Nel febbraio 2014 il movimento del plenum scuoteva la Bosnia ed Erzegovina chiedendo giustizia sociale e democrazia diretta oltre le barriere etniche. Dieci anni dopo questo momento di “quasi-insurrezione”, dove sono finiti i movimenti di sinistra nei Balcani? Risponde lo scrittore e filosofo Igor Štiks.
(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans, l’8 febbraio 2024 a firma Jean-Arnault Dérens – Tradotto da Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa)
Il movimento dei plenum, che nel febbraio 2014 scosse la Bosnia ed Erzegovina e tutti i Balcani sembra ormai essere caduto nell’oblio. Lei come spiega questo fatto?
È così che funziona la fabbrica dell’oblio. Il movimento dei plenum [assemblee cittadine], che travolse l’intera Federazione della BiH, può essere definito una quasi insurrezione ed è senza dubbio l’evento più importante della storia della Bosnia ed Erzegovina dopo gli Accordi di Dayton e il ritorno alla pace. Con gli Accordi di Dayton fu istituito un sistema etnocratico che avrebbe dovuto “garantire e salvaguardare la pace”.
Anche l’Unione europea si impegnò a preservare la pace e, al contempo, a promuovere l’integrazione della Bosnia ed Erzegovina, cercando di formare ed educare e, se necessario, anche di sorvegliare e punire gli attori politici locali. I risultati raggiunti rispetto a questi obiettivi sono abbastanza soddisfacenti: a distanza di quasi trent’anni dalla firma degli Accordi di Dayton, in Bosnia ed Erzegovina ancora regna la pace.
La società bosniaco-erzegovese fu però sacrificata [sull’altare di Dayton]. L’insurrezione dei plenum non era prevista dal piano di pace ideato dagli attori internazionali. La questione della giustizia sociale non rientrava nella loro agenda. I plenum riuscirono a coinvolgere i cittadini di tutti i gruppi sociali, a prescindere dalla loro appartenenza etnica. Non si trattò di un semplice movimento operaio né di uno dei cosiddetti movimenti “a tema”, come le mobilitazioni ambientaliste.
Fu un evento di grande portata, senza precedenti nei Balcani e in tutto l’est europeo, un fenomeno sorto in un paese che si credeva fosse “condannato” al perpetuarsi di conflitti etnici e religiosi! Il movimento dei plenum fu caratterizzato da un radicalismo nuovo e trascinante. Per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino, le richieste di uguaglianza e giustizia sociale si imposero come prioritarie.
Allora come si spiega l’oblio che sembra avvolgere la rivolta dei plenum?
Il movimento venne subito screditato e percepito come fonte di “problemi” e “scontri”. I plenum misero in discussione l’intero sistema istituzionale della Bosnia ed Erzegovina. Tuttavia, gli attori politici – quegli stessi che tutt’oggi dominano completamente la scena locale, controllando anche l’economia, i media e persino le reti criminali – ben presto riuscirono a marginalizzare il movimento di protesta, grazie anche, bisogna ammetterlo, ad un sostegno attivo della comunità internazionale.
Quest’ultima rispose al grido di giustizia sociale con nuove riforme neoliberali. C’era chi metteva in guardia sulle possibili conseguenze di queste riforme, ma le autorità bosniaco-erzegovesi decisero di rispondere alla crisi gettando ulteriore benzina sul fuoco, continuando ad aspettare, invano, gli investimenti esteri diretti e a ripetere la litania, ormai ben nota, delle misure inefficaci.
Una strategia che non fece altro che aggravare la povertà dilagante, accelerando l’esodo della popolazione e acuendo la crisi demografica che tutt’ora continua a dilaniare la Bosnia ed Erzegovina. Nessuno voleva assumersi il rischio di scuotere la struttura etnocratica del paese. La stabilità del sistema esistente fu riconfermata alle elezioni che si tennero pochi mesi dopo la rivolta. I plenum, come c’era da aspettarsi, non si trasformarono in un partito politico: accettare di partecipare alle elezioni sarebbe equivalso a legittimare il sistema, e in un contesto istituzionale opprimente, come quello bosniaco-erzegovese, era impossibile portare avanti una nuova politica civica e progressista.
È d’accordo con chi ritiene che il movimento dei plenum abbia segnato il culmine e, al contempo, la fine di un ciclo politico caratterizzato dalle proteste studentesche in Croazia nel 2009 e dalla mobilitazione contro le misure di austerità in Slovenia?
Assolutamente. Insieme al mio collega Krunoslav Stojaković, ho scritto un breve libro sulla nuova sinistra dei Balcani. Nel libro abbiamo individuato due cicli. Il primo, che abbraccia il periodo dal 2009 al 2014, quindi dal movimento degli studenti croati ai plenum, era strettamente legato a quanto stava accadendo in Grecia e in altri paesi europei, ma anche negli Stati Uniti con il movimento Occupy Wall Street. Le assemblee cittadine in Bosnia ed Erzegovina segnano il culmine e l’inizio della fine di questo ciclo.
In un secondo momento, questo grande movimento di protesta è diventato sempre più istituzionalizzato, con la creazione di gruppi, e poi di veri e propri partiti politici che hanno iniziato a partecipare alle elezioni. Uno scenario a cui si è assistito in Slovenia, in Croazia, ma anche in Serbia, con vittorie importanti, come quella del movimento Možemo alle elezioni comunali a Zagabria nel 2021 quando Tomislav Tomašević è diventato sindaco, oppure l’ascesa del partito Levica in Slovenia, che dal 2022 fa parte del governo di Robert Golob, guidando diversi dicasteri e cercando di imporre una politica progressista.
In Serbia il movimento Moramo è riuscito ad entrare in parlamento dopo le elezioni del 2022, poi ribattezzato Zeleno-levi front [Fronte della sinistra verde], si è imposto come la principale forza di opposizione al regime di Aleksandar Vučić, soprattutto a Belgrado, un successo confermato alle elezioni comunali del dicembre dello scorso anno.
Anche il movimento dei plenum, pur essendo percepito come un progetto fallito, ha raggiunto risultati notevoli. Certo, gli attivisti sono spesso delusi dall’istituzionalizzazione dei movimenti sociali. Se c’è ancora voglia di impegnarsi, soprattutto tra i movimenti ambientalisti e in difesa dei beni comuni, è anche vero che col tempo si è ulteriormente approfondito il divario tra la base militante e la rappresentanza politica della nuova sinistra.
Quindi, le idee di sinistra, scomparse dai Balcani dopo gli anni Novanta, sono tornate al centro del dibattito politico e sociale?
Esatto. Per la prima volta dalla fine del socialismo si è iniziato a parlare di questioni sociali ed economiche. Il contesto attuale però è totalmente diverso da quello degli anni 2010: non ci sono più movimenti studenteschi né lotte operaie, l’energia militante è ormai esclusivamente focalizzata su questioni ambientali e agende istituzionali, in un contesto in cui le società post-jugoslave continuano ad essere dominate da tendenze nazionaliste e conservatrici.
Paradossalmente, la Bosnia ed Erzegovina sembra lontana da questa nuova dinamica…
Proprio così, e sappiamo bene perché: il sistema istituzionale creato dagli Accordi di Dayton ostacola l’emergere di nuove forze politiche e rafforza i nazionalisti al potere, che continuano a fare “affari” tra loro, mentre la comunità internazionale chiude un occhio. L’intero sistema spinge i cittadini verso la rappresentanza etnica. In realtà, la Bosnia ed Erzegovina è divisa in tre: la Republika Srpska, i cantoni croati e le regioni a maggioranza bosgnacca.
Se la parte serba e quella croata sono completamente monopolizzate dai nazionalisti, nella parte bosgnacca vi è una maggiore diversità politica grazie alle grandi città, come Sarajevo e Tuzla, dove persiste lo spirito civico e le idee antifasciste continuano ad essere coltivate. Questa diversità si riflette nell’influenza del Partito socialdemocratico e dei liberali di sinistra di Naša Stranka. È vero però che a tutt’oggi risulta più facile creare alternative in Croazia, Slovenia, e persino in Serbia, che in Bosnia ed Erzegovina.
Tornando alla questione dell’indebolimento dei movimenti studenteschi e delle lotte operaie… in un contesto caratterizzato da un costante esodo della popolazione, se da un lato il tasso di disoccupazione scende, dall’altro però vi è una forte carenza di manodopera. La più recente grande mobilitazione nella regione, quella del settembre dello scorso anno in Albania, ha riunito gli studenti di medicina che si sono opposti alle misure governative volte a limitare l’emigrazione dei giovani…
Oggi la sfida principale è quella demografica. Sono state le tendenze demografiche a “risolvere” la questione della riforma neoliberista dell’istruzione superiore in Croazia: se il numero di studenti è in costante calo, risulta più facile garantire un’istruzione gratuita. La disoccupazione non è più il problema centrale. Anzi, tutti i paesi della regione post-jugoslava sono costretti a importare la forza lavoro, come dimostra il caso dei nepalesi in Croazia.
La sinistra non ha ancora pienamente compreso questa nuova situazione. Stanno emergendo coalizioni “rosso-verdi” perché le lotte ambientaliste spesso si sovrappongono a quelle operaie. Nei Balcani, che ancora vengono percepiti come una periferia assoggettata al centro, non si parla però di un cambiamento di sistema, bensì esclusivamente di una migliore regolamentazione del capitalismo.
Le mobilitazioni possono assumere anche una dimensione esistenziale. Ricordo che in Montenegro alcune persone che si erano mobilitate contro la costruzione di piccole idrocentrali nel nord del paese, a Šavnik, mi dicevano che la guerra aveva distrutto la loro gioventù, la transizione economica li aveva privati del lavoro e della dignità, e infine rischiavano di rimanere anche senza l’acqua e l’aria che respiravano…
È vero che ci sono mobilitazioni su vasta scala, difficilmente però riusciranno a innescare una svolta. Le persone sanno che l’emigrazione è sempre un’opzione, spesso l’unica opzione che hanno a disposizione. In Serbia i cittadini si erano opposti ad alcuni progetti di estrazione del litio, la cosiddetta rivolta ecologista della primavera del 2021 aveva spinto il governo a fare un passo indietro, un passo meramente tattico, perché il governo non aveva alcuna intenzione di rinunciare ai progetti estrattivi. Ora i cittadini serbi lottano contro le multinazionali, come Rio Tinto, quindi contro un nemico molto più potente del governo.
C’è chi ha provato a tracciare parallelismi tra il movimento dei plenum in Bosnia ed Erzegovina e la Primavera araba. Ritiene che siano due fenomeni paragonabili?
Ciò che accomuna le due mobilitazioni non è solo il contesto, ossia il momento storico in cui erano sorte – quindi il periodo successivo alla crisi del capitalismo neoliberista del 2007-2008 – ma anche la richiesta di una democratizzazione della sfera pubblica e politica. Anche alcune forme e tecniche di lotta si erano dimostrate capaci di trascendere i confini nazionali. Ad esempio, le richieste di democrazia diretta per la prima volta erano state avanzate dagli studenti croati nel 2009, per poi essere rilanciate dai plenum.
L’attuale contesto però è molto diverso. Le critiche al capitalismo sono sempre necessarie, ma come avanzarle in un contesto dominato dai discorsi sulla guerra? È una sfida per tutte le sinistre europee. Nell’attuale quadro geopolitico, le questioni di sicurezza hanno preso il sopravvento sulle richieste di giustizia sociale. I colpi di cannone giovano alla destra, che sa fare leva sulle paure e sul sentimento di insicurezza.