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Presentato al Festival dei Popoli di Firenze, dove è stato anche premiato, Agàpe di Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares è un documentario che prima di parlare di migrazione, parla d’amore. E soprattutto, lascia che a parlare siano i protagonisti di questa migrazione. Nella vasta produzione giornalistica e artistica dedicata alle rotte migratorie, Agàpe si distingue per la forza evocativa eppure concretissima del suo linguaggio. Ne abbiamo parlato con la regista, la giornalista freelance italo-etiope Velania A. Mesay.
Complimenti intanto per la realizzazione di questo film che si differenzia molto dai documentari sui temi della migrazione che mi è capitato di vedere finora. Ti chiedo come prima cosa di raccontare un po’ come è nata l’idea di girare Agàpe in questi termini: perché, diciamolo subito, non è un documentario incentrato sulla geografia delle rotte, quanto sugli stati d’animo e le emozioni di chi si sposta.
L’idea è nata da un incidente di percorso, perché la prima volta che dovevamo andare a Lesbo era dopo l’incendio di Moria, ma per una serie di vicissitudini, problemi e malintesi non siamo riusciti ad andare. In quel lasso di tempo abbiamo iniziato a riflettere su quello che avremmo fatto lì e ci siamo chiesti: “è davvero utile che andiamo a Lesbo a intervistare queste persone sugli stessi temi che li hanno visti protagonisti di tutte le campagne giornalistiche e fotografiche finora?”. Non perché domande di questo genere — ad esempio, come si vive nel campo, come è stato l’incendio, quali violenze hai subito, da che paese scappi — non siano importanti; il valore della testimonianza è un dovere. Semplicemente però ci siamo detti che avremmo fatto una cosa uguale alle altre duemila già pubblicate.
Da lì è nata l’idea di intervistarli sull’amore, tema che abbiamo scelto in quanto universale, di cui potevamo parlare con tutti e che poteva accomunare tutte queste persone a prescindere dalla loro condizione di essere migranti. Nel documentario il sottofondo è certamente la migrazione, ma volevamo far parlare le persone, gli esseri umani. A noi è venuto in mente il tema dell’amore, magari un’altra persona avrebbe potuto trovare un altro tema comune. Noi abbiamo pensato all’amore perché è un linguaggio che poteva accomunare non solo le persone nel simposio immaginario che abbiamo creato, ma anche gli spettatori, perché l’amore è qualcosa in cui si può riconoscere qualsiasi persona, a prescindere dal progetto migratorio e di vita.
Quali sono state le reazioni delle persone quando ponevate loro domande sull’amore? Immagino sia risultato per loro abbastanza inusuale rispetto al genere di domande che si sentono rivolgere più di consueto, no?
Dipende da chi e da dove. Le interviste sono state girate sia a Lesbo che a Cipro, realtà che presentano due situazioni completamente differenti sia dal punto di vista della narrazione mediatica che dal tipo di fenomeno migratorio.
A Lesbo, realtà che era stata molto coperta a livello giornalistico globale, la gente era molto stufa; non era molto bello presentarsi come giornalisti e all’inizio è stato difficile scardinare il primo approccio. Quando siamo arrivati, c’era appena stato l’incendio e le persone avevano capito che nonostante le proteste e le interviste che avevano rilasciato la situazione non stava cambiando. Veniva meno per loro il senso di concedersi a un’intervista. Il fatto di parlare d’amore è risultata una cosa innovativa, soprattutto per chi si trovava lì da più tempo.
La situazione a Cipro invece non è molto raccontata a livello mediatico, perciò c’era molta più necessità di denuncia e il discorso dell’amore poteva arrivare in un secondo momento. All’inizio la necessità più grande per loro era denunciare le condizioni in cui stavano vivendo: quando siamo andati noi, le persone che abbiamo intervistato ci dicevano che eravamo i primi giornalisti che li intervistavano, si sentivano abbandonati e ignorati. Lì il lavoro allora è stato diverso: abbiamo comunque raccolto le loro denunce, ma non sono entrate all’interno del documentario perché questo aveva un altro scopo; tuttavia, sulle base delle loro denunce io ho scritto vari articoli e reportage e anche un podcast [Cipro. La nuova porta d’Europa, andato in onda su Rai Radio 3, che abbiamo consigliato qui].
In generale, ci sono state reazioni varie, di sorpresa, di contentezza, si chiedevano “come mai questi sono arrivati dall’Italia per chiederci cosa pensiamo noi dell’amore?”.
A questo punto ti chiedo come spieghi la scelta della lingua greca, che ricorre tanto nel titolo quanto nei sottotitoli che suddividono il documentario. Io mi sono data una mia spiegazione guardando il film, ma voglio prima sentire la tua versione.
Innanzitutto, il documentario è girato interamente in acque greche, ovvero a Lesbo e nella repubblica greca di Cipro. Quando, una volta tornati a Roma, abbiamo raccolto, tradotto e trascritto tutte quante le interviste (in alcuni casi non sapevamo cosa le persone ci avessero risposto non avendo con loro una lingua veicolare comune), leggendole mi sono resa conto che tutte le risposte vertevano intorno a tre temi quando si parlava d’amore: c’erano l’amore famigliare, l’amore religioso e l’amore romantico. Se uno guarda all’antica Grecia, lì c’erano tutte queste definizioni di amore e c’erano delle parole diverse per esprimerle: Eros, ovvero l’amore più erotico, Filia, l’amore dell’amicizia, Storge, l’amore famigliare, e poi Agàpe che è quello spirituale e che noi ci siamo sentiti di usare come contenitore per tutte quante le altre sottoforme. Ora però voglio sentire la tua interpretazione!
In realtà è legata a quello che dicevi tu, ma forse ho sovrainterpretato il fatto che il tutto si svolge in territori di cultura e lingua greca e dunque, nell’immaginario storico-culturale, nella “culla” della civiltà europea. Eppure, le persone che giungono in questa “culla” della civiltà europea si scontrano con l’inciviltà attuale. Mi sembrava che queste parole greche andassero a creare una situazione ossimorica rispetto alle immagini che si vedono nel film.
È una bellissima interpretazione, non ci ho mai pensato nel caso del documentario, ma mi è capitato riflettendo su altre cose, come il concetto di Xenia, l’accoglienza, un concetto dell’antica Grecia e che adesso è appunto un ossimoro rispetto alle politiche messe in atto dall’Europa e dalla Grecia stessa. Quindi è un’interpretazione che si può senz’altro aggiungere.
Resto sull’ossimoro perché mi sembra la figura retorica che va un po’ a chiudere il documentario con una scena finale, fortissima a mio avviso, dove vediamo alcuni momenti della protesta dei migranti a Lesbo: qui ci sono alcuni elementi visivi che rappresentano quella civiltà europea “ossimorica” che descrivevo prima, come l’elicottero che sorvola le persone, le camionette della polizia, i lacrimogeni, e così via. Questi elementi visivi in qualche maniera sembrano autoescludersi l’uno con l’altro e volevo allora chiederti di commentare questa scena.
Diciamo che la scena finale serve per riportare tutto sul piano della realtà dato che il documentario è costruito, sempre per parlare in termini di figure retoriche, su un climax, un crescendo; se all’inizio l’amore è riportato su un piano più filosofico, alla fine c’era bisogno di traslare tutto sul piano della realtà, ovvero concentrarsi sul trattamento che ricevevano queste persone. In quelle scene finali ci siamo noi e siamo rappresentati dai poliziotti greci.
Mi sembrava necessario inserire quelle immagini soprattutto perché mostrano che queste persone non sono solo vittime, ma sono persone che si organizzano, che protestano, che marciano, che inneggiano alla libertà.
E il documentario si chiude con uno sguardo che era per me molto importante, uno sguardo tra generazioni, uno sguardo che parla del futuro dell’Europa: è lo sguardo intenso tra un poliziotto greco in tenuta antisommossa e un bambino probabilmente afgano che lo guarda con questo sguardo di sfida. Secondo me, in quell’immagine sono racchiuse le sfide del futuro dell’Europa in termini di migrazioni, accoglienza, convivenza. Queste persone sono già qui, possiamo chiudere gli occhi, continuare con la politica di “deterrenza”, ma il trattamento che gli stiamo dando avrà le sue conseguenze in futuro. Io dico sempre che è un miracolo come queste persone riescano a sopravvivere nonostante tutto, nonostante al loro arrivo abbiano provato a distruggerle in tutti i modi fisicamente ma soprattutto psicologicamente.
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Certo, e poi tutte le questioni che rimangono irrisolte nell’animo e nella psiche di queste persone diventano problematiche anche nostre, dal momento che facciamo tutti, volenti o meno, parte della stessa società, nello stesso spazio geografico. Se c’è qualcuno che ha subito un trauma, quel trauma non è solo suo, ma di tutta la società.
Se uno vuole vederla in maniera cinica, anche se non è questo il mio approccio, e prendere la questione dunque dal punto di vista economico, che è quello che interessa sempre di più, c’è da chiedersi chi si farà carico di questi traumi? La cosa che mi stupiva di più a Lesbo era che i traumi erano più quelli ricevuti lì nell’isola che durante tutto quanto il viaggio.
Il film è stato selezionato al Festival dei Popoli di Firenze, dove è stato premiato con il Premio di distribuzione CG ENTERTAINMENT “POPOLI doc”. Quali feedback avete ricevuto in quell’occasione?
Per ora le persone con cui ci siamo confrontati hanno detto che il film è piaciuto molto soprattutto per il linguaggio, per aver cambiato la prospettiva. Il linguaggio è semplice, non è un documentario difficile, non c’è molto da capire. Questo probabilmente facilita il fatto che le persone si possano interessare al tema.
Ci sono persone che si occupano di migrazione dagli anni Novanta e che arrivati a questo punto si dicono stanchi, ammettono di scrivere per inerzia, non sanno più come far arrivare questo tema al pubblico. Ci hanno riferito che il documentario è un po’ una ventata di novità perché cambia il linguaggio e forse non è un caso che l’abbiano realizzato delle persone giovani e, nel mio caso, una ragazza figlia di una donna non italiana. Volevamo decolonizzare il linguaggio. Mi è stato chiesto se queste persone siano state meglio dopo l’intervista; io ho risposto che non mi sento di rispondere, non voglio fare le veci di queste persone, è come se qualcuno volesse parlare per me in terza persona. Questo documentario non è per loro, loro hanno consapevolezza di chi sono, da dove vengono e cosa vogliono fare; noi ce l’abbiamo?
La questione del linguaggio fa parte di un dibattito che è già nato tra le persone che seguono questi temi da tempo e che si stanno ribellando a quella “pornografia del dolore” che ha creato alla fine l’effetto opposto, la desensibilizzazione: quando sei abituato a vedere di tutto, non so se poi ti sorprendi o ti arrabbi più. Noi abbiamo cercato un nuovo approccio e speriamo che funzioni.
Dopotutto, è giusto cambiare il linguaggio dopo che per trent’anni ne hai usato uno. All’inizio ha senso usare un approccio più didattico per presentare il tema, ma se dopo trent’anni usi lo stesso linguaggio finisci per rivolgerti sempre al tuo stesso pubblico. Io quello che mi auguro è di rivolgermi anche a un pubblico differente, benché questa forse sia un’utopia. Una madre che ti parla dell’amore verso il figlio è un qualcosa di talmente tanto universale che a livello utopico anche la donna che vota Meloni magari ci si riconosce. Al contrario, nella mamma che piange perché è dovuta scappare sotto le bombe, noi, cresciuti in una società opulenta e che non abbiamo esperienza diretta della guerra, non ci possiamo riconoscere, non possiamo purtroppo empatizzare. Sebbene anche chi la guerra l’ha vissuta più recentemente, e penso ad esempio alla Bosnia, sotto il rumore di politiche nazionaliste e divisive, finisce per non empatizzare affatto.
Ora il documentario come circolerà?
In genere i documentari circolano all’interno di festival o attraverso una distribuzione autorganizzata contattando sala per sala i singoli cinema. Quello che faremo noi è proseguire per festival italiani e europei sperando di venire selezionati per la prima internazionale, ora che c’è stata la prima italiana al Festival dei Popoli. Inoltre, stiamo organizzando delle prime autorganizzate a Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli nel mese di febbraio 2024 in occasione dell’anniversario del naufragio di Cutro.
Le immagini sono tratte dal film e messe a disposizione dalla regista
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.