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La seguente intervista è stata redatta nel 2018. Erano ormai trascorsi quattro anni dalle proteste, eppure i ricordi da Majdan di Bohdan, neolaureato in Storia originario della oblast’ di Sumy, nell’Ucraina orientale, erano ancora vivi e lucidi, nonché pieni di speranza per il futuro del suo paese, oggi stretto nella morsa di una guerra di cui non si scorge la fine.
Al momento dell’invasione russa del 24 febbraio 2022 Bohdan si trovava in un villaggio a nord di Kyiv, nella zona di Ivankiv, a cogestire una associazione di ippoterapia che accoglieva anche veterani che avevano combattuto in Donbas tra il 2014 e il 2016. Con l’arrivo degli occupanti russi, il breve assedio e lo scoppio della guerra, l’associazione dovette trasferirsi temporaneamente nella zona dei Carpazi al fine di mettere in salvo anche gli animali. In pochi giorni, Bohdan si arruolò, inizialmente nei corpi di difesa territoriale e, successivamente, nell’esercito ucraino regolare. Attualmente si trova al fronte.
I ricordi da Majdan di Bohdan
21 gennaio 2014. Stazione di Sumy, -21°C. Un ragazzo alto e giovane dà un ultimo tiro alla sigaretta, attraversa di corsa i binari e sale deciso sul treno affollato, senza guardarsi indietro. Bohdan ha solo 20 anni quando decide di salire su quel treno diretto a Kyiv e prendere parte agli eventi di Majdan, i quali avrebbero cambiato non solo la storia del suo paese, ma soprattutto la sua.
Originario della regione di Sumy, situata a nord-est dell’Ucraina e a pochi chilometri dal confine russo, non è rimasto fermo a guardare quando già nel novembre del 2013 scoppiarono le prime proteste. Proteste che hanno portato il nome di rivoluzione, la Rivoluzione della Dignità, e che sono poi sfociate in un conflitto armato nei territori orientali del Donbas.
Partecipando agli eventi di Majdan in maniera intermittente, spesso andando a Kyiv solamente in giornata, per monitorare la situazione, ha raggiunto la capitale per la prima volta il 21 gennaio ed è rimasto lì quattro-cinque giorni. Successivamente vi è ritornato nel mese di febbraio, dal 19 al 24, quando gli scontri avevano iniziato a farsi più pesanti.
A quattro anni di distanza Bohdan ci racconta le sue impressioni e condivide i suoi ricordi su un capitolo di storia ucraina che deve ancora concludersi.
Bohdan, sei partito per la capitale il 21 gennaio 2014 per la prima volta, senza avvisare nessuno e con uno zainetto sulle spalle. Cosa ti ha spinto a mollare tutto e a unirti alle proteste di Majdan?
Le proteste erano già iniziate nel novembre del 2013 e la città di Kyiv ne è stata sicuramente il fulcro, anche se la capitale non è stato l’unico luogo ad essere preso di mira dai manifestanti. Proteste simili ci sono state anche altrove, sebbene solo successivamente, verso gennaio-febbraio, e molto più violente in alcuni casi, come a Odesa o Charkiv, città di cui la stampa straniera parla di rado, da quanto ne so. Anche nella piccola realtà di Sumy, la città dove abito e lavoro, ci sono state accese proteste e non sono mancati scontri violenti con la polizia, a cui ho partecipato senza fortunatamente rimanere ferito.
Quando a gennaio sono riprese le proteste di Majdan, ho deciso che non potevo e non volevo starmene fermo qui. L’Ucraina è il mio paese e stava succedendo qualcosa, volevo farne parte. Così, senza nemmeno dire nulla ai miei (se ne sono accorti perché mi hanno visto in televisione), sono partito per Kyiv senza sapere cosa avrei fatto, dove avrei dormito e quanto sarei rimasto. Il motivo principale che mi ha spinto a unirmi alle proteste è stata la speranza di veder cambiare il mio paese.
Erroneamente, molti pensano che tutto sia scoppiato a causa del mancato accordo tra l’Ucraina e l’Europa (l’accordo di associazione e di libero scambio con l’Ue, N.d.A.) e dei rapporti con la Russia. Certo, il ruolo della Russia non è da sottovalutare, ma non era quello l’obiettivo primo di Majdan. La verità è che Majdan è nato per cambiare l’Ucraina, per rompere la spina dorsale del sistema, un sistema corrotto dalla testa ai piedi, di cui la polizia e l’ex presidente Viktor Janukovyč sono stati complici, per liberarsi dal potere in corso, un potere in mano a gente incompetente ed arrivista. E per la libertà. Noi maidanisti eravamo alla ricerca della libertà, la libertà di espressione prima di tutto, negataci da Janukovyč e soppressa da un regime poliziesco molto rigido. Eravamo pronti a conquistarla.
La Russia, quindi, non ha avuto nessun ruolo nei fatti di Majdan?
Sì e no. Diciamo che non è stata la scintilla che ha fatto scoppiare le proteste, ma non è di sicuro rimasta a guardare. Ha certamente avuto il suo ruolo all’interno di Majdan. Putin ha sostenuto Janukovyč, ne sono certo, anche se il come non sia ancora del tutto chiaro e palese. La Russia è entrata in scena apertamente al momento dell’annessione della penisola di Crimea e delle dichiarazioni indipendentiste della DNR e LNR, che hanno fatto scoppiare il conflitto nel Donbas. Probabilmente c’era da aspettarselo: Donec’k e Luhans’k (come Charkiv) sono territori che da moltissimo tempo aspirano all’indipendenza, e forse il conflitto armato era inevitabile. Considero la questione Ucraina-Russia un tema molto delicato perché si finisce sempre con lo sfociare su teorie nazionaliste, sia da una parte che dall’altra, e se esiste una soluzione non è a portata di mano. I fatti lo dimostrano.
Tornando a Majdan, quali sono state le tue impressioni?
Ero eccitato. C’erano migliaia di persone ovunque, provenienti da tutto il paese, e non solo. Majdan ha unito l’Ucraina intera, cosa che non era successa durante la rivoluzione arancione del 2004, la quale ha provocato una netta divisione tra l’est e l’ovest del paese e la proclamazione di Stepan Bandera come eroe nazionale.
Non avevo aspettative particolari, solo tanta adrenalina. La cosa che mi ha colpito di più è che non c’erano leader, tutto era gestito autonomamente e in maniera del tutto spontanea. Nessuno sapeva dove avrebbe dormito, quando avrebbe dormito, se avrebbe dormito, e cosa sarebbe successo nei minuti, ore, giorni successivi. Quando sono arrivato in piazza, seguendo la folla di persone, non sapevo cosa fare e sono rimasto impietrito per qualche secondo a guardarmi intorno, respirando quella nuova atmosfera. Era molto contento di vedere quello che succedeva. E anche curioso.
A chi ti sei rivolto quando sei arrivato? Quanto sei rimasto a Majdan e cosa hai fatto?
In realtà all’inizio non sapevo cosa fare o a chi rivolgermi perché appunto non c’era un’organizzazione concreta ed ero da solo. Eppure mi son sentito subito “a casa”, c’era un clima molto accogliente. Non avevo idea di quanto sarei rimasto, ma la cosa non mi preoccupava. Sembrava di vivere nell’anarchia, ma un’anarchia composta in un certo senso.
Tutti avevano un compito e un ruolo ben precisi e mi chiedevo come lo trovassero senza un leader a dirigere quel marasma di gente. Ma nessuno era superfluo a Majdan, tutti trovavano qualcosa da fare, dove e come aiutare. C’era gente che cucinava, gente che distribuiva coperte (faceva molto freddo, c’erano -20 gradi in quei giorni), gente che piantava tende o costruiva barricate. La prima volta ho raggiunto una delle tende per la gente di Sumy, dove ho lasciato le mie cose, e mi sono diretto in via Hruševs’kyj. Ho cominciato ad aiutare nella costruzione delle prime barricate. Ovviamente non erano le uniche, tutto il centro di Kyiv ne era pieno.
A febbraio, quando sono ritornato per altri cinque o sei giorni, non ricordo bene dove ho dormito perché la tenda di Sumy era stata bruciata dai poliziotti proprio in quei giorni.
La polizia che ruolo ha avuto a Majdan? In che modo è intervenuta?
La polizia si è schierata, ovviamente, dalla parte del governo. E ha ricevuto l’ordine di agire perché il potere ha cominciato a temere il popolo. Noi di Majdan non volevamo causare violenze, solo alzare la voce per farci ascoltare. Ma, quando ha iniziato a intromettersi con la forza, abbiamo dovuto organizzarci per difenderci e le barricate sono aumentate.
Nella piazza principale di Kyiv è stata la polizia a dar fuoco alla Casa dei Sindacati (budynok profspilok, che è stato interamente ricostruito a fine 2018) dove avevamo stipato le riserve di cibo, le coperte e dove c’era addirittura un’ala per i feriti. Il 18 febbraio sono stati gli uomini della berkut (unità della polizia antisommossa ucraina, non più esistente dal 25 febbraio 2014, nda) a spingersi fino al Palazzo d’Ottobre e ad attaccare i manifestanti per quasi due giorni. C’ero anche io. E proprio in quella zona abbiamo ritrovato cartucce di calibro 7.62×51 di alcune armi utilizzate dagli sniper e dai poliziotti che sparavano alla folla sottostante. Ne parlo anche in una mini-intervista perché io stesso ho ritrovato delle pallottole, pallottole vere per armi vere, non armi-giocattolo, e non pallottole di gomma come quelle che usavano all’inizio.
Quindi anche tu hai partecipato agli scontri diretti con la polizia? Voi maidanisti eravate armati?
Abbiamo cominciato ad armarci per difenderci. Sono stati i poliziotti della berkut a iniziare gli scontri violenti, e noi dovevamo difenderci in qualche modo. Abbiamo costruito le barricate con il materiale che trovavamo e i copertoni andavano benissimo perché bruciandoli tenevamo lontani i poliziotti: nessuno aveva il coraggio di oltrepassare quel fuoco. Le cose più semplici da produrre erano le bombe molotov. Avevamo armi improvvisate, insufficienti e spesso malfunzionanti, e bombe molotov a portata di mano. La polizia era armata e non è certo rimasta a guardare. Gli sbirri avevano paura! I primi giorni ci gettavano acqua fredda, e in quei giorni si gelava! Ma tenevamo duro, cercavamo riparo nelle tende improvvisate e ci riscaldavamo vicino al fuoco, dove si discuteva e si conosceva altra gente. Eravamo tutti fratelli, lì per uno scopo comune.
Hai detto che non c’erano leader, ma quando sono iniziati gli scontri violenti c’era qualcuno che dirigeva le operazioni?
All’inizio delle proteste non c’era bisogno di un leader, eravamo tutti lì per lo stesso motivo e la manifestazione era di natura pacifica. Quando però sono iniziati gli scontri con la berkut sono nati dei veri e proprio plotoni, chiamati sotnja (un termine militare di origine slava che identificava lo squadrone dell’artiglieria cosacca. Oggi è in uso nell’esercito ucraino e indica un’unità costituita da circa 100-150 soldati, una centuria, N.d.A.). Ogni sotnja aveva un leader che prendeva le decisioni e dava gli ordini. Io a febbraio mi sono unito al secondo plotone, che difendeva la Seconda Barricata, in via Hruševs’kyj.
Sono trascorsi quattro anni ormai dagli eventi di Majdan. Cosa pensi della situazione attuale deltuo paese? La rivoluzione è servita a qualcosa o tutto è fermo come prima?
Se non ci fosse stato Majdan sarebbe stato peggio, molto peggio. Questo movimento ha fatto capire alle alte sfere dell’Ucraina (e non solo) che il suo popolo è capace di intendere e di volere e che non è d’accordo con i pupazzi che siedono al governo. Per me, Majdan ha comunque vinto. Ha dimostrato che la gente non deve più temere il regime poliziesco, che il popolo può prendersi il potere e che le cose possono cambiare. Gli scontri sono iniziati quando il potere ha capito che il popolo era pronto a morire per il proprio paese, ha cominciato ad avere paura perché nonostante la violenza il popolo non si è tirato indietro, anzi. Ma il risultato non è stato comunque soddisfacente perché al potere sono comunque rimasti gli stessi oligarchi, gli stessi incompetenti che si scambiano le sedie tra loro, promettendo riforme che si rivelano fittizie.
Dopo quattro anni possiamo dire che le autorità danno molta più voce al popolo perché il popolo ha ben dimostrato di cosa è capace, ma non basta. E non può finire qui.
Ci sarà un altro Majdan?
Sì, presto, molto presto. E sarà molto più violento, scorrerà ancora più sangue. E allora si potrà parlare di rivoluzione, quella vera, non solo a Kyiv ma in tutto il paese.
Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.