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Sono passati quasi dieci anni da quando la bandiera nera dell’ISIS è apparsa all’entrata di Gornja Maoča, un piccolo villaggio collinare della Bosnia nord-orientale abitato da una trentina di famiglie, non lontano dalla città di Brčko, a circa quattro ore da Sarajevo.
Lo Stato Islamico (ISIS), dopo la sua avanzata travolgente in Siria e Iraq iniziata nella primavera 2014, ha raccolto vasto consenso in ogni angolo del mondo musulmano, dove alcuni gruppi di musulmani conservatori hanno risposto al suo appello jihadista recandosi direttamente in Medio Oriente o trasformando interi quartieri o villaggi di moltissimi paesi occidentali e non, in delle vere e proprie roccaforti jihadiste.
La Bosnia ed Erzegovina, che conta una popolazione musulmana di poco superiore al 50% e soffre di un governo centrale piuttosto debole, è apparso come il terreno ideale per il proliferare del fenomeno ISIS, specie tra le colline di Maoča dove, grazie anche a una geografia favorevole, dopo la guerra degli anni Novanta ha trovato dimora un Islam particolarmente rigorista, in cui negli anni si sono infiltrate personalità legate al terrorismo islamico internazionale.
Negli ultimi 15 anni, Gornja Maoča è finita spesso nel mirino dell’antiterrorismo per sospetti collegamenti tra alcuni dei suoi abitanti e i principali gruppi islamisti radicali come Al-Qaeda e l’ISIS, e l’apparizione della bandiera del califfato nel febbraio 2015 ha fatto scattare l’ennesima operazione di polizia che ha portato ad alcuni arresti oltre alla rimozione della bandiera e l’aumento della sorveglianza generale.
La zona di Gornja Maoča è stata ritenuta da molti osservatori come una delle principali basi di radicalizzazione islamica in Europa, oltre che una vera e propria stazione intermedia dei foreign fighters di tutta Europa in rotta verso la Siria e l’Iraq per l’arruolamento nei diversi gruppi radicali islamici attivi nella regione. Secondo uno studio del King’s College di Londra del 2018, dalla sola Europa Occidentale sono partite 5.904 persone e ne sono tornate ben 1.765 dalla Siria e Iraq, mentre dalla Bosnia ed Erzegovina le partenze si attestano sulle 350 e i ritorni 60.
Ma che ne è oggi di Gornja Maoča?
Gornja Maoča è separata da circa quattro chilometri di strada sterrata dalla città bassa (Maoča) e sul punto dove la strada si interrompe trovo una pattuglia della polizia in sosta che controlla il traffico in entrata e in uscita, ma invece di fermarmi mi osservano attoniti. Inverto il senso di marcia e chiedo ai poliziotti se è quella la strada per Gornja Maoča, confermano, e senza fare ulteriori domande mi fissano ancora più meravigliati, forse addirittura impauriti. Del resto, Gornja Maoča è un nome piuttosto pesante che desta anche una certa paura e da molti bosniaci è considerata come una sorta di stato nello stato, una zona off-limit.
Procedo adagio per qualche chilometro fino a che non mi imbatto nel celebre cancello dove otto anni fa era comparsa la famosa bandiera dell’ISIS. Non c’è anima viva. Probabilmente c’è già stato un possibile passaparola. Le colline intorno a Gornja Maoča sono un dedalo di strade e di piccole vie. Sono costretto a parcheggiare e a chiedere informazioni su come raggiungere il centro del paese.
Provo ad avvicinarmi alla prima fila di case ma non si palesa nessuno, valuto di andarmene, ma mentre torno alla macchina scorgo una signora uscita a stendere i panni proprio dove sostavo prima e le chiedo informazioni. Inizialmente è riluttante e non vuole aiutarmi. Poco dopo ci ripensa e mi spiega dettagliatamente come arrivare al villaggio di quelli che definisce “wahabiti”. Gornja Maoča è un nome pesante per tutti.
Dentro Gornja Maoča
Proseguendo per la strada fangosa si cominciano a scorgere bambine di ogni età velate e donne col velo integrale nero usato soprattutto in Arabia Saudita e golfo, il niqab. Molte auto non hanno nemmeno le targhe. Solo una volta addentratomi nel villaggio vero e proprio fermo un ragazzo per chiedere informazioni su dove sia Milić (nome di fantasia), uno dei punti di riferimento attuali degli abitanti di Gornja Maoča, divenuto tale dopo la partenza per la Siria e l’arruolamento nelle file del fronte al-Nusra (il braccio di Al-Qaeda in Siria) di Nusret Imamović, tra i principali ispiratori della comunità di Gornja Maoča.
Un ragazzo sul ciglio della strada mi guarda con sospetto ma cambia radicalmente approccio quando, dopo averlo chiamato, inizio a parlare in arabo. A quel punto mi invita dentro la moschea principale per provare a chiedere lì. È più o meno mezzogiorno ed è l’ora della preghiera, entro trovandovi almeno due dozzine di fedeli dalle lunghissime barbe in procinto di pregare. Mi siedo in fondo e tutti iniziano ad osservarmi incuriositi. In quel momento scorgo qualcosa che mi disturba molto e che mai prima d’ora era successo in un contesto non bellico e di relativa quiete come quello bosniaco: due ragazzi in preghiera tra i 20 e i 30 anni erano abbigliati esattamente come i combattenti dell’ISIS.
Decido di uscire immediatamente dalla moschea e allontanarmi con l’auto per evitare ogni potenziale effetto “branco” una volta che la preghiera fosse terminata.
Vengo così raggiunto da Mohamed (nome di fantasia), un uomo di mezza età abitante locale con cui avvio una discussione interamente in arabo. Gli chiedo se sapesse dove potevo trovare la persona che stavo cercando, ma non faccio in tempo a finire la domanda che mi risponde quasi in modo automatico che è fuori dal villaggio, a Sarajevo, e non sa quando sarebbe tornato. Mohamed sembra preparato a rispondere alle domande, come quella sui foreign fighters partiti da Gornja Maoča, “roba vecchia” dice, “qualcuno è partito per la Siria anni fa, ma oggi è tutto ok, non abbiamo nessun legame con quei gruppi” e svia subito il discorso.
Negli ultimi dieci anni a Gornja Maoča hanno soggiornato diverse personalità legate all’estremismo islamico come il famoso reclutatore pro-ISIS Bilal Bosnić, arrestato nel 2015 (e rilasciato nel 2021), il predicatore Nusret Imamović unitosi ad Al-Nusra in Siria nel 2013, Mevlid Jašarević, l’esecutore dell’attentato all’ambasciata statunitense di Sarajevo nel 2011, e quasi tutti quelli riusciti a tornare in Bosnia sono stati condannati a pene detentive non superiori a 7 anni di carcere.
Chi supporta Gornja Maoča
Oltre a quello dei foreign fighters, l’argomento più scottante che ruota attorno a Gornja Maoča e in generale al fondamentalismo islamico nei Balcani è chi lo supporta. Per questo chiedo a Mohamed se dietro alla costruzione della moschea e delle scuole di Gornja Maoča ci sia l’Arabia saudita o qualcun altro. “Non ho mai visto le fatture e gli scontrini di nessuno” risponde divertito ma secco.
Eppure, sono incontenibili le voci che circolano in tutta la Bosnia che accusano l’Arabia Saudita e altri paesi del golfo di supportare e finanziare molto generosamente varie comunità islamiche salafite tra cui quella di Gornja Maoča. Persino il parlamento tedesco si è interrogato sulla questione nel 2018, dove sono stati denunciati vari legami tra i gruppi radicali attivi nei balcani e in Germania, ma il governo tedesco non si è espresso per non rischiare di compromettere gli intensi rapporti economici con alcuni “partner importanti”.
In verità, evidenze degli ingenti finanziamenti provenienti dal golfo verso la Bosnia ed Erzegovina sono visibili ovunque nel paese, molte moschee distrutte durante la guerra degli anni Novanta sono state riparate o costruite ex novo dai paesi del golfo, caso esemplare è la moschea di Re Fahd costruita dall’Arabia Saudita a Sarajevo e inaugurata nel 2000, famosa per essere frequentata da fedeli considerati particolarmente “osservanti”.
Certamente, la costruzione di una moschea o di madrasse islamiche adibite all’educazione non può e non deve essere confusa come attività di supporto al terrorismo, storia diversa è invece quando nel 2014 divenne noto che Bilal Bosnić ricevette da un misterioso cittadino del Kuwait la somma di almeno 50mila euro per motivi e scopi ignoti.
Dopo la domanda su chi ha finanziato la moschea di Gornja Maoča, Mohamed, seppur calmo e cordiale, dava l’impressione di volermi liquidare il prima possibile, e così ho fatto, chiedendogli al volo dove avesse imparato l’arabo levantino (arabo del Medioriente) vista l’abilità nel parlarlo e capirlo, e dopo una breve esitazione, forse tattica, ha risposto: “in Egitto”.
A Gornja Maoča, oggi, continua ad esserci un’aria pesante, un alto muro di silenzio e omertà che per volontà o etichetta non riesce mai a lasciarsi alle spalle la terribile fama di “villaggio di terroristi” guadagnatasi negli ultimi vent’anni. Nonostante ci siano altri villaggi simili in Bosnia e nei Balcani, Gornja Maoča è un grande argomento tabù, tutti sanno, ma nessuno ne vuole veramente parlare, esattamente come per il tema collegato del ritorno dei jihadisti dal Medio Oriente in Bosnia, che secondo il professor Vlado Azinović dell’università di Sarajevo ammontano ad almeno 94 i rimpatriati.
Ciò che è certo è che la realtà di Gornja Maoča dà la sensazione di essere protetta da qualcosa o da qualcuno, un qualcuno che nessuno ha la volontà e il coraggio di disturbare.
*Laureato magistrale in studi dell’Africa e dell’Asia all’università di Pavia, ha compiuto vari studi e ricerche in Africa, Balcani e Medio Oriente sul fondamentalismo Islamico e sullo sviluppo dei conflitti inter-etnici e confessionali. Fondatore e produttore del canale YouTube divulgativo La scuola Orientale. Lingue parlate: arabo, inglese, spagnolo, serbo-croato (base).