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La vera storia di Klaudio Ndoja: il ragazzo con l’aquila sulla schiena

di Michele Pettene*

Potremmo dire che sono passati ormai ventisei lunghi anni dalla notte che avrebbe cambiato per sempre il destino e la vita del cestista italo-albanese Klaudio Ndoja, ma la verità è un’altra. Come accade solo alle vite straordinarie, di notti che hanno cambiato radicalmente la propria vita Klaudio ne ha vissute ben più d’una in poco meno di 40 anni su questo pianeta. Quella del 1998 non è stata nemmeno la prima in ordine cronologico, ma sicuramente verrà ricordata come la più traumatica di una vita talmente unica da ispirare un libro e un film.

Ma andiamo con ordine.

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Prima parte: Klaudio Ndoja e l’Albania

Klaudio Ndoja nasce in un anno cruciale per le sorti future della sua Albania, il 1985. L’11 aprile se n’è andato infatti Enver Hoxha, il famigerato dittatore della nazione. 37 giorni dopo mamma Katina dà alla luce a Scutari il suo primogenito, Klaudio. È un periodo complicato per il paese più isolato dei Balcani: il Klaudio bambino è testimone diretto della faticosa transizione dal regime comunista a quello del “libero” mercato, inconsapevole che gli echi lontani della caduta del Muro di Berlino stiano causando nella sua terra gli stessi epocali cambiamenti in corso in quella che di lì a poco diventerà l’ex Jugoslavia.

La democrazia tanto auspicata dagli intellettuali e dagli universitari di Tirana è affare ben più difficile da gestire nella pratica rispetto alla teoria e agli ideali. C’è pur sempre una classe politica ereditata dal vecchio regime da mitigare in un nuovo governo a cui tutti vorrebbero togliere l’ingombrante influenza comunista, mentre l’economia si riscopre la più debole e impreparata del mondo occidentale agli inizi degli anni Novanta.

A Scutari, la Firenze dei Balcani, la famiglia Ndoja conduce una vita dignitosa. Il capofamiglia, Paulin, è un sergente di ferro che lavora come carrozziere nel cortile di casa e applica un sistema educativo che il grande coach serbo Duško Vujošević definirebbe “ispirato alla cara vecchia scuola pedagogica prussiana”. Un modo più elegante per dire che Klaudio vede più il proverbiale bastone della carota durante la sua non troppo tenera infanzia. 

Ma in uno di quei rari sprazzi di affetto esplicito è proprio il padre a regalare al figlio il primo rudimentale canestro, prelevato dal campetto di una scuola abbandonata e montato tra le carcasse delle macchine in riparazione dentro al recinto casalingo. Un dono che, rispondendo al bisogno primario di tenere il ragazzino all’interno delle mura domestiche e lontano dalle pericolose strade albanesi di quegli anni, avrà come risultato ben più formidabile quello di accendere una scintilla destinata a cambiare la vita di tutta la famiglia nei decenni successivi. 

Il primo canestro di Klaudio Ndoja in Albania (Michele Pettene)

Nel frattempo, però, c’è una situazione sempre più drammatica da gestire: il crollo degli schemi Ponzi dichiarati “sicuri” dal governo ha fatto scattare lo stato d’emergenza nazionale all’inizio del 1997. I disordini e l’anarchia si diffondono a macchia d’olio, alimentati dalla frustrazione di una popolazione già poverissima e ora per di più truffata dagli imprenditori privati garantiti dal governo di Sali Berisha.

La violenza si diffonde dal focolaio delle città del sud in tutta la nazione, arrivando fino a Scutari. Cittadini inferociti e crimine organizzato non si distinguono più. Gli arsenali statali sono presi d’assalto, le forze dell’ordine non possono nulla. La sorellina di Klaudio, Alba, mentre sta giocando nel cortile di casa col fratello viene colpita al polpaccio da un proiettile vagante: è un segnale inequivocabile – dice papà Paulin – dobbiamo andarcene, costi quel che costi.

Così, seguendo l’esempio della prima grande ondata di albanesi giunti in Italia subito dopo la caduta del comunismo, con il simbolo della nave Vlora stracolma nel porto di Bari nel giugno del 1991, la famiglia Ndoja vende tutto, casa e averi, usando i risparmi di una vita per negoziare coi trafficanti quattro posti su uno scafo che li dovrebbe condurre da Valona sulle spiagge pugliesi, al di là dell’Adriatico.

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Klaudio ha dodici anni. L’ingenuità di quell’età lo protegge dal comprendere integralmente i rischi di quella scelta così radicale, ma la sua altezza ben superiore alla media lo scaraventa all’improvviso nell’occhio del ciclone nel bel mezzo della notte prescelta per la fuga dal suo paese in fiamme. A pochi chilometri dalla riva dove lo scafo li attende per imbarcarli, la famiglia Ndoja, insieme agli altri fuggiaschi, viene fermata dalla polizia locale e divisa in due gruppi.

Klaudio, tradito dal suo metro-e-settanta, viene scambiato per un adulto, portato in una cella insieme agli altri poveracci, messo spalle al muro e interrogato brutalmente: risposte da dare non ne ha, non le conosce, ma il suo sguardo innocente non intenerisce la guardia che, come monito da lanciare agli altri detenuti, gli spacca la mascella con il calcio del fucile in dotazione.

È il momento più duro, Klaudio è solo, sanguinante e disperato. Non sa come ne uscirà, né come sta il resto della sua famiglia. Ma un po’ di sporco denaro infilato nelle tasche della polizia risolve le cose come le ha sempre risolte fino a quel momento in Albania: i mafiosi responsabili del traffico umano tra le due coste hanno trovato un accordo con le guardie corrotte, i prigionieri sono lasciati liberi di andare incontro al loro destino e la famiglia Ndoja si può ricongiungere.

Nessuno però tira sospiri di sollievo. Il battello su cui vengono imbarcati è malandato, arrugginito, piccolo per la moltitudine umana infilata come carne da macello in ogni spazio disponibile. La tragedia del naufragio della Katër i Radës dei mesi precedenti risuona cupa nella testa di tutti. Klaudio con il padre finisce nella stiva, gettato sopra a dei grossi pacchi che contengono droga da smerciare una volta arrivati in Italia, l’unico vero business cui i criminali al comando siano interessati. La sorella e la madre vengono tenute in coperta, insieme alle altre donne, a fare da scudo umano nel caso gli elicotteri della guardia costiera volessero mettere i bastoni tra le ruote durante la traversata.

Il battello lascia l’Albania e nel giro di poche ore si porta vicino alla costa pugliese. Il territorio italiano non è ancora visibile ma più di qualcuno sussurra che stanno per arrivare, che l’Italia è vicina. L’entusiasmo inizia a farsi largo tra i cuori tremanti a bordo, inconsapevoli che il peggio purtroppo debba ancora arrivare. Sprezzanti della parola data, i trafficanti, cinici e privi di umanità, raggelano il sangue a tutti: a qualche centinaio di metri dalla spiaggia, illuminata solo dalla Luna, l’ordine perentorio e minaccioso è quello di tuffarsi in acqua e raggiungere la riva a nuoto per non mettere in pericolo il carico di droga che i contrabbandieri vogliono sbarcare in un posto sicuro.

Klaudio, furente ma impotente, si getta nelle acque nere e gelide così come i suoi famigliari. Alba, la piccola di otto anni, si aggrappa alle spalle del padre che sta nuotando come gli altri profughi verso riva, lottando contro le onde per toccare terra il prima possibile. I sacchi della spazzatura con dentro gli unici oggetti personali portati con sé rendono difficile ogni singola bracciata. 

All’improvviso i piedi di Klaudio lanciano il primo segnale di salvezza sfiorando la sabbia del fondale. Il corpo faticosamente affiora dal mare, distrutto eppure sopravvissuto a una notte infernale. Preoccupato, Klaudio si guarda attorno: gradualmente, prima la mamma poi papà e sorella stanno emergendo insieme a tutti gli altri fuggiaschi. Lo scafo che li ha lanciati in mare è già scomparso nell’oscurità. 

La famiglia Ndoja è arrivata in Italia.

Seconda parte: l’Italia

Se questa fosse una “semplice” storia di immigrazione, il film, un po’ come il recente e meraviglioso Io Capitano di Matteo Garrone, si concluderebbe così, con l’avvistamento all’orizzonte di quella che il regista Gianni Amelio definì “Lamerica” di quegli anni per chiunque arrivasse dall’Albania.

Copertina del libro La morte è certa, la vita no. La storia di Klaudio Ndoja, di Michele Pettene (Imprimatur, 2015)

Ma questa storia oltre che di immigrazione parla anche di riscatto e di incontri salvifici. Di sport, di pallacanestro. Parla di un destino trascinato di peso verso una dimensione nemmeno concepibile prima dell’arrivo in Italia. Parla di una forza di volontà rara, una determinazione e una testardaggine che alcuni definirebbero tipicamente balcaniche. Parla di un fervente cattolico e della sua fede incrollabile in un disegno divino, l’assoluta certezza che tutto quello che gli stesse capitando avesse un senso.

Parla, in definitiva, dell’esistenza di Klaudio Ndoja, il ragazzo che si fece tatuare l’aquila bicefala albanese su tutta la schiena.

Ma dove eravamo rimasti?

Klaudio e la sua famiglia sono sbarcati vicino a Brindisi. Dopo varie disavventure, insulti e tappe intermedie sempre a bordo di treni regionali che percorrono la penisola, gli Ndoja battezzano come dimora semi-stabile Palazzolo Milanese, frazione di Paderno Dugnano, vicino a Desio. Papà Paulin ha trovato lavoro come guardiano notturno di una fabbrica che è diventata anche casa; il posto è angusto, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

Klaudio, nel tanto tempo libero a disposizione e per evitare il più possibile il rischio di eventuali controlli della polizia, ha cominciato a frequentare l’oratorio di Palazzolo Milanese diventando amico del parroco, don Marco Lodovici. Un incontro che segna per sempre la vita del giovane albanese: notando infatti l’altezza media superiore ai pari-età e un grande talento per il basket, il parroco porta Klaudio a fare un provino per le giovanili della società di Desio, da sempre storicamente di gran valore.

La miscela esplosiva di altezza, coordinazione e tiro convince il coach Alberto Sacchi e la dirigenza a puntare sul ragazzone. Klaudio evolve e cresce all’interno della società diventando presto un punto di riferimento per la sua squadra. L’insperata conseguenza è l’aiuto che Klaudio e la famiglia ricevono con i permessi di soggiorno prima e con una vera casa poi, ma alla porta ci sono ormai le principali squadre lombarde che bussano insistentemente per accaparrarsi il nuovo talento arrivato dal nulla.

È l’inizio di una nuova routine nella vita di Klaudio: società dopo società, canestro dopo canestro, dalle prestigiose giovanili di Casalpusterlengo alla serie B con Sant’Antimo in Campania, Ndoja diventa nel 2007 il primo albanese nella storia a esordire nella Serie A italiana con Capo D’Orlando, a soli 22 anni e con compagno di squadra una leggenda vivente come Gianmarco Pozzecco.

Ormai la storia di Klaudio è di pubblico dominio, addirittura anche la Rai arriva ad intervistarlo. Klaudio intanto sta iniziando a guadagnare bene con la pallacanestro, può iniziare a pensare al futuro, alla famiglia, a come proseguire la propria carriera e non più a come sopravvivere nel nuovo Paese che lo sta adottando.

La girandola di squadre nel 2011 lo porta infine a Brindisi, la stessa città, gli stessi luoghi che l’avevano visto sbarcare 13 anni prima in quella notte infernale: in LegaDue, la Serie B del basket, Ndoja ormai è una stella affermata. Viene nominato capitano e il 14 giugno 2012 trascina Brindisi alla promozione in Serie A contro Pistoia. Al ritorno con l’aereo nella città pugliese il giorno dopo la vittoria Klaudio viene portato in trionfo dai tifosi, come un Re appena incoronato. Un albanese, immigrato, capitano di una squadra pugliese promossa in Serie A: assurdo, ma è un cerchio vitale che si chiude, e non poteva succedere in modo migliore.

Klaudio Ndoja incontra Papa Francesco in Vaticano (Michele Pettene)

Due anni dopo, mentre Klaudio continua il suo girovagare tra le squadre italiane, il Vaticano – durante la giornata nazionale del CSI e dello sport – lo chiama per raccontare davanti a una piazza San Pietro gremita la propria esperienza. Klaudio salirà sul palco e, con Papa Francesco di fronte a lui, inizierà così e con voce tremante il suo discorso:

Mi chiamo Klaudio Ndoja, e sono albanese. Sono arrivato in Italia nel 1998 con la mia famiglia.

Al termine, l’abbraccio con il Papa sancirà la chiusura dell’ennesimo cerchio della vita di una persona e non solo di un giocatore speciale che non ha ancora smesso di stupire.

Quando ho scritto le ultime righe del libro su Klaudio Ndoja La morte è certa, la vita no (Imprimatur, 2015) era il 2014 e ancora la carriera cestistica di Klod – questo il soprannome affibbiatogli durante le nostre lunghe conversazioni – non si era conclusa. 

Oggi, dieci anni dopo, è forse giunto il momento di scrivere un altro finale.

Klaudio ha vinto ancora dopo Brindisi, conquistando nel 2017 la promozione in Serie A anche con la maglia della Virtus Bologna, una delle società più blasonate e importanti della storia del basket italiano. Anche a Bologna l’ha fatto da capitano, l’ennesima conferma della caratura umana oltre che tecnica di Klod.

Terza parte: il ritorno in patria

Ora Klaudio è tornato nella sua Albania, ben diversa da quella che aveva lasciato nel 1998: da ex grande tiratore e giocatore intelligente si è trasformato in allenatore per aiutare le nuove generazioni di talenti albanesi, collaborando con la Federazione albanese e con l’amico Franko Bushati, altro grande ex del basket italiano ora diventato Segretario Generale della sua federazione. Tramite i suoi social è possibile vederlo all’opera sia in grandi arene rinnovate, luminose e col parquet, tanto quanto in piccole palestre di provincia dal pavimento in linoleum e canestri traballanti, instancabile nell’istruire il giovane di turno sugli angoli da prendere durante gli esercizi e sui movimenti di tiro.

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Un’evoluzione che in realtà mi aveva già pronosticato quando ancora stava giocando e durante le riprese del cortometraggio Klod (regia di Giuseppe Marco Albano, 2020), adattamento cinematografico del libro che abbiamo scritto sulla sua vita: ispirare i ragazzini, siano essi italiani o albanesi, con la sua storia e con la sua esperienza, senza prendere scorciatoie, ma lavorando sodo sia sul proprio talento che sul proprio studio.

Il cortometraggio Klod, prodotto dall’Apulia Film Commission all’interno del progetto europeo CIRCE, è visibile a questo link.

Un messaggio che ha ripetuto allo sfinimento durante le decine di presentazioni del libro che abbiamo fatto negli anni, nelle scuole medie e superiori, da Milano a Lamezia Terme.

Un messaggio che non poteva essere frainteso: ho visto con i miei occhi l’ammirazione e l’entusiasmo di tutti quegli studenti, in fila a chiedere l’autografo e poi nei giorni successivi a mandare messaggi privati sui social a Klaudio per ringraziarlo di cuore o chiedergli consiglio.

Non so se fosse questo il disegno divino che il buon Dio avesse in mente per Klod, ma nel caso gli è riuscito piuttosto bene.

*Michele Pettene, 1986. Giornalista e scrittore, si occupa di cinema, pallacanestro e rock. Collabora con Sky TV, Esquire Italia e L’Ultimo Uomo; ha scritto anche per “Rivista Ufficiale NBA” e “GQ”. È autore del romanzo sportivo La morte è certa, la vita no (Imprimatur, 2015) e del diario di viaggio americano Basketball Journey (Rizzoli, 2019). Nel 2021 ha tradotto per Add Editore Gli dei dell’asfalto. A casa ha una palla da basket donata dalla famiglia di Dražen Petrović.

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