opera riuscita nei suoi intenti divulgativi, rendendo fruibili i pensieri geniali di un intellettuale che ha attraversato il corso della storia europea e segnato la concezione della letteratura, ricordandoci di stare sempre allerta perché “le cose organizzano rivolte periodiche”.
Rozanov, Viktor Šklovskij, traduzione di Maria Zalambani, Wojtek Edizioni, 2023
Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di letteratura, storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, dove ha conseguito la laurea in traduzione presso l'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot. Collabora con varie case editrici e viaggia a est con Kukushka tours.