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Matteo Pioppi* ci propone oggi un viaggio in Uzbekistan alla scoperta delle principali città dell’Asia centrale - Taškent, Bukhara, Samarcanda - ma anche di alcune zone più remote di questa regione, tra “le voglie sconfinate, la necessità di infinito” cantate dai CCCP.
Una Taškent sovietica
A camminare per i suoi enormi viali alberati, Taškent può ricordare molto le città degli slavi del sud, sarà per i grandissimi parchi e il tanto verde urbano o per un certo modo che hanno i musulmani di ritrovarsi e socializzare vicino ai parchi pubblici o davanti alle fontane.
Sul lato destro di un’area pedonale poco dopo piazza Amir Temur, in una ventina di tavoli da ping pong all’aperto, ragazzi e ragazze vestiti con pantaloni scuri e camicia bianca giocano felici tra loro. Poco più avanti un piccolo luna park di quartiere intrattiene con le sue luci colorate alcuni avventori, tra di loro un’anziana signora spara con un kalašnikov ad aria compressa per vincere un pupazzo. All’imbrunire, sotto l’ombra di un tiglio (l’albero dell’unità dei popoli slavi), una coppia di giovanissimi si bacia clandestinamente.
Taškent, dopo Mosca, San Pietroburgo (Leningrado) e Kyiv, era la quarta città per abitanti dell’Urss; rasa quasi completamente al suolo da un terremoto nel 1966, fu interamente costruita dai sovietici. Il nostro giro nella capitale ha inizio dal Bazar Chorsu (1978), uno dei più grandi dell’Asia centrale, al suo esterno si estende un grande mercato informale di frutta e verdura, basta mettere un telo per terra e disporvi sopra le merci. Superato questo primo girone circolare, andando in direzione dal bazar, si passa attraverso una struttura in cui sono presenti banchi in muratura che impressionano per allestimento, assortimenti e varietà di frutta, ortaggi e spezie. Una volta attraversato questo spazio si accede al bazar vero e proprio che ricorda la forma di una yurta, però in cemento armato.
Al piano terra gli uomini gestiscono i banchi della carne (ovini, bovini e pollame) che sezionano sul posto a colpi di accetta e mannaia. Le varie pezzature e i vari tagli vengono poi esposti e impilati gli uni sugli altri, sia nelle vetrine refrigerate sia direttamente sui tavoli di lavoro. Il pavimento è scivoloso a causa del grasso animale e l’odore è molto forte, si riconosce distintamente quello degli ovini. Blocchi di carne un po’ ovunque riempiono tutto lo spazio disponibile alla vendita, i quintali di animali macellati propongono una coreografia primordiale.
In continuità con i banchi della carne troviamo quelli dei prodotti caseari (kefir, ricotta, crema di latte, burro e formaggi vari) e delle verdure in salamoia (pomodori, cetrioli, carote, verza, barbabietole), tutti gestiti da donne. Questa disposizione ordinata e razionale delle merci esposte si ritrova in tutti i bazar uzbeki: quando una cosa è fatta bene perché non riproporla?
Il luogo in cui è stato eretto il bazar Chorsu è da secoli dedito al commercio e ai mercati, poco più avanti infatti si accede all’antico mahalla di Taškent, l’unico sopravvissuto al terremoto del 1966. Le case sono costruite in mattoni ricoperti da un amalgama di terra e fieno, le strade sono strette, le case a un solo piano, i giardini interni hanno alberi da frutto, gli anziani agli angoli delle strade passano il tempo a parlare in piedi, i bambini si rincorrono all’uscita di scuola e giocano a calcio per strada. Qua è lontano il caos del mercato e il rumore del traffico cittadino, sono bastati una manciata di vicoli per trovare la tranquillità. Tubi gialli escono fuori dal manto stradale e si collegano ai primi piani delle case, sono le condotte del gas a cui i bambini si aggrappano per giocare. Qui la vita si è fermata in un lasso temporale che ha a che fare con un’idea molto felice di libertà infantile e di gioia di vivere.
Il periplo sovietico continua con la visita al circo (1971) che ha la forma di un’astronave aliena (gli spettacoli si tengono solo nel fine settimana) e prosegue con il Palazzo delle Nazioni (1981) ora adibito a sala concerti.
Durante la nostra visita, si sta esibendo un giovane cantante uzbeko, alcune ragazze escono emozionate in lacrime (dev’essere uno di quei cantanti pop adolescenziali che induce il pianto facile). L’interno del palazzo è magnifico, proiettato direttamente nel futuro, le cubature sono enormi e gli spazi ampi hanno qualcosa in sé di sacrale. Il giro finisce al cinema teatro Panorama (1970).
Il cielo grigio dell’Asia centrale non promette nulla di buono, il profumo della pioggia è molto più dolce che altrove e qua piove ancora come trent’anni fa nel Mediterraneo prima che il cambiamento climatico imponesse rapide burrasche concentrate in micro settori.
Appena arrivo in prossimità dell’edificio percepisco il rumore di una sezione ritmica, provo a cercare il suono con lo sguardo per capire da dove proviene. Un porta è aperta, mi ci intrufolo dentro e assisto alle prove di una rock band locale. Lo staff mi dice che il concerto si terrà questa sera, gli spiego che sono qua perché fuori piove e non sapevo dove ripararmi, net problem puoi rimanere per il sound-check. Ascolto un’oretta di prove, un gruppo di otto persone, quattro ragazzi e quattro ragazze, suona pezzi propri e cover di gruppi internazionali, spaziano dai Deep Purple ai Laibach. L’acustica dentro al cinema teatro Panorama è sopraffina, raramente ho sentito suoni più nitidi e potenti di quelli.
Il mattino successivo la neve ricopre le montagne vicine, il vento gelido colora di azzurro gli edifici in cemento, il bar Vienna dell’Hotel Uzbekistan serve una speciale colazione continentale. Nella hall una donna fuma una sigaretta per uccidere la noia in attesa del taxi. Anche per noi è giunta l’ora di partire.
Sul confine afgano
Raggiungo il confine grazie a Zafar, l’autista che mi è stato consigliato per visitare gli scavi archeologici di due monasteri buddisti. Fayaz Tepe e Kara Tepe sono stati trovati vicino all’Amu Darya, il fiume più lungo dell’Asia centrale che segna il confine tra Uzbekistan e Afghanistan. In questa zona, oltre ai monasteri, è stata ritrovata anche la vecchia Termez, importante città portuale costruita da Alessandro Magno e rasa al suolo da Gengis Khan.
La nuova Termez invece, costruita a fine Ottocento come guarnigione russa, è una città sgretolata senza alcuno spessore di principio che l’abbia organizzata per la vita sociale. C’è solo un parco, gigante e realizzato solo di recente, dove gli adolescenti si imboscano a fumare sigarette.
I due monasteri che visitiamo appartengono a una storia più grande. Il buddhismo, risalito dall’India tramite Pakistan e Afghanistan, si è diffuso in Cina e in Oriente grazie al fatto che proprio in questo lembo di terra ha trovato il punto di contatto tra Asia e Far East.
A raccontarlo è la guida, Jamshed, mentre raccoglie da terra rimasugli di proiettili sparati dai talebani. Il confine è visibile a poco meno di un paio di chilometri, appena scorgono qualcuno camminare sul sito archeologico i loro camion iniziano a muoversi, ma Jamshed non sembra preoccupato, dice brat net problem sorridendo con i suoi denti d’oro. Spiega che quando le pecore dei pastori si avvicinano troppo al confine i talebani iniziano a sparare e già che ci sono prendono il pretesto per mirare anche ai monasteri. Oltre ai camion in movimento si vede distintamente l’Afghanistan, un territorio fatto di dune di sabbia e montagne altissime a perdita d’occhio, uno spazio arido, grigio e sconfinato.
I monasteri di Fayaz Tepe e Kara Tepe sono stati scoperti negli anni Sessanta del Novecento quando il paese faceva ancora parte dell’Urss. Il sito è un luogo davvero spirituale, potente e mistico. La stupa in cui era contenuta la statua del Budda seduto è costruita sulla linea che il sole compie da est a ovest in modo tale da essere sempre illuminata. Entrambi i monasteri sono suddivisi in cucina, luogo di preghiera e dormitorio, sono visibili i resti dei forni tandoori, delle tubature in ceramica che portavano l’acqua dall’Amu Darya al monastero, le cripte in cui erano conservate le sature e alcune colonne originali.
Attorno, steppa e deserto. Jamshed finisce la visita in una costruzione che chiama museo, ma in verità è una grande stanza con all’interno alcuni reperti originali trovati nel sito archeologico. Quello che cattura la mia attenzione è un oggetto che sembra una trottola di terracotta, la stessa che si trova raffigurata in un bassorilievo presente al Museo della Storia uzbeka di Taškent, in cui vengono rappresentati monaci buddhisti di Fayaz Tepe e Kara Tepe con in mano proprio quell’oggetto. Quella specie di trottola è una piacevole coincidenza, qualcosa che ritorna nel breve lasso di pochi giorni, fa un giro su se stessa e ricade nel punto esatto in cui doveva precipitare, ovvero dentro a una casualità e a una probabilità su un milione di vederla prima dipinta in un bassorilievo e poi vederla nella realtà del luogo stesso.
Con Jamshed un grande sorriso, spasibo e mano sul cuore sono sufficienti per salutarlo e ringraziarlo per la visita di questo luogo incredibile. Con Zafar è diverso, lui corre spedito sulle strade uzbeke, ascoltando canzoni tamarre che pompano nelle casse della radio e ogni volta che passiamo davanti a una moschea rivolge i palmi verso il cielo e si passa le mani sul viso.
Per arrivare al sito di Stupa Zurmala ci vogliono venti minuti di strade bianche e si passa per una specie di distretto artigianale totalmente informale in cui in una serie di cortili vengono prodotti mattoni a mano impastando terra e fieno.
Quando arriviamo alla stupa, proprio in mezzo ai campi coltivati, alcuni operai stanno producendo mattoni enormi. Immaginate come quando si fa la fontana di farina per fare le torte, sui bordi la farina e al centro le uova e lo zucchero, mescoliamo leggermente e poi iniziamo ad impastare. Lo stesso avviene con la produzione di mattoni, basta sostituire la terra alla farina e paglia, acqua e terriccio alle uova e allo zucchero. Da questa enorme fontana di terra tre operai estraggono l’impasto necessario da mettere negli stampi per produrre i mattoni e farli essiccare al sole. Il tutto sotto una stupa buddista alta quattordici metri del II secolo a.C.. Zafar estrae da una borsello dell’erba da tenere in bocca e masticare, tramite Google Translate chiede se il tour è stato di mio gradimento; è stato incredibile, gli dico, mai visto qualcosa di così potente e primigenio.
Incontri fuori dal tempo
La possibilità di viaggiare in treno permette di vedere paesaggi incredibili, ore e ore di deserto rosso e ocra e ancora ore e ore di niente a perdita d’occhio e poi ancora oltre e di più, “densamente spopolata è la felicità” [Bolormaa – CSI, da Tabula Rasa Elettrificata, Polygram, 1997], me l’ha ricordato un caro amico prima di partire. Il cielo stellato di questo niente è qualcosa di indescrivibile, fitto di stelle come la testa di capelli di un giovane esemplare di essere umano. Arbusti secchi e grigi, elettrificazione sovietica, nuvole altissime in un cielo che non finisce mai. Spazi sterminati sopra di noi. Vastità e cubature immense di vuoto da ammirare a occhi spalancati in un paesaggio immutabile per ore e ore di viaggio.
Il treno porta agli incontri. Due i miei più significativi. Il primo è con Umid, mio coetaneo, gentilissimo e molto premuroso. Abita nella capitale, lavora come revisore dei conti per un’azienda statale, ha una moglie e tre figli. Per il suo matrimonio i parenti gli hanno dato duemila dollari e quattro capre. Abbiamo iniziato la conversazione prendendo un tè, in ogni vagone di qualsiasi classe è presente gratuitamente un samovar con l’acqua sempre calda e delle bustine di tè nero e verde. Dopo un primo momento di reciproca diffidenza mi ha tempestato di domande, che poi sono sempre le stesse che mi fanno tutte le persone che incontro: conosci Eldor Shomurodov? Quanti anni hai? Sei sposato? Quanti figli hai? Viaggi da solo o in gruppo? Che lavoro fai? Quanto guadagni al mese? Vodka o vino? Quando costa la carne al chilo in Italia? Fumi?
Con Umid ho cantato L’italiano di Toto Cotugno in diretta WhatsApp con la sua famiglia. Inizialmente ha messo la base della canzone su YouTube, poi un’esibizione del grandissimo Toto live da qualche parte e infine la versione karaoke che abbiamo cantato per la sua famiglia. Momenti di invadente felicità.
Dopo le risate iniziali si è mostrato però molto preoccupato per la guerra in Ucraina e allo stesso tempo allibito dal fatto che l’Europa non provi a mediare tra Nato e Russia. La sua posizione è come quella del suo paese: vuole la pace.
Come riportava Alexander Langer in un suo articolo, “la logica dei blocchi blocca la logica”. Mi trova d’accordo Umid e glielo dico, lui è raggiante di questa convergenza e continua a ripetere mir alternando sorsi di tè e sguardi di soddisfazione.
In secondo luogo, si mostra preoccupato anche per il riscaldamento globale: secondo le previsioni statali, entro il 2030 l’Uzbekistan finirà le risorse idriche sotterranee e al momento non sanno ancora come porvi rimedio.
Omar invece ha 22 anni e studia economia all’università. È molto incuriosito dalla vita bizzarra che conduciamo in Europa, ma il suo orizzonte rimane l’Asia centrale e la Cina. Mi consiglia di andare a visitare tutti gli -Stan che hanno fatto parte della regione storica del Turkestan, dice che sono i più belli. Mi chiede come mi trovo in Uzbekistan, gli dico bene, siete tutti molto gentili e il paese è davvero sorprendente. Poi mi chiede quanto costano Ferrari, Lamborghini e Maserati anche se poi sottolinea il fatto che comunque a loro non servirebbero perché con le strade che hanno, indicando fuori dal finestrino il deserto, sono macchine che si romperebbero subito.
Per Omar l’Europa è un posto di vecchi che fanno cose eccentriche e che proprio per questo fanno molto ridere. L’età media in Uzbekistan è 29 anni contro i 44 europei (46 in Italia), mentre l’aspettativa di vita in Uzbekistan è di 77 anni contro gli 80 europei (82 in Italia). È una società giovane, piena di fiducia nell’avvenire.
Quando sono sceso dal treno mi ha abbracciato come se fossimo grandi amici, mi ha preso lo zaino e me l’ha passato quando sono sceso sul binario. Lui continuava il viaggio fino ad Andijan, valle del Fergana. Un altro posto lontano, nel cuore dell’Asia.
Periferie
Esauriti i centri delle città, possiamo camminare nelle prime periferie urbane. Quelle sovietiche sono piene di parchi pubblici, fontane, luoghi di ritrovo e negozi di prossimità. Prospettive moderne per vivere lo spazio urbano in modo differente, questo lo si nota soprattutto a Taškent e a Samarcanda; in quest’ultima il quartiere russo è davvero pieno di vita nei parchi, nei locali e nelle strade.
Le prime periferie più tradizionali, i mahalla, rispondono invece alla tradizione dell’Asia centrale: un dedalo di vicoli che si intersecano tra loro per sbucare su piccole piazze circondate da alberi o su piazzali assolati davanti a nascoste e umili madrase. I vicoli sono la dorsale urbana di questa tipologia di quartieri e determinano un tempo quotidiano immerso nella luce e nel cielo.
Ai lati di queste strade che sembrano portare da nessuna parte, ci sono muri di case che nascondono abitazioni a un unico piano con giardino, orto e alberi da frutto. Quell’unico piano permette ai vicoli di essere estremamente in contatto con la luce e con il cielo che è alto e vasto come non si può immaginare, sembra a tratti di camminare su strade di campagna immerse nella luce.
Solitamente a fianco di queste case c’è una rimessa in cui si tengono animali, spesso capre e galline, la cui presenza si percepisce grazie al belare delle prime. Le case hanno il tetto in lamiera e sono costruite in mattoni ricoperti da un impasto di terra e fieno, così come i muri che le delimitano. Magari più nei piccoli centri (come Khiva) ma anche a Bukhara e Samarcanda, alcune abitazioni nei mahalla hanno davanti casa uno spazio esterno adibito all’impasto di acqua, terra e fieno per fare manutenzione ai muri esterni. Altra caratteristica sono i forni tandoor in argilla piazzati agli incroci delle strade e sulle aie di piccole case dai cortili comunicanti al fine di utilizzarli come forni comuni per la cottura del pane.
Nei mahalla i bambini giocano senza l’eccessivo controllo genitoriale, il quartiere svolge un ruolo di protezione senza imporre nessuna autorità al riguardo, è la sua impenetrabilità al traffico e al passaggio di persone che ne determina la sicurezza, perché non c’è alcun motivo per il quale una persona che non abiti qui dovrebbe spingersi a camminare in un quartiere del genere.
Anche sinagoghe e moschee fanno parte del tessuto urbano dei mahalla, soprattutto a Samarcanda e Bukhara. La comunità ebraica è arrivata in Uzbekistan dall’Iraq, sembra, a partire dal VI secolo a.C a seguito dell’esilio imposto da altre tribù israelitiche. Queste comunità sono talmente distanti dalla storia di Israele dall’aver elaborato un’apposita lingua, il bukhori, simile al persiano ma scritta utilizzando l’alfabeto ebraico. Ed è camminando in questi mahalla che si inizia a percepire la complessità storica e sociale di alcune città in cui varie comunità vivono in pace le stesse strade e condividono gli stessi spazi urbani nel reciproco rispetto delle differenze. Anche se è da annotare che dagli anni Novanta una forte emigrazione soprattutto verso l’America ha indebolito notevolmente la comunità ebraica locale che ora, con grandi difficoltà, tenta di portare avanti una tradizione millenaria di convivenza, alleanza e condivisione con la comunità musulmana.
Samarcanda, il luogo della sabbia
A Samarcanda, giunto in treno al mattino presto, vento gelido e sapore d’inverno, il Registan (in persiano significa luogo della sabbia) mi appare in tutto il suo splendore: madrase e moschee luccicano sotto la luce del sole, maioliche azzurre decorate nei minimi dettagli, soffitti e cupole in oro, meticolosità, splendore, magnificenza ed esagerazione. Ogni stanza da rimanere a bocca aperta, si resta sbalorditi dalla bellezza, un colpo d’occhio e un colpo al cuore. I cortili delle madrase, spesso con alberi e luoghi in cui appartarsi, sono il regno della tranquillità e della contemplazione. Create per questo obiettivo, il risultato permane nei secoli. Tra tutti soprattutto il complesso di Bibi-Khanum, costruito dopo il saccheggio di Delhi, trasmette una forte sensazione di tranquillità e pacificazione con il mondo intero.
Poi è il turno della necropoli di Shah-i-Zinda (in persiano significa il re vivente), complesso di mausolei molto lontani dalla morte e molto vicini all’estasi. Camminarci dentro è come camminare in un dipinto, tutto è perfetto e cattura l’attenzione come i fiori in primavera dopo un grigio inverno. Infinite tonalità di blu e celeste, maioliche di precisione unite tra loro a formare decori e motivi incredibilmente scenografici. Il misticismo della morte immerso nel blu del cielo asiatico, Shah-i-Zinda luogo sacro per l’Islam, nei secoli come oggi meta di pellegrinaggio.
Samarcanda è un luogo che permette la convergenza, è un imbuto di tutta l’Asia, da qui sei costretto a passare se dall’Oriente vuoi andare in Occidente e viceversa. Il suo caravanserraglio ha rifornito i mercati occidentali delle Repubbliche Marinare e da lì a tutta l’Europa. Questo pezzo di terra è stato un acceleratore nella circolazione di merci e idee, in queste poche strade piene di gente rispetto al nulla del territorio che gli sta attorno, sono passati i principali vettori verso occidente e oriente. Questa è l’Asia, qualcosa che sta in mezzo, luogo di contaminazione e sincretismo religioso.
Vi è a Samarcanda infatti anche un quartiere ebraico fondato dagli ebrei di Bukhara, con una piccola sinagoga gestita da un rabbino che parla francese, molto gentile e disponibile. Al suo interno non c’è nessuna bandiera di Israele, lui parla sconsolato di come l’emigrazione verso l’America e Tel Aviv abbia piano piano eroso la sua comunità. Sembra rimpiangere i tempi dell’Unione Sovietica quando una grande comunità di ebrei polacchi frequentava la sinagoga e il quartiere, è rammaricato all’idea che i suoi abbiano scelto le luci dell’occidente a discapito delle origini asiatiche, affascinati dal denaro sonante utilizzato come esca per farli emigrare. La geografia dei luoghi che sopravvivono alla storia dei popoli è sinonimo di una comunità che resiste e accetta la tradizione di una pratica secolare che impone dei doveri. Mi chiede se sono ebreo, gli dico di no, che non credo in niente. Mi mette una mano sulla spalla dicendomi qualcosa in uzbeko che non capisco, ma sembra incoraggiante.
Il mattino successivo capito per caso in una grande festa popolare al parco Navoi. Sotto una leggera pioggia quasi vaporizzata dal cielo una serie di banchetti si susseguono in rappresentanza delle varie facoltà universitarie che offrono contemporaneamente cibi locali e informazioni sui corsi. Poco più avanti si alterna il settore delle minoranze locali, dunque il banchetto degli armeni, dei coreani e degli ortodossi. Poi gli stand canori in cui, accompagnati da basi elettriche ad alto tasso di tamarritudine, ragazzi e ragazze cantano e ballano nella pienezza dei loro vent’anni, con o senza velo, con o senza partner. Su un palco poco distante si esibisce un coro di sole donne dai lineamenti orientali, cantano e tengono in mano un mazzo di fiori di plastica. I banchetti più kitsch sono quelli sul folklore locale e sugli usi e costumi dell’Uzbekistan: vestiti tradizionali, animali impagliati, yurte, cantini pieni di plov, enormi ceste colme di pane, uomini vestiti da guerrieri di Gengis Khan e donne da principesse, sopracciglia folte e denti d’oro. Samarcanda è il punto di incontro di tutto.
Bukhara, il faro nel deserto
Spiritualità, favole e materialismo sovietico. Nel deserto la lentezza, in città la velocità.
Se c’è un immaginario che mi fanno venire in mente le imponenti mura dell’Ark di Bukhara è quello della Fortezza Bastiani del Deserto dai Tartari di Dino Buzzati. Dalla sommità delle mura, mentre si osserva dall’alto la città che degrada nel deserto, è facile immaginare il sottotenente Drogo che sconsolato rimane in attesa dell’arrivo dei tatari. Da questa altezza l’orizzonte non ha mai fine, tutto sembra davvero lontano e distante senza la possibilità di alcuna prossimità. Le mura dell’Ark, così come la sua storia, si perdono nella leggenda dei tempi e incarnano anch’esse alla perfezione quello che succede spesso a queste latitudini, e cioè che le cose si perdono e nessuno è in grado di risalire a chi ha costruito o fatto cosa. Quello che non si sa lo si lascia all’ignoto sconfinato che hanno attorno; da queste parti è lo spazio, e non il tempo, a preservare la vita.
Ed è così lampante questo che a Bukhara c’è un minareto alto 48 metri, edificato attorno all’anno 1000 e risparmiato dalle razzie di Gengis Khan. Oltre a richiamare i fedeli alla preghiera, il minareto Kalyan aveva altre due funzioni. La prima era di orientamento: se di giorno era ben visibile in tutto il deserto circostante, all’imbrunire veniva acceso un fuoco sulla sommità assolvendo così alla funzione notturna di faro nel deserto. La seconda finalità era inerente alle pene capitali. I condannati venivano infatti fatti salire sulla sommità del minareto, messi in un sacco e infine gettati di sotto. L’ultima esecuzione risale all’inizio del Novecento.
Più di tutte Bukhara risponde alla complessità di questo territorio e così anche il suo quartiere ebraico.
A guidare la visita al museo della comunità è una ragazza musulmana che frequenta la scuola ebraica e fa la guida volontaria nel fine settimana. La prima e unica volta che ho visto una ragazza musulmana spiegarmi qualcosa sulla cultura ebraica è stato a Sarajevo, che come Bukhara è stata musulmana, poi socialista e ora prova a difendersi nella contemporaneità globale e digitale. Come per Samarcanda, anche qui non ci sono bandiere di Israele, la ragazza inoltre spiega che negli ultimi due anni sono rientrate da Tel Aviv ben cinque famiglie. La guardo perplesso, perché mi sembra tutto estremamente distante da quello che accade nel bacino del Mediterraneo, delle brutalità, degli odi e degli orrori.
In definitiva la componente multiculturale fa dell’Uzbekistan un territorio unico: infatti, dove altrove le componenti slave, asiatiche e orientali fratturano le comunità in piccole patrie in guerra nelle loro infinite rivendicazioni, qui le stesse componenti diventano ponti che accomunano spazi e territori apparentemente distanti tra loro.
“Le voglie sconfinate, la necessità di infinito” in Uzbekistan
L’Asia centrale è proprio questo, l’infinito del paesaggio, dei grandi spazi, di tutto ciò che non è controllabile o governabile dall’uomo. Viaggiare all’epoca di questo mondo globalizzato in un luogo così distante da tutto ciò che è Occidente libera la mente dalle gabbie di quella presunta libertà che ci siamo autocostruiti e porta a guardare l’orizzonte alla ricerca di quell’infinito che serve per avere un punto di caduta distante e inafferrabile, ma proprio per questo desiderabile.
Viaggiare, come molte altre cose, centra con il profondo desiderio di osservare qualcosa che sfugge alla nostra comprensione, perché è in quel singolo istante che possiamo ritrovare il gusto della scoperta che soddisfa il nostro bisogno inquieto di felicità.
Le voglie sconfinate, la necessità di infinito
[Manifesto – CCCP, da “Socialismo e Barbarie”, Virgin Dischi, 1987]
Bibliografia essenziale per un viaggio in Uzbekistan: Samarcanda. Storie in una città dal 1945 a oggi di Marco Buttino, Viella, 2015. CCCP Cosmic Communist Construcions Photographed di Frédéric Chaubin, Taschen, 2020. Meridiani – Uzbekistan, Editoriale Domus, 2019. Uzbekistan. Nelle steppe dell’Asia Centrale di Prisca Benelli e Claudio Deola, Polaris Edizioni, 2019. Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale di Tino Mantarro, Ediciclo, 2019.
* Classe 1983, nel 2012 ha fondato con alcuni amici Bébert Edizioni per cui ha curato vari libri, tra cui Sopravvivere a Sarajevo, Visto Censura. Lettere dei prigionieri politici in Italia 1975-1986, Questi fiori malati. Il cinema di Pedro Costa, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr. Con la raccolta di racconti Geografie, nel 2020 ha vinto il Premio Navile – Città di Bologna. Collabora attualmente con la rivista QCode.