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Il 24 aprile ricorre l’anniversario del genocidio armeno, data in cui nel 1915 ebbe luogo la prima deportazione organizzata di intellettuali armeni dall’allora Costantinopoli alla città di Ankara e che segnò l’inizio dello sterminio fisico di quasi tutta la popolazione armena residente nell’odierna Turchia. Tale evento storico è stato riconosciuto come “genocidio” da 33 paesi e da varie organizzazioni e istituzioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite (1985) e il Consiglio d’Europa (2001).
Questa data viene celebrata non solo in Armenia, ma anche dai membri della diaspora armena mondiale, la quale dipende in maniera essenziale dalla memoria del suo passato, cioè dal ricordo della sofferenza e della tragedia vissute dagli antenati.
In realtà, è opportuno ricordare come le commemorazioni ufficiali di questa tragedia si siano verificate solo a partire dal cinquantesimo anniversario dell’evento, nel 1965, seppure il ricordo del genocidio abbia plasmato la memoria collettiva della diaspora ben prima di tale data. Infatti, il contesto politico – tra cui le restrizioni imposte in ambito sovietico alla libertà di espressione delle minoranze – così come fattori psicologici e pratici (in primis, la concentrazione delle energie e delle risorse delle varie diaspore mondiali negli sforzi di integrazione nei paesi ospitanti) hanno a lungo inibito le discussioni pubbliche sulla questione.
Dal cinquantesimo anniversario, i sopravvissuti al genocidio, insieme ai loro figli e nipoti, sono finalmente riusciti a rompere il “muro di silenzio” che nei decenni passati aveva bloccato l’espressione dei loro ricordi traumatici. A partire da tale momento, molti giovani armeni, esposti in maniera intergenerazionale a un trauma che aveva lasciato segni indelebili nella loro coscienza comunitaria, presero a dedicarsi in maniera crescente ad attività e manifestazioni politiche, dando vita a dinamica memoriali e socioculturali tuttora persistenti.
Non deve sorprendere, pertanto, il fatto che il modello di sopravvivenza culturale della diaspora armena sia radicato nel suo continuo confronto con il trauma del genocidio del 1915. Secondo il famoso scrittore armeno di Romania Varujan Vosganian, autore del romanzo Il libro dei sussurri, infatti, la memoria è diventata per gli armeni più importante della morte e della vita stesse. Gli effetti emotivi del genocidio si estendono dunque ben oltre la prima generazione di discendenti di coloro che scamparono a questa tragedia, dimostrando che la memoria familiare può essere riprodotta e trasmessa nelle menti e nei cuori di generazioni molto successive, attraverso attualizzazioni memoriali che la studiosa Marianne Hirsch ha definito come “post-memoria”.
Il ricordo del genocidio armeno a Plovdiv
Per quanto riguarda lo spazio dell’Europa orientale, uno dei luoghi in cui la memoria del genocidio armeno viene ancora tramandata in maniera significativa è Plovdiv in Bulgaria, una città particolarmente sensibile a tali avvenimenti, poiché ospita la più grande comunità armena di questo paese, molti dei cui membri discendono proprio da sopravvissuti al genocidio armeno.
Qui, i festeggiamenti del 24 aprile sono sempre caratterizzati da una grande affluenza e da grandi emozioni. La giornata solitamente inizia con una funzione commemorativa presso la chiesa apostolica armena di Surp Kevork, seguita da alcuni minuti di silenzio davanti alla grande croce di legno (khachkar) situata nel cortile del complesso comunitario tra la chiesa e la scuola armena Tutunjian. Gli alunni recitano poesie dedicate ai loro antenati che persero la vita nel genocidio e onorano le vittime deponendo fiori attorno al monumento.
Poi, nel pomeriggio, i componenti della comunità armena e rappresentanti delle organizzazioni armene locali, insieme ad altri cittadini, marciano lungo la strada principale della città sventolando le bandiere armena e bulgara. La commemorazione si conclude nella piazza centrale di Plovdiv, dove viene letto un comunicato che invita la Turchia a riconoscere come “genocidio” i crimini commessi contro gli armeni durante la Prima guerra mondiale.
Nel 2015, in concomitanza con il centenario dell’inizio delle persecuzioni, il parlamento bulgaro ha adottato una dichiarazione in cui riconosceva gli eventi, pur non classificandoli come “genocidio” bensì come “sterminio di massa del popolo armeno nel territorio dell’Impero ottomano”. Tuttavia, i comuni di Plovdiv, Burgas, Ruse, Stara Zagora e Pazardžik riconoscono ufficialmente da diversi anni i massacri armeni come “genocidio”, un fatto che in alcuni casi ha portato a tensioni nelle relazioni della Bulgaria con la Turchia.
Per approfondire, vi consigliamo la lettura di Language Attitudes, Collective Memory and (Trans)National Identity Construction Among the Armenian Diaspora in Bulgaria, libro di Giustina Selvelli che studia i processi identitari promossi dalle élite culturali armene nella città bulgara di Plovdiv, concentrandosi sulla trasmissione di ideologie linguistiche positive e di elementi emotivi legati alla memoria collettiva, ivi compreso il ricordo del genocidio armeno. Il libro colloca la questione nel contesto unico della Bulgaria, analizzando anche l’impatto della vicinanza alla Turchia.
Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.