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Per anni, tra i cd e i dvd accatastati accanto al computer di casa, tra videogiochi e album “the best of” fatti in casa di svariati gruppi e artisti, a spiccare è stata una custodia di plastica per cd vergini, di quelle che si comprano anche in certi supermercati più forniti. Sul fronte della citata custodia era stata incollata, dopo esser stata ritagliata con cura, la copertina di un film. La sagoma di un uomo baffuto con un cappello grigio guarda attraverso due mani che mimano un binocolo. Appena sotto, una scritta: Balkanski špijun, La spia dei Balcani. Si trattava di uno di quei film degli anni Ottanta che mio padre guardava ridendo a crepapelle almeno una volta l’anno, come un rito, come a Natale su Italia 1 viene trasmesso Una poltrona per due, e di cui mi risultava difficile comprenderne la comicità. O il valore.
Eppure, Balkanski špijun (1984, Dušan Kovačević) è molto più di una commedia. Balkanski špijun è, in realtà, se si isolano gli elementi comici, un film grottesco, tragico, incredibilmente triste, brutale, nonché l’immagine di un periodo, di una mentalità, di un paese.
La trama di Balkanski špijun
Belgrado, primi anni Ottanta. Tito è morto da qualche anno ormai e in Jugoslavia l’impeto socialista-autogestionario arranca sempre di più. Il paese è sommerso dai debiti ed è costretto a varare politiche di austerity (conosciute come stabilizacija, stabilizzazione), la disoccupazione (cronica già da tempo) peggiora e nei supermercati mancano prodotti, spesso di prima necessità. Gli Jugoslavi, in passato così orgogliosi di non dover fare file chilometriche davanti ai supermercati come i “fratelli socialisti” dei paesi del Patto di Varsavia, in un umiliante, ma diligente silenzio affollano i marciapiedi delle principali città del paese in attesa del proprio turno per comprare verdura, carne, carta igienica. Nelle pompe di benzina manca il carburante e spesso le autorità sono costrette ad interrompere la fornitura dell’energia elettrica durante determinate ore del giorno. Allo stesso tempo, in Kosovo ci sono gravi tensioni e scontri tra serbi e albanesi, gli apparati di sicurezza statali sono in costante allerta. Ai cittadini è richiesta la massima fedeltà.
Ilija Čvorović (Danilo Stojković) è un cittadino leale, perché regolarmente si presenta agli uffici della polizia per segnalare anomalie, persone sospette. Tuttavia, la fedeltà di Ilija alla sicurezza statale non è sincera o disinteressata. Ilija è un ex internato politico di Goli Otok, la più famosa prigione politica dell’ex Jugoslavia, a causa delle sue simpatie staliniste. In cambio della sua libertà, egli è stato obbligato a servire lo stato. Nel mirino della polizia segreta c’è Petar Jakovljević, il quale, dopo aver vissuto a lungo in Francia, paese capitalista, è tornato a Belgrado, prendendo in affitto un appartamento di proprietà, guarda caso, di Ilija. L’ispettore di turno non chiede a Ilija cose particolari, se non di dare quell’occhiata in più al signor Petar, per assicurarsi del fatto che questo non abbia intenzione di provocare problemi. Preso dalla paranoia, Ilija torna a casa e, dopo aver accusato la moglie di aver affittato l’appartamento ad un terrorista capitalista, dà il via ad una folle operazione di spionaggio, in cui sono coinvolti la sottomessa moglie Danica (Mira Banjac) e il fratello Đuro (Zvonko Lepetić), copia quasi esatta di Ilija. In una serie di situazioni tragicomiche e a tratti surreali, i due fratelli pedinano Petar e i suoi amici, interpretando le loro azioni come tentativi di organizzare un attentato terroristico.
La follia di Ilija e Đuro preoccupa la figlia di Ilija, Sonja (Sonja Savić), una neodiplomata in odontoiatria che fatica a trovare un impiego. Sonja tenta di convincere la madre a fare qualcosa per fermare la follia di Ilija, ma Danica, fedele e, probabilmente, impaurita dal marito che con lei si dimostra pedante, totalitario, nevrotico, non intende agire. Danica si limita semplicemente al non rivolgere parola al marito per un po’ di tempo, cosa che causa ancor più nervosismo in lui. Ilija e Đura riescono a catturare alcuni degli amici di Petar, a torturarli e ad estorcere loro “confessioni”. Petar, in realtà conscio di essere pedinato, in procinto di partire per New York chiede a Danica spiegazioni sul comportamento del marito, ma in quel momento viene catturato dai due fratelli e portato nello scantinato.
Al grottesco interrogatorio, durante il quale Đura avvisa Petar del fatto che i suoi amici “hanno confessato già tutto”, Ilija si lascia andare in un disperato sfogo, in realtà rivolto non a Petar, ma al sistema jugoslavo in generale, in cui esprime tutta la propria rabbia per esser stato incarcerato in quanto nemico dello stato, quando, in realtà, non era così. In seguito, Ilija viene colto da un malore e Petar coglie l’occasione per fuggire verso l’aeroporto. Risvegliatosi, Ilija chiama la moglie, ordinandole di chiamare l’aeroporto perché tutte le piste vengano bloccate, per poi dirigersi gattonando, seguito dal proprio cane, verso l’aeroporto stesso.
I riferimenti sociali
Numerosi sono gli elementi del film che raccontano l’epoca a cui appartengono. Come è già stato detto, il film è ambientato durante gli anni della già citata stabilizacija e vari sono i rimandi ad essa. La figlia degli Čvorović, Sonja, nonostante una laurea non riesce a trovare lavoro e quando lo trova scoppia a piangere per la felicità e per l’incredulità, tanto si sente fortunata. In un’altra scena, la moglie di Ilija, Danica, dopo aver fatto la spesa si lamenta con Petar dell’aumento dei prezzi nei supermercati e della difficoltà di trovare anche i prodotti più semplici. In questo caso, Ilija (che ha ascoltato la conversazione) riprende la moglie per aver raccontato “bugie e stupidaggini” e per l’essersi lamentata mentre “tutto il popolo sopporta e tace”. Più tardi, i due coniugi cambiano la lampadina del lampadario del salotto, che viene ora illuminato da una luce rossa. Danica, non riuscendo a trovare lampadine normali, è stata costretta a comprarne una rossa. Ilija, esasperato, commenta: “Può essere che non abbiamo una lampadina bianca? Come al bordello!”.
Nel film di Kovačević si fanno riferimenti anche ai fenomeni sociali dell’epoca. In una famosa scena, i maschi della famiglia Čvorović incontrano un gruppo di punk (Belgrado era uno dei centri della cultura punk-new wave jugoslava), coi quali si scambiano delle occhiate ostili, simbolo di un evidente scontro generazionale. Poco dopo, Ilija e Đuro si imbattono in un ragazzo che, per protestare contro il poco decoro urbano e la poca cura verso l’estetica dei palazzi belgradesi, lancia della vernice contro un palazzo urlando “Rinnovate Belgrado! Rinnovate Belgrado!”, per poi esser arrestato da due poliziotti.
Tuttavia, il tema più importante trattato in Balkanski špijun è chiaramente il rapporto tra cittadini e stato. La Jugoslavia, pur essendo un paese socialista relativamente libero rispetto, ad esempio, ai paesi orbitanti attorno l’Unione Sovietica, disponeva comunque di organi di polizia segreta onnipresenti, molto attivi e, soprattutto, molto efficienti. Sebbene fosse difficile vedere forme di repressione particolarmente pesante, dai cittadini ci si aspettava collaborazione e, soprattutto, lealtà. Ilija obbedisce ciecamente ai dettami della propaganda e, anzi, si dimostra fin troppo zelante, anche per i servizi segreti, che non prestano particolare attenzione alle sue segnalazioni su Petar. Ma Ilija, come è già stato accennato prima, ha una peculiarità. In quanto fervente stalinista è stato imprigionato, durante gli anni della rottura tra Tito e Stalin (dal 1948 al 1953), nell’isola di Goli Otok (Isola Calva).
La persecuzione degli stalinisti
Quello degli internati a Goli Otok è stato un tabù per molti anni, in Jugoslavia, e solo dopo la morte di Tito nel 1980 la tematica è tornata in auge. Goli Otok e il periodo della tensione sovietico-jugoslava, con purghe anti-staliniane annesse, sono stati motivo di dolore e di terrore per numerosissimi jugoslavi, che si sono sentiti traditi, come Ilija, dal paese per cui avevano combattuto soltanto per esser stati, in passato, favorevoli alla corrente stalinista. Ilija e Đura, infatti, pur provando rancore, sono fedelissimi al proprio paese e, soprattutto, alle proprie idee politiche. Credono nel comunismo e nella via jugoslava al socialismo, pur ricordando con nostalgia lo Stalin che tanto avevano stimato – guardando con malinconia un vecchio ritratto del defunto capo di stato sovietico tenuto a prender polvere nella cantina di Ilija. La loro fedeltà alla Jugoslavia è così cieca da rimanere intatta anche dopo il famosissimo e disperato monologo che Ilija pronuncia davanti ad un attonito Petar:
“ In guerra voi mi avete ferito, sono riuscito appena a sopravvivere!
“Noi chi? Noi chi?”
“Voi! Tu, tuo padre, tuo fratello, tutti quelli che abbiamo ucciso e tutti quelli che sono riusciti a scappare. Quando avete visto che non potevate farmi nulla, che sono riuscito a sopravvivere, allora mi avete rinchiuso. Non vi andava bene che tutti fossimo uguali e che non ci fossero differenze tra le persone! Neanche è finita la guerra che tu te ne torni col tuo capitale onestamente guadagnato! Prima di te [ne sono venuti] mille, dopo di te [ne verranno] altri mille! [Verrete] perché possiate di nuovo costruire palazzi e castelli, perché possiate di nuovo opprimere e distruggere le persone! E sì che mi hanno rinchiuso solo perché mi hanno costretto a credere, a te invece non ti arrestano per quello per cui abbiamo combattuto! Figli di puttana! Cosa significa questo? Significa forse che per tutta la vita sono stato uno stupido che ha agito contro i propri principi, che sono stato sempre dalla parte opposta [sbagliata], significa questo? Quindi mi hanno imprigionato solo perché ho gridato “Viva Stalin e la rivoluzione mondiale”? È per questo che mi avete rinchiuso? E cosa dovevo gridare? Viva il capitalismo?”
Il delirio, non sempre completamente chiaro, di Ilija ha due destinatari. I capitalisti, i non-comunisti, coloro che non credevano alla Jugoslavia unita e socialista da una parte, i compagni di partito di Ilija dall’altra. Questi ultimi hanno, in realtà, più colpa dei primi, perché sono coloro che hanno tradito il proprio compagno da un giorno all’altro, che si sono comportati come gli occupatori fascisti e nazisti contro cui loro stessi e Ilija con loro hanno combattuto durante la Seconda guerra mondiale. Come hanno potuto le autorità comuniste imprigionare i loro “compagni” per poi lasciar tornare coloro che hanno scelto il capitalismo e/o la via dell’esilio senza preoccuparsi di loro?
È interessante come la stessa tematica verrà trattata nel film del regista sloveno Matjaž Klopčič Moj ata, socialistični kulak (Mio papà, il kulak socialista; 1987). Nel film, ambientato tra il 1945 e il 1948 nella Stiria slovena, vengono narrate le vicende di Jože Malek, un contadino sloveno che, dopo aver disertato dall’esercito tedesco per unirsi all’Armata rossa, torna al proprio villaggio. Ad aspettarlo, oltre alla famiglia, c’è il cugino Vanč che, fervente attivista comunista e simpatizzante sia di Tito che di Stalin, istruisce l’ingenuo Jože sul nuovo sistema portato dai partigiani di Tito. Quando, nel 1948, avverrà la rottura tra Jugoslavia e Unione Sovietica, sarà proprio Vanč, che era stato il più fervente propagatore dell’idea comunista nel villaggio, ad essere arrestato, incastrato dall’aver ordinato di appendere, accanto al ritratto del maresciallo Tito, in tempi non sospetti, un ritratto di Stalin. Come nel film di Kovačević, vittime del sistema sono proprio coloro che avevano lottato per esso.
Balkanski špijun è, in conclusione, lo specchio di una Jugoslavia ormai disorientata, stordita in un dormiveglia già di per sé poco profondo, che stenta a seguire la strada voluta da Tito. Gli errori e i paradossi della Jugoslavia in decadenza degli anni Ottanta vengono mostrati con una pungente ironia che non risparmia niente e nessuno. Derisi sono i vecchi partigiani, ancora ferventi comunisti nonostante i torti subiti e nonostante le evidenti mancanze del sistema da loro amato; derisi sono i punk che girano vestiti tutti uguali coi loro abiti di pelle troppo stretti; derisi sono i cittadini, ingenui e sottomessi; derisi sono gli apparati statali, che dietro l’apparente durezza e incorruttibilità nascondono lassismo e pigrizia. La forte satira di Kovačević fa leva proprio sulla mancanza di rigore davanti alle critiche al sistema delle autorità e, chiaramente, sulla comicità, sull’assurdità delle vicende e sulla goffaggine di Ilija per rendere questo film, profondamente critico e simbolico per un’intera generazione di (ex) Jugoslavi, divertente e per nulla pesante.
Balkanski špijun è stato il film preferito di mio padre, che da ormai poco più di un anno non c’è più. Dedico questo articolo a lui e sempre con lui mi scuso, perché son sicuro che ci sarebbero state tante altre cose da aggiungere su questo film che non ho colto o che non ho fatto in tempo a chiedere.
È dottorando in letterature comparate presso l’Università di Zagabria. Le sue ricerche e i suoi interessi vertono sulla cultura pop e giovanile in Jugoslavia e sulla letteratura della transizione in Croazia e Slovenia. Da aprile 2024 collabora in qualità di ricercatore indipendente con l'Istituto di Etnologia e Folkloristica di Zagabria. Collabora coi progetti Est/ranei e Andergraund.