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Un romanzo storico, un racconto d’avventura, un diario di bordo, una ricostruzione fedele di ambientazioni urbane e di eventi che hanno segnato un’epoca. Ma anche: un macrolibro composto da tre diverse narrazioni, intrecciate tra loro da un filo non calcato ma percettibile così come pare a tratti percettibile il destino, che alle volte sembra giocare con noi, come con personaggi finzionali, a suon di coincidenze, echi e strani, quasi sospetti, dejà vu. Tutto questo è Il destino che mi portò a Trieste, romanzo dello scrittore serbo Radoslav Petković, acclamato nel suo paese ma che solo ora giunge in Italia grazie all’accurata e preziosa traduzione di Rosalba Molesi per l’editore Bottega Errante (2023).
L’autore ci cala nella Trieste del 1806 attraverso i giochi del destino che coinvolgono il giovane tenente della marina russa Pavel Volkov, inviato da Pietroburgo in città per condurre attività che oggi definiremmo di spionaggio. È una Trieste che vive un momento particolare della sua storia, in cui il fiorente porto franco e la rivoluzione urbana segnata dalla creazione del Borgo Teresiano modificano il calendario cittadino, un tempo scandito da vendemmie e dal lavoro nelle saline. È una città parte del multinazionale Impero asburgico, composta a sua volta da comunità diversissime tra loro, ognuna con la sua storia e i suoi luoghi nella Trieste del tempo. Un microcosmo ben inserito nel macrocosmo eterogeneo austro-ungherese.
Nel 1751, con patente dell’imperatrice Maria Teresa, fu concesso ai greci di Trieste di istituire una comunità religiosa e di costruire la chiesa di San Spiridione […]. Più o meno allo stesso periodo risale anche la presenza di una colonia serba, e la loro richiesta di uno statuto analogo a quello dei greci; fin dall’inizio vi furono dispute tra serbi e greci riguardo la giurisdizione, ma sopratutto al diritto dei serbi — denominati nei documenti ufficiali “nazione illirica di religione greca” — di usare la propria lingua nell’uffizio divino. […] La disputa si concluse nel 1782 con modalità che dimostrano quanto sia gli uni che gli altri fossero anzitutto ottimi mercanti: i serbi riscattano dai greci la chiesa di San Spiridione e questi ultimi costruiscono la chiesa di San Nicolò. In questo modo si verificò un fatto alquanto strano: il patrono dei serbi di Trieste è uno dei santi meno importanti della loro tradizione […]. Per i serbi, come per tutta la cristianità, è indubbiamente molto più importante san Nicola. Spiridione è anzitutto un santo greco.
Trieste è una città che parla molteplici lingue, oltre a quella serba e a quella greca, e i cui abitanti sognano, ci racconta l’autore, in altrettanti idiomi:
All’alba del 2 maggio 1806, quando il sole spuntò sopra il castello e la maggior parte dei triestini dormiva sognando in italiano, tedesco, greco, yiddish e in qualche altra lingua — Pavel Volkov a Corfù aveva smesso di sognare esclusivamente in russo e i suoi sogni ripetevano quella babelica confusione di cui era testimone quando era sveglio —, sopra la città echeggiò un terribile rimbombo che fece saltare tutti dal letto e li indusse — inclusi perfino quei pochi libertini — a rivolgersi al Dio dei propri padri, divinità che a Trieste erano numerose quasi quanto le lingue.
Leggendo il romanzo di Petković, attraversiamo una Trieste di inizio Ottocento ricostruita in maniera impeccabile da un autore che ha studiato a fondo archivi e riproduzioni d’epoca al fine di restituire quadri precisissimi dell’ambiente urbano, tanto che è possibile, romanzo alla mano, ripercorrere i tragitti di Pavel Volkov e degli altri personaggi in città.
Petković non ha però studiato con attenzione solo la città di Trieste, ma anche la storia di tutta la macro-area adriatica e balcanica, ambientando le avventure — che da spionistiche diverranno presto (anche) amorose — di Pavel Volkov (un personaggio, tra l’altro, dalla biografia paneuropea centro-orientale invidiabile) in un’Europa alle prese con l’esperienza napoleonica, dalla Russia a Corfù.
Quelli erano, in generale, tempi strani. Mentre, da una parte, spuntavano fantasiosi Stati come la Repubblica delle Sette Isole, dall’altra scomparivano interi Stati, che non solo esistevano da secoli, ma erano già un simbolo, e nei secoli a venire avrebbero continuato a esistere quale dimostrazione che le antiche vestigia restano, che l’esistenza di queste vestigia è più resistente dell’esistenza dello Stato stesso; per esempio, la Repubblica di San Marco, la Serenissima, o, semplicemente, Venezia. Sconvolgendo i confini tra gli Stati, le guerre napoleoniche sconvolsero anche le vite degli uomini. Nessuno sapeva più con certezza in quale Stato vivesse, o come esso si chiamasse […]. Un uomo che aveva giurato fedeltà alla Repubblica di Venezia non sapeva più se ritenersi suddito dell’imperatore d’Austria o di quello di Francia, mentre i colori delle bandiere nelle vie cambiavano come le scenografie di un teatro di boulevard. Questo era il loro valore.
In un’altra dimensione narrativa Petković ci trasporta poi nel Novecento, da Caporetto al cruciale 1956 ungherese, di nuovo con un filo “spionistico” a legare i personaggi attraverso le epoche e le geografie.
E nel ricostruire le epoche storiche, l’autore inserisce nella narrazione anche personaggi esistiti realmente, dal primo imperatore russo Pietro I al conte Brigido governatore di Trieste. Queste figure entrano, per uno scherzo del destino e della letteratura, in contatto non solo con i personaggi creati da Petković, ma anche con quelli creati dalla cultura più in generale: dice nulla il fatto che a bordo del San Nicola si trovi un ufficiale maltese chiamato da tutti Corto?
L’unico a non agitarsi era il Maltese; a dire il vero era uno strano tipo. In quei giorni Volkov aveva saputo che gli altri lo chiamavano Corto; e anche se aveva sempre il fumasigari in bocca, era quasi sempre vuoto — lo aveva tenuto pure durante la tempesta — e questo rendeva il suo italiano pressoché incomprensibile. Pertanto lo stupore di Volkov fu enorme quando l’uomo gli rivolse la parola in russo — Volkov ammutolì, e allora l’ufficiale, pensando che non avesse capito, ripetè la frase, togliendosi dalla bocca il fumasigari, cosa che non fu di grande aiuto perché il Maltese continua a borbottare, evidentemente era il suo modo di parlare. ‘Ho navigato molto, e sono stato imbarcato anche su una nave russa; per un po’ di tempo in Alaska ho vissuto in mezzo a certi russi’. Volkov sorrise; il mare mescola molte cose, persino le lingue.
Così come Volkov interagisce con il maltese di poche parole Corto, Petković sceglie di far dialogare il suo testo con le voci di altri autori della letteratura mondiale, introducendo moltissimi capitoli con citazioni di Borges, Plutarco, Tommaso d’Aquino, Apollinaire, T.S. Eliot, Rilke, Shakespeare, solo per nominarne alcuni.
Infine, un dialogo incessante è quello dell’autore finzionale del romanzo con il suo lettore, preso a compagno di viaggio e di scrittura con il quale confrontarsi a più riprese sull’atto stesso della creazione letteraria.
Rivolgersi direttamente al lettore è indubbiamente un espediente artistico antiquato. Appartiene a quel modo di raccontare le storie come si raccontavano ai tempi, diciamo, in cui i nostri eroi solcavano i mari a bordo dei loro velieri. […] Ogni scrittore può scegliere tra un infinito numero di storie — come, del resto, ogni uomo; l’unica differenza è il modo in cui partecipa alla storia — ma pochi sono veramente consapevoli dell’esistenza di questa scelta. Una miriade di storie freme nell’oscurità e solo alcuni sguardi riescono a intravedere qualcosa, e in quel buio profondo l’uomo — o lo scrittore, non ha importanza — il più delle volte si imbatte nella propria storia, ci sbatte letteralmente contro. Perché quella è la storia che desidera. […] Dunque, quando ha iniziato a raccontare questa storia e a raccontarla in questo modo, lo scrittore non immaginava di arrivare a questo punto, il punto in cui tutta la storia comincia a scomporsi. […] Così [lo scrittore] perde la propria posizione — apparentemente privilegiata — di assoluto padrone della storia e si ritrova in una posizione molto simile a quella che quasi dall’inizio aveva assegnato al suo altrettanto perplesso eroe Pavel Volkov.
Il destino che mi portò a Trieste è un libro che può essere letto in più modi: come riflessione metaletteraria, come guida attraverso un mondo scomparso, come scherzo intertestuale. Soprattutto, però, è un romanzo avvincente e architettonicamente ben costruito, marchiato dallo stile inconfondibile di Radoslav Petković.
Il destino che mi portò a Trieste di Radoslav Petković, traduzione di Rosalba Molesi, Bottega Errante Editore, 2023.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.