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“La mia vagina” e la poesia femminista russa contemporanea

Nota: in questa recensione, in accordo con la casa editrice, le autrici della raccolta non verranno chiamate per nome, né saranno date note biografiche sul loro conto. Infatti, l’anonimato le protegge (soprattutto se risiedono ancora in Russia) dall’essere perseguitate e perseguite per il loro attivismo e ruolo nel movimento femminista russo.

Edita da Stilo Editrice, La mia vagina è un’antologia poetica di poesia femminista russa curata da Massimo Maurizio, professore di lingua e letteratura russa presso l’Università di Torino, costruita sulle opere di diciotto autrici che rappresentano il grande fenomeno della poesia femminista russa e russofona contemporanea, la F-pismo (“scrittura-F” o “missiva-F”, a seconda della traduzione). La F-pismo dà voce a tutte quelle componenti della società russa che appartengono ad un’alterità rispetto alla norma etero-patriarcale sostenuta dal governo, ed è una realtà ampia che si focalizza sia sui diritti delle donne, che della comunità LGBTQ+.

La poesia femminista russa e la violenza di stato

La fempoezija, o poesia femminista, è un fenomeno molto recente all’interno della produzione poetica russa. Nei primi anni Duemila, infatti, si trovava ancora in una fase di transizione in cui non esisteva ancora un linguaggio adatto (né, tanto meno, una letteratura di riferimento) per poter affrontare tematiche legate all’esperienza femminile, incluse quelle (omo-)sessuali (Maurizio, In luogo di introduzione).

Solo negli anni Dieci la F-pismo ha acquisito un’identità autonoma, quando la cultura internazionale femminista e LGBTQ+ ha iniziato a influenzare la Russia. Come evidenziato dal curatore, la sua rilevanza politica e sociale si è rafforzata solo dopo i risultati delle elezioni presidenziali del 2012 – che decretarono la vittoria schiacciante di Vladimir Putin e del suo partito, “Russia Unita” – e la conseguente repressione delle proteste antigovernative.

G. R., poetessa, fondatrice del progetto F-pismo nel 2017 ed editrice delle sue prime pubblicazioni in samizdat (“clandestinità”), sottolinea come nella poesia femminista russa la violenza di stato sia apparsa, dopo quei momenti, intrinsecamente legata alla violenza di genere, domestica e contro la comunità LGBTQ+. Parallelamente al culto della guerra e alla persecuzione degli oppositori politici, la Russia di Putin ha infatti promulgato leggi discriminatorie “contro la propaganda omosessuale” (2013) e sulla decriminalizzazione della violenza domestica (2017), in cui si esclude la prosecuzione penale in caso di “danni minori”, ovvero se non sono state causate fratture durante le percosse.

“Come mai si era pensato che potesse succedere” (G.R.) nella conservatrice produzione poetica russa, la letteratura femminista ha perciò iniziato a raccontare apertamente la violenza di genere e contro le minoranze sessuali come fenomeni strutturali, radicati in una più ampia cultura machista della violenza. Nella poesia, “la politica diventa oggetto di riflessione poetica” (O.V., nella raccolta) dando voce alle vittime di abusi, spesso le autrici stesse. La violenza, in quest’antologia, assume quindi i volti di un padre, un marito, un amante, dell’uomo che ti segue per strada (ne Il centro dei problemi di genere, il “cannibale”), del compagno delle altre donne che compaiono al tuo uscio picchiate a sangue e accoltellate (La violenza e l’otto marzo). Infatti:

La retorica patriarcale si esprime non soltanto nell’ideologia e nella propaganda statale, ma anche nella cultura e nella vita quotidiana. Non stupisce che alla gioventù russa, che non ha mai conosciuto forme alternative di autorità politica, manchi qualunque nozione realistica e egualitaria del genere […]. (p.24)

La lingua russa come strumento di dissenso

La narrazione della violenza nella poesia femminista russa è stata influenzata enormemente dall’attivismo internazionale. Quando, nel 2016, la giornalista ucraina Nastja Mel’nyčenko, sulla scia del movimento #metoo, ha lanciato l’hashtag #janebojus’skazaty (#nonhopauradiparlare) per raccogliere racconti di violenza domestica e molestie, migliaia di donne e attiviste russe si sono unite alla sua iniziativa mediatica per narrare le proprie esperienze.

Secondo G.R., Mel’nyčenko ha contribuito enormemente a cambiare la forma della scrittura poetica russa, che, nonostante le politiche patriarcali dello stato, ha iniziato a parlare di violenza “con nuovi linguaggi e su nuove piattaforme”. All’interno di questa antologia non mancano però riflessioni sull’impatto effettivo di queste campagne social, e sull’inadeguatezza dei media come mezzo di espressione. La poetessa O.V., per esempio, in Cosa ne so della violenza, sostiene di non riuscirne a scrivere:

perché nel rumore di Facebook

le donne affogheranno

anche io affogherò in quel rumore
Cosa ne so della violenza, nella raccolta, p. 161

Secondo l’autrice, è necessario affrontare questi argomenti in modo collettivo (“la mia voce non basta per fermare”) e non limitarsi esclusivamente alla discussione online. Soprattutto, è fondamentale affrontare questi temi negli ambienti intellettuali, dove si discute ampiamente della violenza di Stato e della propaganda, ma raramente si riconosce la violenza di genere “all’interno del proprio giro”. Gli stessi poeti che “diventano pro-femministi su Facebook” (p. 155) spesso abusano delle poetesse e sono riluttanti ad ammettere pubblicamente le proprie colpe. Il ciclo di violenza persiste perciò anche negli ambienti più liberali, senza che gli uomini si assumano la responsabilità delle proprie azioni.

Tuttavia, anche O.V. riconosce l’importanza di trovare una nuovo mezzo, delle nuove parole per parlare di violenza, domandandosi se si possa utilizzare la lingua russa:

Poesia femminista russa Cosa ne so della violenza
Cosa ne so della violenza, nella raccolta, p.147

In questa antologia il discorso femminista è anche presentato nel suo tentativo di riappropriarsi della lingua in maniera complessa, slegata dalle costrizioni della società patriarcale e imperialista. Le autrici si interrogano sulle possibilità del russo, da “lingua della violenza”, di diventare una lingua che parli di violenza, tramite la quale possano essere anche decostruiti i tabù sociali legati alla (omo-)sessualità delle donne.

L’omosessualità, per esempio, è considerata anormale anche a livello linguistico: in russo, infatti, esistono due termini per definire l’eterosessuale, il neologismo inglese “geteroseksual’nyj”, o il termine “natural’nyj”, “naturale”.

Dissenso politico in Russia Cvetova
L’attivista Julija Cvetkova mostra provocatoriamente un cartello: Cos’è la normalità? E voi, siete normali? La normalità, cambia (Roskomsvoboda)

Le autrici di questo libro utilizzano quindi il russo in maniera positiva, desemantizzando termini “proibiti” e trovando nuovi modi di “rappresentare l’irrappresentabile” (Maurizio, In luogo d’introduzione). Per esempio, ne La mia vagina, G.R. risematizza “vagina”, “mestruazioni”, “masturbazione”, criticando le sovrastrutture culturali che rendono queste parole impronunciabili. Anche ne La categoria del reggiseno di M.T. la lingua viene utilizzata, allo stesso modo, in maniera dissacrante: “Il dissenso estetico, infatti, è temuto dal potere” e porta al “il rifiuto del trauma e della violenza come uniche modalità possibili e la ricerca degli strumenti per la descrizione di una nuova realtà” (Tlostanova, In luogo d’introduzione, p. 18-21).

Le poetesse introducono nel discorso pubblico e privato una visione più complessa delle dinamiche di genere, che motteggia la visione conservatrice russa basata sulla “famiglia tradizionale”, la procreazione, la sottomissione femminile e l’unilateralità dei rapporti sessuali e di potere:

gli uomini russi, trovandosi all’estero, la cosa che più gli scioccava non era la mancanza di totalitarismo… ma la scomparsa dei reggiseni dal corpo femminile!

In La categoria del reggiseno, nella raccolta, p. 25

Decolonialità e opposizione alla guerra

Nonostante la sua trasformazione in mezzo creativo di liberazione e innovazione nella poesia femminista, la lingua russa è ancora legata ai confini geografici e ideologici del “mondo russo” (russkij mir) e alle ambizioni geopolitiche della Federazione Russa. Ad esempio, all’inizio dell’invasione russa su larga scala dell’Ucraina nel 2022, il fatto che molti ucraini, in particolare nell’est del paese, parlassero russo come lingua madre o fossero completamente bilingui è stato sfruttato per negare l’esistenza di un’identità etnica o nazionale ucraina. In questo contesto, la propaganda putiniana ha reso il russo la “lingua dell’oppressore”. Iya Kiva, poetessa ucraina, ben spiega in alcune interviste che:

Dopo il 24 febbraio non posso più scrivere in russo. Quando cerco di spiegare il motivo, utilizzo l’espressione «la mia lingua non gira», ossia il mio stesso pensiero non riesce a operare liberamente nella lingua russa, intesa come linguaggio della poesia. Posso affermare che l’invasione militare russa su vasta scala ha sradicato in me la capacità di riflettere e scrivere in russo – mia lingua madre e lingua di gran parte della mia vita. Può sembrare paradossale, ma il 24 febbraio i russi hanno ucciso la mia lingua russa.

Intervista a Iya Kiva, Il manifesto
Abbiamo intervistato Iya Kiva e altre poetesse ucraine qui.

Per questo, è importante considerare che in questa raccolta il concetto di poesia femminista “russa” sia da intendersi come “russofona”, nella convinzione che “la letteratura russa ha, ed è auspicabile che abbia, un respiro più ampio di ciò che viene prodotto all’interno dei confini geografici”, tanto più che “una parte consistente delle autrici non si trova più in Russia oppure non è mai stata cittadina della Federazione Russa” (Maurizio, Avvertenza, p. 6). Infatti, il russo non solo è lingua madre di popolazioni slavofone, ma anche di una serie di minoranze nazionali nei confini della Russia stessa, e nel più ampio spazio post-sovietico.

Nell’antologia sono quindi incluse anche poesie di autrici cecene e turcofone (e musulmane): Bianca di V.K., in particolar modo, descrive molto bene la presa di coscienza di una persona, nazionalizzata russa, sulla percepita universalità e superiorità della lingua russa (“non conosco il kazako il kirghiso il tataro il buriato lo jakuto il giorgiano l’armeno e altre lingue, non ho avuto tempo”) e la necessità di guardare a essa in una prospettiva, su definizione di Maurizio stesso, “decoloniale”. Il cambiamento deve guardare sì alla storia della propria “nazi-one” (“nazione fascista”), ma anche alla propria vita personale (“nazi-a”, “naziSon”):

Poesia femminista russa Bianca
Bianca, nella raccolta, p. 181

In un mondo in cui la modernità/colonialità viene percepita come norma, il discorso femminista diventa uno dei modi più forti di criticare il regime, e la lingua ne diventa mezzo di espressione decoloniale. Come afferma G.R.:

La letteratura non è solo uno spazio per esprimersi liberamente, o per rinnovare la lingua, ma è anche una piattaforma di lotta politica per un mondo migliore

L’opposizione a qualsiasi tipo di violenza statale si riflette quindi in un totale rifiuto dell’imperialismo russo e delle dinamiche di potere maschie che vengono esercitate sia in guerra che nella vita di tutti i giorni. Infatti, la F-pismo e le sue rappresentanti si pongono, implicitamente ed esplicitamente, contro l’invasione dell’Ucraina nel 2022. Come descritto nel manifesto della Resistenza Antiguerra Femminista (FAR), “il femminismo come forza politica non può essere dalla parte della guerra, specialmente di una guerra di occupazione”.

In questa antologia si parla più volte dell’incompatibilità tra la “nazi-one” e il femminismo (“bellum-putinità, null-femminilità” in J.P., e in Bianca, V.K.) e, allo stesso tempo, del rifiuto della “nazi-one” del femminismo stesso: per esempio, nel ciclo di #questapoesia, Sulla natura del guerriero, la poetessa Z.F. risponde ironicamente al commento di un uomo secondo cui “una donna viziosa non partorirà mai un guerriero” con un’invocazione al sesso “in nome di un cielo pacifico sopra la testa” (p. 259).

Inoltre, in più poesie viene sollevata la mancanza totale, nella discussione politica e poetica, della violenza di genere in un contesto di guerra (nonostante i poeti ne parlino continuamente, il più delle volte, senza averla mai vissuta, Cosa ne so della violenza). Le autrici, dunque, parlano anche di stupri di guerra e delle conseguenze sulla violenza domestica che deriva dal ritorno in patria di veterani abituati ad agire impuniti (il topos, in questo caso, si riferisce in modo simbolico alla Cecenia e all’Afghanistan).

Il potere dello stato viene riprodotto nel contesto dei confini del desiderio. La differenza tra militarismo e sessualità, tra intimità e violenza è sfumato

(p. 24)

Conclusioni

L’antologia di poesia femminista “russofona” , curata da Massimo Maurizio, offre un ricco compendio di testi che esplorano la complessità della condizione femminile nel “mondo russo” affrontando una varietà di temi. Le autrici delle poesie, in quanto testimoni dirette e vittime del sistema patriarcale, dipingono il culto della violenza nella Russia di Putin, che si manifesta sia nelle guerre imperialiste sia nella violenza di genere e contro la comunità LGBTQ+.

A questo scopo, la lingua russa viene “decolonializzata” e utilizzata come strumento di dissenso attraverso la destrutturazione di argomenti e termini tabù. La raccolta include poesie ironiche, critiche politiche, esplorazioni dell’amore (omo-)sessuale, e componimenti strazianti che raccontano di abusi, il tutto incorniciato dal simbolismo della “vagina”, che apre e chiude la raccolta.

La mia vagina, a cura di Massimo Maurizio, Stilo Editrice, 2024.

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Sofia Mischi
Sofia Mischi

Studentessa del master in East European and Eurasian studies (MIREES) presso l’università di Bologna. S’interessa della storia, politica e cultura dello spazio post-sovietico, specialmente nel Caucaso. Ha vissuto sei mesi a Tbilisi, e per un breve periodo a Mosca.