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“Come sfamare un dittatore”, di Witold Szabłowski. I racconti dei cuochi degli autocrati

Cosa fareste se dalle vostre abilità culinarie di cuochi dipendesse l’umore di un crudele e spietato despota? Soffrireste l’ansia da prestazione, o tentereste forse di avvelenarlo? Rimarreste imparziali, o sposereste la sua causa fino in fondo? Sono sicuro che molti, davanti a simili domande, si troverebbero in un certo imbarazzo: da un lato, gli ideali di libertà e democrazia che caratterizzano gran parte del mondo contemporaneo; dall’altro, il timore personale di subire le conseguenze del ribellarsi a figure storiche come Saddam Hussein, Pol Pot, Idi Amin, Fidel Castro o Enver Hoxha.

È vero, questi nomi non sono casuali: sono i co-protagonisti di Come sfamare un dittatore, reportage del noto scrittore e giornalista polacco Witold Szabłowski tradotto nel 2023 in italiano da Marzena Borejczuk per Keller Editore. Szabłowski ha faticosamente rintracciato i cuochi di cinque dei più noti personaggi autoritari del XX secolo, per scoprire come questi si comportavano nel loro momento più intimo e umano: alla tavola da pranzo.

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Prima colazione

Il viaggio storico e culinario di Come sfamare un dittatore inizia, intramezza e termina con i racconti di Yong Moeun, la cuoca di Pol Pot. L’immagine del capo dei khmer rossi – i rivoluzionari comunisti cambogiani – ci viene restituita come quella di un uomo buono e divertente, calmo, vessato dalle vicende politiche e dalle frustrazioni della sua consorte. Moeun è ammaliata dalla personalità e dal carisma di Pol Pot, e per sua bocca si innamora degli ideali di cui è portatore, fino a dichiarare che avrebbe dubitato persino della propria lealtà se il partito l’avesse dichiarata traditrice, consegnandosi spontaneamente nelle sue mani punitive.

In effetti, ciò che risulta dai racconti dei cuochi presidenziali sono due tendenze opposte: una di grande affezione politica e personale verso il proprio capo di stato; l’altra di disinteresse totale verso la cosa pubblica e le vicende che accadevano intorno a loro nel paese, restando anzi lontani quanto più possibile dall’esprimere considerazioni in merito temendo di incorrere in punizioni severe.

Un giorno arrivai al lavoro come al solito, accesi il televisore e appresi che i nostri carri armati erano di nuovo in marcia verso una guerra. Mi chiedi com’è possibile che non fossi al corrente dei preparativi in atto. In realtà non c’è niente di strano. La politica non è affare di cuochi. Nessun presidente chiede al proprio chef il permesso di poter cominciare una guerra.

Fedeltà o meno, così come Yong Moeun tutti i cuochi della narrazione vivono alla mercé delle decisioni del proprio datore di lavoro, arbitro su di loro di vita e di morte, di fortuna e disgrazia, senza possibilità d’appello alcuna. Alcuni, come Otonde Odera, servirono più di un dittatore; e mentre molti venivano perseguitati, esiliati e giustiziati a seguito dei tanti colpi di stato in Uganda, Odera era protetto dalla sua posizione di cuoco, che gli conferiva fiducia e rispetto, soprattutto per le sue capacità di adattare la propria cucina ai gusti del dittatore di turno.

La vicinanza e la sempre maggior confidenza che il dittatore Idi Amin concedeva al povero cuoco significavano per egli gioie e tormenti. Se, ad esempio, Amin decideva che Odera doveva sposare una certa ragazza, lui la sposava senza protestare; e se decideva che meritava una nuova macchina fiammante, Odera ringraziava e conduceva la propria vita come un cortigiano nella Versailles di Luigi XV – mentre la maggior parte della popolazione viveva di stenti – almeno fino al prossimo sospetto di tradimento, o al prossimo rovesciamento di governo.

Pranzo

Per scrivere il proprio libro, Szabłowski non si è limitato ad intervistare i cuochi dei dittatori, ma ha anche ricostruito le loro storie personali, andando a indagare quel poco che già è stato scritto su di loro, e studiando attentamente il periodo storico in cui avevano cucinato per i palati dei potenti. Il risultato è un percorso coerente e armonioso, mai difficile da leggere, leggero ma finemente elaborato come un piatto prelibato. Boccone dopo boccone, senza divenire mai stucchevole, Come sfamare un dittatore porta a riflettere sugli aspetti meno scontati della storia recente.

La cucina appare come uno strumento potentissimo, capace di calmare le angosce dei paranoici dittatori, o di esacerbare le loro ansie in violenti impeti di rabbia. Per questo motivo, persone come “il signor K”, cuoco del capo del Partito del Lavoro albanese Enver Hoxha, dovevano trovare i modi più creativi per soddisfare il proprio cliente. Unico cliente: ai cuochi non era mai concesso cucinare che per il loro capo; al limite, in occasioni speciali, era permesso alla famiglia del presidente o ai suoi infrequenti commensali di gustare le stesse pietanze per lui cucinate.

Quando però lo vedevo passare per il corridoio senza rispondere ai saluti né rivolgere lo sguardo a nessuno, capivo che era di pessimo umore e che ci voleva qualcosa di speciale. (…) sarebbe stato meglio per tutti, per tutto il Paese, se si fosse mangiato un bel dessert. (…) Chissà quante vite ho salvato in questo modo.

Dalle padelle e dalle pentole delle cucine del governo potevano dipendere le decisioni dei dittatori. E la capacità dei cuochi di anticipare i loro desideri, placando i loro animi con un semplice dolce cucinato al momento giusto seguendo la ricetta di quando gli autocrati erano solo degli innocui bambini, ha più volte salvato la vita a uomini, donne e bambini.

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Seguendo questo pensiero, potremmo azzardare un giudizio filosofico: come ci insegna Hegel con la sua “dialettica schiavo–padrone”, sebbene il secondo si elevi al di sopra del suo servo, egli dipende completamente dal lavoro di quest’ultimo, rendendo i due attori dipendenti l’uno dall’altro per soddisfare i propri bisogni. Chiaramente – come poi preciserà Marx – questa presa di coscienza non rovescia realmente i rapporti di potere, e il dittatore potrà sempre cercarsi un altro cuoco. Ma l’intimità precedentemente accennata che contraddistingue il momento dei pasti rende più gravoso il distacco tra un uomo e il proprio cuoco, tant’è che di questi solo Pol Pot si separò volontariamente dalla sua cuoca, mentre gli altri se li tenevano ben stretti.

Cena

Il cibo risulta simbolo della forza dello stato più di una volta. Abu Alì, cuoco di Saddam Hussein, temeva quando il dittatore iracheno decideva di volersi prender cura dei suoi commilitoni durante una battaglia o durante una gita sul fiume. In questi casi, decideva di preparare egli stesso il pasto: in cucina Saddam non era abile come in guerra, ma guai a farglielo notare.

A Cuba, Erasmo e Flores, i due cuochi storici di Fidel Castro, ricordano la “Rivoluzione culinaria” fortemente voluta da Fidel. In un paese comunista – peraltro così vicino agli USA –, imperativo era non lasciare i cittadini affamati. E se anche Castro aveva precisato che non avrebbe reso Cuba un luogo dove cenare ogni sera con un’aragosta – simbolo del capitalismo e del lusso – anch’egli comprendeva che l’abbondanza di prodotti alimentari era necessaria per non dare adito a speculazioni esterne e malcontenti interni. Così, capita che una mucca da record diventi il simbolo del successo del socialismo cubano, e che il regime alimentare degli isolani, vessati dall’embargo imposto dagli americani sin dal 1962, cambi totalmente.

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Come ricordare un dittatore

Per stessa ammissione dello scrittore, le storie narrate dai suoi intervistati spesso differiscono dai libri di storia, o anche dalle stesse storie raccontate tempo addietro dagli stessi interlocutori. D’altronde, molti anni sono trascorsi dai fatti descritti, e la memoria non è sempre una buona alleata. Ciononostante, vivide sono nelle menti dei cuochi le ricette che per anni hanno cucinato quotidianamente tra le mura presidenziali. E nitide risultano anche le loro emozioni e i loro tormenti, passati e presenti.

La realtà si piega quindi agli occhi dei singoli e alle loro esperienze personali, impossibili da contraddire e tacciare di ideologismo. Come insegnano gli storici, esiste la Storia ed esiste la memoria, ed entrambe hanno la propria innegabile dignità. Tutti gli autoritari personaggi che i cuochi del libro hanno servito sono ormai morti da tempo, e i loro cuochi hanno cambiato vita, chi in meglio, chi in peggio, chi è nostalgico, chi è più sollevato. Stolto chi si ergerà a giudice delle loro parole.

Religioso silenzio, tovagliolo al collo e posate in mano: la Storia dei cuochi è servita.

Smacznego!


Come sfamare un dittatore, Witold Szabłowski, traduzione di Marzena Borejczuk, Keller Editore, 2023
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Oscar Luigi Guccione
Oscar Luigi Guccione

Laureato in European and Global Studies, ha trascorso due anni in Polonia, prima a Cracovia per studio, poi a Danzica lavorando per la Thomson Reuters. Ha scritto una tesi di laurea magistrale sulla securitizzazione della gestione della pandemia da coronavirus in Polonia, e una tesi di master sull’infuenza politica della Conferenza di Helsinki in Polonia negli anni Settanta ed Ottanta