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Keibelstraße, una prigione ad Alexanderplatz

Cinque minuti a piedi. Sono quelli che separano Alexanderplatz, una delle piazze più famose di Berlino e della Germania, e Keibelstraße. Lì tra il 1951 e il 1989, ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca, aveva sede un carcere gestito dalla Volkspolizei, la polizia della DDR. Ecco la storia della prigione ad Alexanderplatz.

La prigione ad Alexanderplatz

“L’Alcatraz della Germania Est” sorgeva in un complesso costruito sul finire degli anni Quaranta sul sito che durante il nazionalsocialismo aveva ospitato l’Ufficio statistico del Reich e che era stato distrutto dalla Seconda guerra mondiale.

Ricostruito tra il 1947 e il 1949, nell’ottobre 1948, quando la Repubblica Democratica Tedesca non era ancora nata, lì si trasferirono il comando centrale della Volkspolizei, il commissariato della polizia investigativa di Berlin-Mitte e i vigili del fuoco. In un’ala di quel nuovo edificio, tra il 1949 e il 1951, si decise di costruire una prigione.

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Un carcere all’americana

Quello allestito dalla Volkspolizei nel pieno centro di Berlino era un Untersuchungshaftanstalt (UHA), una struttura di detenzione per chi era in custodia cautelare (chi era sotto indagine ed è in attesa di un procedimento). Nella capitale della Germania Est, per tutta la durata del regime ne sarebbero esistiti due, quello di Keibelstraße, denominato nei documenti UHA II e quello di Rummelsburg, nel quartiere di Lichtenberg, contrassegnato come UHA I.

Rispetto alle altre prigioni, spesso ospitate in vecchi edifici “eredità” dell’Impero o del Terzo Reich, il carcere situato a due passi da Alexanderplatz, venne costruito ex novo. Si sviluppava su otto piani dove al piano terra c’erano l’entrata, la sala d’attesa, i bagni, la stanza per la consegna degli effetti personali dei detenuti, oltre che la cucina, i magazzini, più tre camere di sicurezza singole.

La prigione, l’unica di questo tipo a ospitare delle donne, generalmente “raccolte” al sesto e settimo piano, non aveva un cortile e di detenuti passano il loro momento di “svago” (30 minuti al giorno) sul tetto in una costruzione di vetro da cui filtrava la luce del sole. Un carcere arrivato a ospitare quasi 300 persone, a fronte di una capienza teorica di poco più di 200. Le celle, di circa sei metri quadrati, erano dotate di un armadio, di un letto doppio, di una piccola scrivania e di un water. Le luci e il riscaldamento potevano essere attivati solo dall’esterno delle celle.

Dissidenti, “asociali” e criminali

Per la sua natura di Untersuchungshaftanstalt, dove le persone condannate erano poche e per lo più a pene brevi, la struttura raccoglieva detenuti accusati di reati diversi. Come un cittadino che nel 1961 aveva provato a passare a Berlino Ovest sul tetto di un treno diretto nella Repubblica Federale, incarcerato per “superamento illegale del confine”, a cittadini della DDR accusati di “comportamento antisociale” (chi ad esempio rifiutava di lavoro o aveva comportamenti “non socialisti” come Florian Havermann, presentatosi per i festeggiamenti della festa della Repubblica Democratica con cilindro e frac) o di Rowdytum, teppismo o ancora di “renitenza alla leva”.

In più c’erano i criminali, ladri e rapinatori. A volte da Keibelstraße passava anche qualche dissidente come Wolf Biermann, cantautore, oppositore del regime e papà adottivo di Nina Hagen.

Un inferno di regole

All’interno del penitenziario, che era sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno (non del ministero per la Sicurezza dello Stato, la Stasi, anche se ne vi agivano alcuni agenti e informatori) la vita era scandita da orari precisi e regole stringenti.

La sveglia era alle 6 e la luce si spegneva alle 20. I detenuti, eccetto quelli che lavoravano (l’occupazione era obbligatoria per chi era condannato), passavano 13 ore e mezza chiusi in cella, dove non si poteva utilizzare il letto nell’arco della giornata e dove il personale poteva entrare senza preavviso. E durante le quali avvenivano gli interrogatori.

I secondini erano particolarmente esigenti sull’igiene e l’ordine delle celle. Per chi non lavorava, l’alternativa per passare il tempo era leggere o scrivere lettere, un diritto quest’ultimo che le guardie potevano revocare. I libri si potevano prendere in prestito nella biblioteca del carcere. Non era però il detenuto a sceglierli ma un inserviente che sempre consiglia volumi di “letteratura socialista”.

Per chi stava aspettando il proprio giudizio a Keibelstraße si potevano incontrare brevemente i propri avvocati. Per quanto riguarda i rapporti tra detenuti e personale di guardia non ci sono testimonianze dirette di percosse o torture (di cui peraltro ci si poteva lamentare con le autorità ricevendo sempre risposte evasive), ma chi è stato recluso lì, da dove si vedeva Alexanderplatz, ricorda grida nella notte.

Film e memoria

Con Die Wende, la Riunificazione, l’Untersuchungshaftanstalt II ha chiuso. Il sesto piano del carcere, rimodernato e ristrutturato, è stato utilizzato dal 1992 al 1996 dalla polizia della Germania riunificata e da quell’anno la cella di custodia di quel piano è stata in funzione solo in casi eccezionali. La prigione è stata però il set di alcuni film, tra cui “Le vite degli altri”. Ora dopo un dibattito lungo e, a tratti, aspro il carcere è diventato un luogo della memoria, dove studenti delle scuole possono vedere i luoghi con una guida e frequentare laboratori. La struttura invece non è aperta alle visite dei singoli.

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Roberto Brambilla
Roberto Brambilla

Classe 1984, nato a Sesto San Giovanni quando era ancora la Stalingrado d’Italia. Germanocentrico, ama la Spagna, il Sudamerica e la Mitteleuropa. Collabora con Avvenire e coordina la rivista Cafè Rimet. È autore dei volumi “C’era una volta l’Est. Storie di calcio dalla Germania orientale”, “Rivoluzionari in campo” e coautore di “Non solo Puskas” e “Quattro a tre”.