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Se si dovesse eleggere un oggetto a simbolo della Guerra fredda, della cortina di ferro e delle divisioni da essa causate, il pensiero correrebbe immediatamente al muro di Berlino. In pochi ricorderebbero invece il suo corrispettivo e antesignano italiano: il muro di Gorizia.
Gorizia, 17 settembre 1947: gli Alleati, che controllano militarmente la città di Gorizia, provvedono a trasporre dalla carta al territorio quella linea di divisione che da lì al 1991 segnerà il confine ufficiale tra Italia e Jugoslavia. In mano stringono carte geografiche dove a penna è stata tracciata la cosiddetta linea etnica, sancendo la nascita di due città distinte in una: Gorizia e Nova Gorica.
Confini e identità
Ma come si è giunti a questa situazione? Per capirlo bisogna fare un passo indietro, alla fine del secondo conflitto mondiale. La sconfitta della Germania nazista è ormai data per scontata, sicché la liberazione dell’Europa occupata si trasforma in una competizione tra le forze alleate per chi libererà per primo più territori possibili: in palio c’è il maggiore o minore peso alle trattative di pace.
Il confine orientale italiano non fa differenza. Gli anglo-americani e i partigiani di Tito si lanciano nella cosiddetta “corsa per Trieste”, liberando e occupando la città insieme e andando di lì a poco a causare la prima vera crisi diplomatica tra forze alleate nel dopoguerra: la crisi di Trieste, per l’appunto.
I primi ad entrare a Gorizia sono i neozelandesi inquadrati nel corpo di spedizione britannico, seguiti a ruota da inglesi e americani, il primo maggio del 1945. Di lì a poco arrivano anche i partigiani jugoslavi, determinando una situazione di competizione tra forze alleate simile a quella verificatisi a qualche chilometro di distanza appena, a Trieste. Trovano una città divisa, impaurita: appena qualche giorno prima i cittadini di Gorizia avevano dovuto subire le violenze dei cetnici – il movimento nazionalista monarchico serbo, collaborazionista dei nazifascisti nel corso del conflitto – in ritirata dal fronte jugoslavo.
Ma questo non fu che l’ultimo, violento episodio di una lunga serie, iniziata con la Grande guerra, nel corso della quale un altro confine si spostò svariate volte a sud e a nord della città di Gorizia a seconda delle sorti delle parti in causa: il Regno d’Italia da una parte, l’Impero Austro-Ungarico dall’altra.
Poi arrivò il fascismo, l’italianizzazione forzata delle popolazioni annesse al Regno d’Italia e la lotta partigiana: in questo lembo di terra i confini non attraversano solo il territorio, ma trafiggono le persone, le mutilano nel tentativo di definire e distinguere forzatamente un “noi” e un “loro”. In quei fatidici anni Quaranta, lungo il confine orientale si combatterono più guerre in una: una guerra di liberazione contro l’invasore tedesco e due guerre civili, una prima tra fascisti e antifascisti e una seconda all’interno del movimento partigiano stesso, in competizione tra le sue varie anime per la determinazione dell’Italia che verrà.
È in questo contesto che si consuma l’eccidio di Porzûs, quando le brigate Garibaldi, di orientamento comunista, passate sotto il comando diretto dei partigiani di Tito su ordine del Partito Comunista Italiano, attaccarono il comando delle brigate est della divisione Osoppo, di orientamento socialista e cattolico, che al contrario dei garibaldini si era rifiutata di attraversare l’Isonzo per mettersi agli ordini del IX Korpus sloveno. Tra gli altri, in questo frangente vengono fucilati il capitano Francesco de Gregori e Guido Pasolini, fratello del celeberrimo Pier Paolo. Partigiani che uccidono altri partigiani.
Anche durante la liberazione di Gorizia questi attriti si fanno sentire. I partigiani di Tito si installano nella prefettura di Gorizia, chiedendo formalmente al Cln – il Comitato di liberazione nazionale – di consegnargli il comando della città e delle sue forze armate. Al diniego del Comitato, il 2 maggio prendono unilateralmente il controllo della città e la annettono alla Jugoslavia.
Iniziano così i 42 giorni di amministrazione jugoslava del goriziano. Un arco di tempo che verrà ricordato come “terrore titino” per via delle condanne politiche, le deportazioni e, non di rado, le vendette private che, sotto le insegne della nuova autorità, scuoteranno la cittadina friulana.
Tuttavia il destino di Gorizia, con sollievo di molti e sconforto di altri, non era quello di entrare a far parte della Slovenia federale. Il 12 giugno infatti i partigiani si ritirano, lasciando il campo alle truppe anglo-americane. Si apre allora una fase di trattazione, nel corso della quale la commissione interalleata per il tracciamento del nuovo confine prende in considerazione più opzioni.
A prevalere infine è la cosiddetta linea etnica, un tracciato che indicativamente si trovava a metà strada tra gli acquartieramenti americani e sovietici, e che avrebbe dovuto dividere la popolazione secondo una sorta di bilanciamento etnico: ovvero, lasciando in Jugoslavia tanti italiani quanti sloveni in Italia. Il 10 febbraio 1947 gli accordi vengono ratificati: la proposta diviene il confine ufficiale tra Jugoslavia e Italia.
È solo a settembre però che il confine, quella linea immaginaria che ramificandosi suddivide il pianeta in tanti piccoli stati-nazione, dividendo gli uni dagli altri, diventa realtà. Il muro di Gorizia prende le sembianze di un reticolato di filo spinato e cavalli di frisia tra le due Gorizie, così vicine eppure così diverse: l’una slovena, jugoslava, comunista, l’altra italiana, occidentale, capitalista. La cortina di ferro, calata nella quotidianità, separa famiglie, amicizie, terreni. Pure i morti sono divisi tra italiani e jugoslavi, passando la linea attraverso il camposanto cittadino.
Simbolo di questa divisione è piazza della Transalpina, unico punto nel quale questi due blocchi entrano in contatto. La piazza, luogo di aggregazione cittadina per eccellenza, diviene il contrario di se stessa: divisa a metà, spaccata in due dal muro di Gorizia. Il lato jugoslavo della piazza include la stazione dei treni, sopra la quale viene issata a monito e invito la stella rossa con la fatidica frase: Mi gradimo socializem, noi costruiamo il socialismo.
Il muro di Gorizia, eretto ancor prima del muro di Berlino, nonostante le vicissitudini della storia sopravviverà al suo omologo tedesco: resterà in piedi anche dopo la dissoluzione della Jugoslavia, divenendo il confine ufficiale tra l’Italia e la neonata Repubblica di Slovenia, e sarà definitivamente abbattuto solo nel 2004, quando la Slovenia entrerò a far parte dell’Unione Europea.
Oggi, a più di settant’anni di distanza, la stella rossa della stazione dei treni è stata rimossa dalla sua posizione originaria e viene custodita all’interno dell’edificio, reliquia di un tempo che fu. Del muro di Gorizia, che per tanti anni divise la comunità goriziana in due, non rimane che un cippo e la pavimentazione di piazza della Transalpina, a indicare una linea di confine finalmente tornata solo sulla carta.
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.