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A più di trent’anni dalla dissoluzione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia il destino del patrimonio jugoslavo, soprattutto quello architettonico, resta incerto. Alla violenza distruttrice e all’incuria degli anni Novanta, infatti, sono seguite azioni di restauro e ricostruzione, sebbene con frequenza e portata molto differenti a seconda del contesto. Ma la vandalizzazione non si è certo arrestata.
Se in Slovenia il patrimonio jugoslavo, con specifico riferimento ai suoi celeberrimi spomenici (monumenti), risulta per la maggior parte tutelato e preservato, e dal Montenegro non giungono voci di devastazioni su larga scala, altrettanto non si può dire delle altre repubbliche un tempo federate. Generalmente parlando, il patrimonio jugoslavo se la passa meglio laddove la sua eredità non è divisiva, è in qualche modo legata all’identità nazionale e/o è ancora considerata con un certo livello di nostalgia, come per esempio in Macedonia del Nord.
In Serbia i luoghi di commemorazione di jugoslava memoria possono considerarsi più al sicuro se in linea con la narrazione nazionalista imperante, costituita dalla rimozione dei concetti di bratstvo i jedinstvo (fratellanza e unità) e dalla vittimizzazione del popolo serbo, anche se una risignificazione dello spazio pubblico non è automaticamente garanzia di protezione.
In Croazia lo scenario si fa decisamente più fosco. Gli odi e la distruzione scatenati dalla Guerra di indipendenza hanno generato una violenza iconoclasta contro qualsiasi presenza fisica sul territorio nazionale del passato comune, da rimuovere dalla memoria collettiva, se necessario, con la forza del tritolo. Si stima che nella Repubblica di Croazia, nel giro di pochi anni, siano andati distrutti più della metà dei monumenti appartenenti al patrimonio jugoslavo.
Un destino simile può essere osservato in Kosovo, dove la rimozione sistematica dei monumenti jugoslavi viene spesso seguita dall’edificazione nello stesso luogo di nuovi punti di riferimento collettivi, testimoni non più della guerra di liberazione dal nazifascismo, bensì del più recente conflitto che ha visto l’Uçk – l’esercito di liberazione del Kosovo – contrapporsi nel corso degli anni Novanta alle truppe regolari dell’Armata popolare jugoslava (Jna).
In Bosnia-Erzegovina la situazione è molto sfaccettata e ricalca le diverse esperienze vissute dalle sue popolazioni negli anni Novanta, variando significativamente a seconda del contesto: se da un lato abbiamo uno spomenik come quello di Kozara, tutelato e tutt’ora meta di pellegrinaggio, sebbene con un significato completamente differente rispetto all’originale, dall’altro abbiamo il triste esempio del cimitero partigiano di Mostar.
La necropoli partigiana di Mostar
Con i suoi 5mila metri quadri di memoriale terrazzato, il cimitero partigiano di Mostar rappresenta il più grande complesso funerario realizzato in Jugoslavia e una delle opere più rappresentative dello stile di Bogdan Bogdanović, annoverato a buon diritto tra le perle del patrimonio jugoslavo. La dualità della città di Mostar è un elemento richiamato a più riprese dal memoriale stesso, a partire dalla sua collocazione sul fianco della collina di Bijeli Brijeg, in contrapposizione con il centro storico della città: da una parte la città dei vivi, dall’altra quella dei morti.
Attraversando la stretta soglia di accesso, si è costretti a scegliere uno dei due percorsi speculari che si diramano dall’ingresso. Si tratta, ancora una volta, di un richiamo alla divergenza delle comunità che storicamente abitano la cittadina. Ma presto i due sentieri tornano a combaciare e risalgono assieme il ripido pendio fino alle quattro sezioni destinate ai circa 800 combattenti partigiani caduti e qui sepolti, lasciando intendere che la guerra di liberazione e il ricordo dei martiri per la libertà abbiano fuso in un’unica entità comunità prima divise.
Allegoricamente l’acqua, simbolo di vita, sgorgava da una fontana posta sulla sommità del memoriale, per scorrere sotto terra fino a ricomparire alla base del percorso, a comunicare come il sacrificio dei caduti abbia fornito la linfa vitale per le generazioni future.
Purtroppo però l’acqua oggi non sgorga più da quella fonte. La sua interruzione sembra aver rotto l’incantesimo: le comunità sono tornate ad essere divise, si è smesso di porgere omaggio ai caduti comuni e il messaggio unificante di quel luogo è divenuto scomodo. Seguendo le sorti del celeberrimo Stari Most poco più ad est, il cimitero partigiano è diventato assurdamente obiettivo militare e oggetto di bombardamenti durante i fatidici anni Novanta.
A seguito del conflitto la memoria ad esso legata è rimasta, come per una sadica e insensata legge del contrappasso, divisiva. Il luogo è stato abbandonato a se stesso, cadendo vittima della vegetazione e del vandalismo di matrice identitaria e nazionalista che non ha esitato a lasciare il proprio marchio. Nell’ultimo e forse definitivo atto vandalico, avvenuto nel giugno del 2022, ignoti si sono presi la briga di distruggere una per una tutte le centinaia di lapidi che commemoravano i caduti per la libertà.
La città dei morti ha così smesso di comunicare con quella dei vivi, forse per sempre.
Boro e Ramiz, una storia da dimenticare
C’era una volta la Jugoslavia socialista, ma prima ancora c’era chi era disposto a morire per essa. Boro Vukmirović, serbo, nacque nel 1912 a Berzigovo, in Bulgaria. Suo padre Nikola, originario del Montenegro, partecipò alla rivolta di Ilinden del 1903. Nel 1914 la famiglia si trasferì a Peja/Peć, in Kosovo, dove Boro trovò lavoro come operaio e si iscrisse presto al Partito comunista di Jugoslavia (Kpj). A seguito dell’occupazione del Regno di Jugoslavia si dedicò incessantemente all’organizzazione della resistenza kosovara, assumendo ruoli via via più importanti, divenendo infine membro dello stato maggiore dei distaccamenti partigiani in Kosovo e contribuendo all’organizzazione del Partito comunista d’Albania.
Ramiz Sandiku, albanese, nacque a Peja/Peć nel 1915. Si unì da giovanissimo al movimento giovanile rivoluzionario, iscrivendosi presto al Kpj. Arrestato dalle autorità occupanti ed evaso svariate volte per la sua attività sovversiva, dovette dirigere quasi da solo il comitato distrettuale, in quanto quasi tutta la dirigenza era esule in Montenegro. Nell’aprile 1943 soggiornò insieme a Boro a Djakova/Đakovica, da dove sarebbero dovuti partire per incontrare il leggendario Svetozar Vukmanović Tempo, membro del Comitato centrale del Kpj. Il 7 aprile però, sulla strada per Prizren, caddero in un’imboscata di fascisti italiani e forze del Balli Kombëtar (movimento nazionalista e collaborazionista albanese attivo durante la Seconda guerra mondiale) vicino al villaggio di Landovicë/Landovica.
Dopo diversi giorni di tortura i loro aguzzini, senza essere riusciti ad estorcere loro alcuna informazione, decisero di giustiziarli separatamente. Ma questi si avvinghiarono l’un l’altro in un saldo abbraccio, rifiutandosi di affrontare divisi quell’ultima sfida. Furono così fucilati insieme, gridando il loro supporto al movimento partigiano e assurgendo istantaneamente a figure leggendarie, esemplificazione perfetta di quella bratstvo i jedinstvo che fu il cardine della nuova Jugoslavia: il serbo che cade in un fraterno abbraccio al fianco dell’albanese, per mano dell’occupatore fascista.
Boro dhe Ramiz
Jedno smo nebo
dva lista s iste grane
dva kamička iz iste rijeke
čiste Bistrice
dva tijela iz iste krvi
prečiste krvi Dukađina
prsti sa iste ruke
jedna smo lasta
ja desno krilo njeno
ti njeno lijevo krilo
oči moje tvoje trepavice
tvoji nabori moje čelo
pričaju o putevima u budućnost
pričaju o putevima ka slobodi
Pušketaše nas
od istog smo metka pali
jer šta sam ja bez tebe
šta je jedno krilo
bez drugog krila.
Adem Gajtani
Boro e Ramiz
Siamo lo stesso cielo
due foglie dello stesso ramo
due piccoli ciottoli dello stesso fiume
limpida Bistrica
due corpi dello stesso sangue
sangue puro e pulito di Dukađin
dita della stessa mano
siamo una rondine
io la sua ala destra
tu la sua ala sinistra
i miei occhi, le tue ciglia
le tue grinze, la mia fronte
parlano di strade per il futuro
parlano di strade per la libertà
Ci spararono
siamo stati abbattuti dallo stesso proiettile
perché cosa sono io senza di te
cos’è un’ala
senza un’altra ala.
Dopo il conflitto si erse un monumento in loro memoria nel luogo dell’esecuzione: un obelisco di 10 metri raffigurante in maniera stilizzata i corpi abbracciati dei due partigiani, poco prima di cadere sotto i colpi dei carnefici. Divenne talmente iconico da essere rappresentato in una serie di francobolli raffigurante il patrimonio jugoslavo più significativo.
Di questo luogo di commemorazione, oggi, non rimane nulla. Abbattuto già sul finire degli anni Novanta, è stato sostituito con un nuovo monumento e cimitero attiguo dedicati ai caduti dell’Uçk. Come avvenuto anche altrove in Kosovo, alla distruzione del patrimonio jugoslavo e alla rimozione visiva del passato comune si sovrappone un nuovo tipo di ricordo, costruito fisicamente sulle macerie del precedente. In questo modo la cancellazione è completa, ad un tempo fisica e semantica: della Jugoslavia in Kosovo non deve rimanere traccia alcuna. Una damnatio memoriae del XXI secolo.
Ancora più esemplificativo, se possibile, è il piccolo memoriale destinato ai due amici e partigiani presente a Pristina, presso il parco cittadino. Costituito da due busti bronzei raffiguranti gli eroi nazionali jugoslavi, venne severamente danneggiato nel 1999, quando il capo di Boro – etnicamente serbo – venne divelto dalla sua sede e trafugato. Nel Kosovo scosso dal conflitto tra Uçk e Jna, non vi era più spazio per esempi di fratellanza tra serbi e albanesi. Morti insieme sotto la stessa bandiera, Boro e Ramiz vennero così violentemente separati post-mortem.
Stjepan Filipović, da eroe popolare a ricordo sgradito
Assieme a Boro e Ramiz, Stjepan Filipović è un altro di quei nomi che le generazioni nate sotto la bandiera della Jugoslavia socialista non potevano permettersi di non conoscere. Classe 1916, si unì al movimento operaio nel 1937 e venne arrestato nel 1939. Non appena rilasciato, si iscrisse al Kpj e guidò in qualità di comandante il battaglione partigiano “Tamnavsko-Kolubarski” a Valjevo, in Serbia, durante l’insurrezione partigiana del 1941. Catturato dai cetnici (movimento nazionalista serbo, monarchico e collaborazionista), venne interrogato dalla Gestapo e pubblicamente impiccato a Valjevo dalla guardia di stato serba.
L’impiccagione non andò però esattamente come previsto dalle autorità occupanti. Organizzato il patibolo in una delle piazze principali della città e invitata attivamente la popolazione ad assistere all’evento a scopo dissuasivo e intimidatorio, la condanna a morte si trasformò in un incredibile palcoscenico, che Filipović seppe sfruttare per spronare la cittadinanza alla lotta e alla resistenza armata:
Restate a guardare. In questo modo, se rimanete a guardare, il nemico vi impiccherà uno per uno. Non abbiate paura della morte. Non è niente. Lo vedrete tra pochi istanti, quando morirò. La morte non è terribile se si sa per cosa si muore.
Tirate fuori le vostre armi arrugginite, conquistate la vostra libertà e i vostri diritti, sradicate i traditori interni, gli aiutanti e i servitori del fascismo. Accedi ai distaccamenti partigiani. Aiuta la lotta di liberazione nazionale. Abbasso Hitler e le sue bande criminali!
Nella sua ultima, appassionata arringa alzò entrambi i pugni al cielo, assumendo quell’iconica posa che, catturata da una fotografia esposta a grandezza naturale presso il palazzo delle Nazioni unite e il memoriale dell’Olocausto a Washington, divenne istantaneamente il simbolo della resistenza al nazifascismo nell’Europa occupata. Le ultime sue parole furono lo slogan del movimento partigiano guidato da Josip Broz Tito: “Smrt fašizmu, sloboda narodu!”, “Morte al fascismo, libertà al popolo!”.
Il luogo di nascita e di morte dell’eroe nazionale jugoslavo vennero marcati da due monumenti che riprendevano i suoi ultimi momenti di vita e il suo sprezzante gesto di sfida nei confronti degli occupatori. A Opuzen, in Croazia, presso il luogo che diede i natali a Filipović, nel 1978 venne eretta una statua di bronzo alta cinque metri, posta al di sopra di una scalinata alta quattro.
Resistette tredici anni appena: nel 1991, a pochi mesi dall’inizio della guerra, lo spomenik venne letteralmente fatto saltare in aria con l’esplosivo, lasciando in piedi solo la scalinata in cemento e la forca sopra alla quale la statua di Filipović si reggeva. Nonostante si fosse a lungo disquisito su una eventuale ricostruzione, nel 2010 anche questi ultimi resti vennero spianati, per fare largo a un ipotetico centro commerciale che, infine, non venne mai realizzato.
Il suo omologo d’oltreconfine se la passa certamente meglio, ma nemmeno lui gode di ottima salute. In questa versione, inaugurata nel 1960, la scalinata non è presente, ma in compenso la forca e l’imponente statua in alluminio misurano complessivamente 16 metri di altezza.
Per proteggere il monumento dagli oltraggiosi graffiti che periodicamente tornano ad imbrattarlo, nel 2010 Subnor – l’Unione delle associazioni dei combattenti della guerra di liberazione nazionale del comune di Valjevo – decise di riverniciare lo spomenik, portandolo così agli antichi fasti. Peccato che nel nobile intento, in maniera del tutto grossolana, finirono per fare anche peggio, utilizzando una vernice per cemento su una statua in lega di alluminio, aggravando il danno al memoriale e ricevendo pure una denuncia da parte dell’istituto serbo per la protezione dei monumenti.
L’ultimo atto di vandalismo risale al mese scorso, quando, come riportato da diverse testate locali, il monumento è stato ulteriormente deturpato da graffiti rappresentanti figure falliche e simboli nazionalisti serbi. Niente di nuovo per il patrimonio jugoslavo in Serbia.
Il fiore della libertà e la statua di Nikola Petrov
Anche laddove il risentimento nei confronti del passato jugoslavo è pressoché inesistente, comunque la situazione non è delle migliori. Incuria, disinteresse istituzionale, furti e mancanza di fondi hanno compromesso anche il patrimonio jugoslavo in Macedonia del Nord, mettendone talvolta a rischio la stessa esistenza. Stiamo parlando, per esempio, del monumento alla libertà di Gevgelija.
Costruito per commemorare ad un tempo la rivoluzione di Ilinden contro l’Impero ottomano e la costituzione nel 1943 del distaccamento partigiano di Gevgelija, inizialmente lo spomenik sorgeva assieme ad altri elementi artistici a Vardarski Rid. Il susseguente disfacimento della Jugoslavia, la decisione di avviare degli scavi archeologici sul sito e la costruzione dell’autostrada E-75 ne hanno però segnato il destino.
Spostato di due chilometri circa in direzione sud-est, il “fiore della libertà” giace in stato di decadimento e abbandono sulla collina di Mrzenski. Gran parte della copertura esterna in alluminio, che originariamente era pensata per riflettere scenicamente la luce naturale o artificiale alla quale era esposta, è stata divelta, lasciando il nudo scheletro esposto alle intemperie. Nessun indizio lascia presumere a celebrazioni ricorrenti, nessuna targa commemorativa, spiegazione o indicazione.
Stando così la situazione, senza alcun intervento manutentivo da parte delle autorità locali (tardivo e oramai di difficile realizzazione), non è difficile prevedere che di qui a qualche tempo anche il poco che rimane del fiore della libertà scompaia, andando ad infoltire la triste lista degli spomenici persi per sempre insieme alla Jugoslavia che rappresentavano. Come è il caso, per esempio, del monumento a Nikola Petrov che si trovava nei pressi di Negotino.
Prima del 2016 a Crveni Bregovi sorgeva imponente una statua bronzea del ventitreenne Nikola Petrov, qui fucilato dagli occupatori bulgari il 24 giugno del 1943. Il monumento, del peso di una tonnellata, raffigurava il giovane partigiano avanzare fieramente di un passo verso il plotone d’esecuzione, la camicia sbottonata fino alla cintola, porgendo il petto ai proiettili nemici. Pugno destro serrato, fucile sulla sinistra e vento a scompigliarne i capelli, si trattava di una degna rappresentazione del primo combattente partigiano di Negotino.
Peccato che, incredibilmente, di punto in bianco sia rimasto solo il piedistallo: forse stanca di essere trascurata, pare che la statua abbia deciso di andarsene sulle proprie gambe. O almeno, questa parrebbe essere la spiegazione più plausibile, visto che né le autorità locali né i cittadini di Negotino ne sanno nulla, e un colosso di una tonnellata non può sparire così, all’improvviso. C’è chi l’ha scorto in un’azienda vinicola locale, chi giura di averlo visto comprare le sigarette alla vicina stazione di servizio. Fatto sta che da quel giorno la statua di Nikola Petrov a Negotino non ha più fatto ritorno.
Tutela del patrimonio jugoslavo: un bilancio incerto
Come emerge da questi esempi, il patrimonio jugoslavo delle repubbliche emerse sulle ceneri della seconda Jugoslavia resta a rischio, sebbene con diverse sfaccettature. Non mancano infatti interventi manutentivi, progetti per la riedificazione di monumenti distrutti durante e dopo i conflitti degli anni Novanta, la ricollocazione di spomenici rimossi dallo spazio pubblico, e addirittura tour virtuali e non che mirano alla valorizzazione del patrimonio jugoslavo. Si tratta di provvedimenti che generano meno clamore rispetto alle notizie legate a vandalizzazioni e distruzioni, ma pur sempre presenti, che fanno comprendere quanto in realtà non tutti gli strati sociali siano polarizzati su posizioni di diniego del passato recente e sulla volontà di distruggere ogni ricordo legato al trascorso comune.
Ovviamente, questi esempi di riconciliazione con il passato sono tanto più frequenti quanto meno le popolazioni sono risultate affette dalle violenze legate al disfacimento della Jugoslavia, e quanto più le narrazioni dominanti sono concilianti e pluraliste. Laddove invece l’opinione pubblica è ancora ostaggio di élite politiche etno-nazionaliste, estremiste e divisive, e laddove le vicende belliche sono state più cruente, rimanendo impresse indelebilmente nella memoria collettiva, tendenzialmente, il patrimonio jugoslavo è fonte di discordia e più incline a subire atti vandalici e rimozioni.
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.