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Kapka Kassabova: “I miei viaggi mi hanno portato a re-immaginare i Balcani”

Da alcuni giorni è in libreria Anima. Una pastorale selvaggia, quarto e ultimo libro della tetralogia che la scrittrice Kapka Kassabova ha dedicato a un remoto, piccolo ma ricchissimo angolo di Balcani che ruota attorno al suo paese natale, la Bulgaria. Pubblicato da Crocetti Editore e tradotto da Anna Lovisolo, in questo gran finale Kassabova racconta dei mesi trascorsi sulle pendici del massiccio del Pirin, nella Bulgaria meridionale, insieme a cani, pecore e cavalli di razza karakachan e i loro pastori. L’autrice segue le greggi nelle impervie transumanze e spostamenti, immergendosi con acutezza e delicatezza – ormai marchio di fabbrica della sua penna – nella dura vita degli ultimi mandriani che tentano di preservare e mantenere in vita queste specie autoctone, di nuovo ai confini d’Europa. Le traiettorie racchiuse in Anima sono forse le più dense ed emotivamente cariche tra tutte quelle finora percorse, trascinando il lettore in un viaggio che mescola i traumi del passato, la desolazione del presente e la maestosità delle cime della Bulgaria sud-occidentale.

Invitata a presentare il suo ultimo lavoro ai lettori italiani all’appuntamento mantovano di Festivaletteratura, in dialogo con Elvira Mujčić, l’abbiamo incontrata dal vivo per un’intervista. Ne è scaturito un dialogo intenso e profondo che ha attraversato tutta l’opera finora tradotta e pubblicata in Italia.
anima kapka kassabova
Anima è il tuo quarto libro tradotto e pubblicato in Italia. Qual è stata la ricezione in Italia, come senti sono state accolte le tue opere dal pubblico italiano?

Non seguo molto la critica letteraria, ma ovviamente sono al corrente di come sono stati accolti i libri, e direi molto bene. La cosa più importante per me sono i lettori, che vorrei avessero una relazione molto intima con i miei libri, perché sono libri intimi, anche se trattano di grandi temi e della grande storia, ma il mio stile di scrittura è molto intimo. Ho davvero percepito il coinvolgimento da parte dei lettori italiani. Ho passato poco tempo in Italia, perciò la mia è una sensazione a distanza, ma questo è quello che provo.

I miei lettori italiani recepiscono questi libri in modo molto diverso dai lettori britannici. E penso che Anima ne sia un buon esempio. Sento che i lettori italiani, pur non essendo andati a pascolare le pecore in alta montagna, cosa che non fa più nessuno oggigiorno, sente questa pratica vicina, quasi come se fosse nel loro DNA. La parola stessa pastiri, che era la mia idea originale di titolo, perché volevo rendere omaggio alle persone: il mio editore britannico ha detto che era un titolo troppo strano per i lettori britannici, che suonava italiano, ed effettivamente lo è, perché pastiri è una parola latina usata anche nelle lingue slave! (ride)

Secondo te c’è qualcosa che unisce Italia e Bulgaria, Italia e Balcani?

Penso proprio, come dici tu, che ci sia una qualche vicinanza, culturale, tra Italia e Balcani, e direi anche psicologica, e spirituale. Non so se posso spiegarlo, credo abbia a che fare con il fatto che sia l’Italia che i Balcani, la Bulgaria, sono stati industrializzati più tardi, molto più tardi dell’Europa settentrionale. Alcune parti dei Balcani e d’Italia tra l’altro non sono mai state realmente industrializzate in senso proprio.

Ritengo che questo sia un grande fattore, significa che le persone sono rimaste più vicine a uno stile di vita organico, più vicino a molte tradizioni e ricordi e stili di vita più che le persone in Gran Bretagna, nazione ricca e industrializzata in cui le persone sono state separate dalla terra e dalla loro identità in modo brutale, spinte in ghetti cittadini a produrre, per portare avanti il progetto coloniale. Il caso italiano è molto molto diverso. E quindi credo che le nostre concezioni del mondo siano molto simili.

E anche il fatto che l’Italia è una nazione giovane, siamo stati separati a lungo in diversi Stati ridisegnati più volte, come la penisola balcanica…

Credo sia un ottimo punto questo del regionalismo, ritengo che in Bulgaria e nei Balcani il regionalismo sia molto forte, direi forse più forte del nazionalismo, se preso di per sé. E anche in Italia il regionalismo è altrettanto forte, vai in diverse regioni ed è come essere in un paese diverso!

Anima è l’ultimo libro della tetralogia dedicata ai Balcani, in particolar modo alla Bulgaria e alle zone limitrofe. Senti che i tuoi libri hanno aiutato a fare luce, rompere alcuni stereotipi legati alla penisola? Hai trovato un modo per divulgare questa regione attraverso i tuoi libri, grazie anche alla tua nozione chiave di “psicogeografia”?

Beh, lo spero! (ride) Penso che la relazione che abbiamo con un libro, come scrittore o lettore, sia molto simile, l’energia che l’autore mette nell’opera viene raccolta e vissuta dal lettore, è un processo empatico. L’oggetto emana lo spirito in cui è stato creato, e nel mio caso è lo spirito del posto. In questi quattro libri tutto gira intorno ai luoghi, volevo rendergli giustizia. Non avevo nessuna “grande” idea, non sono una scrittrice programmatica, bensì esperienziale.

In genere io sento una traccia e la seguo senza sapere dove andrò a finire, e questo è il significato dell’esplorazione. Ovviamente sono percorsi che ti cambiano, non sei più la stessa persona alla fine di quella esperienza. Ognuno dei volumi ha richiesto due anni per venire alla luce e io ci ho vissuto dentro, per me non sono soltanto libri, ma interi mondi, ecosistemi.

C’è un’espressione molto bella di uno storico francese di inizio Novecento in Anima, “il libro degli uomini e degli animali selvatici” per spiegare la situazione antecedente al colonialismo, che ha ammansito il mondo. Per ogni viaggio la chiave per me è stata leggere i luoghi come se stessi sfogliando dei libri – nei Rodopi, nelle zone di confine, tra persone le cui vite sono dimenticate dal mondo, e ogni volta mi sentivo come se stessi girando le pagine di un grande libro, stai già leggendo il libro che non hai ancora scritto.

Quindi per me è simultaneo, come se questi libri si fossero scritti da soli, anche se ovviamente ci ho messo molto impegno, il mio cuore, la mia anima, il mio cervello, la mia salute, il mio corpo (ride) dentro di essi. Ma in un certo senso è senza sforzo perché stavo co-creando insieme allo spirito di questi luoghi, spesso spiriti di montagna, perché questi libri in effetti parlano per la maggior parte di zone montuose straordinarie. Sono attratta da questi luoghi ultimi, storie selvagge, dove c’è qualcosa che non è stato ancora distrutto. E nonostante il trauma che attraversa in tutti questi libri, così tante sofferenze e perdite, c’è ancora qualcosa che sopravvive, rimane fedele a se stesso.

Per tornare alla tua domanda, questi viaggi mi hanno portato a re-immaginare i Balcani, parafrasando Maria Todorova, e spero anche per i lettori. Perché la cosa più notevole su questa parte dei Balcani, questa piccolissima parte attorno alla Bulgaria, è che non ha niente a che fare con le guerre, i conflitti, o la tremenda locuzione “odio ancestrale” – lasciamola fuori da qui – bensì contiene quest’incredibile intreccio di antichi paesaggi umani. Il paesaggio è umano e parla, come in Italia, vedi facce ovunque in esso, perché le persone sono presenti da tanto tempo con i loro animali, lasciando le proprie tracce. È questo paesaggio umanizzato che credo definisca i Balcani, è quanto c’è di più balcanico per me.

Uno dei pastori protagonisti del libro, Sašo, ti dice: “Tu non sei una turista. Non l’ho ancora capito cosa sei”. Qual è stato l’impatto di questi viaggi nell’esplorazione della tua identità di scrittrice nata in Bulgaria che vive in Scozia e redige le proprie opere in inglese? Cosa diresti oggi alla Kapka che sta per partire per Confine?

È un’osservazione così bella, è bello pensare a cosa diremmo oggi a noi stessi dieci anni fa! Di aiutarci! (ride) In Confine ho incontrato una donna che legge i fagioli, un antico metodo di divinazione. Abita nel massiccio dello Strandža. E io le ho chiesto di leggerli per me, volevo vedere… Se credo nei fagioli? Non lo so, ma che importa! Quello che importa è vivere l’esperienza e capire qualcosa. Lei ha letto i fagioli per me, un rituale molto antico, come leggere i tizzoni nel fuoco, o il rituale del piombo, in bulgaro olovo. La mia domanda era: “Riuscirò a completare questo viaggio in modo sicuro?”, e la risposta è stata: “Sì, ma devi leggere i segni lungo la via”. Perciò questo è il consiglio che darei alla me stessa di dieci anni fa: leggi i segni lungo la via, non ignorarli.

Ovviamente i segni mi interessano molto, in questo decennio ho imparato a leggere i luoghi perché ho avuto guide straordinarie che potevano leggere i luoghi per me, e ho appreso anch’io come leggere e muovermi attraverso un luogo e imparare la sua lingua. Così come con i cani, le pecore e i pastori che hanno la propria lingua. Devi svuotare te stessa da te stessa, e dal tuo ego, è molto importante. Arrivare come nessuno, e come un bambino cominciare a imparare la nuova lingua fino a scomparire completamente in quel mondo. Ma devi leggere i segni se vuoi rimanere al sicuro. Credo di non aver sempre voluto essere al sicuro, non era sempre importante rimanere al sicuro, perché era molto più importante raggiungere la fine di quella storia, la fine di quella traccia che avevo sentito. Devi raggiungere la fine, la fine dell’esperienza, la pienezza dell’esperienza.

Quindi credo che dieci anni fa ero semplicemente molto impreparata e per ogni libro, per il genere di libri che scrivo, devi essere impreparata, altrimenti diventa qualcosa di premeditato, come un crimine (ride). Essere completamente impreparato, secondo il concetto buddista della mente del principiante. Disimparare tutto quello che sai, in un certo senso, in senso logico. Spiritualmente porti con te tutte le tue esperienze dei tuoi viaggi precedenti, ma è importante essere impreparati.

Ovviamente a livello logistico ero sempre preparata. Ma queste sono storie per le quali non ti puoi preparare. Ricevere le storie degli altri. In Confine questi racconti mi hanno spazzata via, sono stata male per un anno, stavo lì seduta ad ascoltare storia dopo storia, vite rovinate dal confine, vite spezzate, non ero allenata psicologicamente per affrontare queste cose come lo sono giornalisti, antropologi, psicologi. Io sono semplicemente apparsa lì. Ma credo questo sia stato il mio allenamento, questi quattro libri sono stati il mio corso di specializzazione sul genere umano per me.

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Nelle prime pagine di Anima c’è scritto che “in questa valle il paradiso diventa inferno così velocemente come il respiro diventa vento”. Credi che questa metafora si possa applicare anche agli altri luoghi che hai visitato? Può essere rappresentativo della penisola?

Sai, credo sia molto significativo il fatto che tu abbia percepito questa cosa, sintomo di perspicacia. Credo di sì, anche se non mi piace generalizzare sui Balcani, perché si tratta di un’area così grande, è difficile. Però penso che tutti i paesi balcanici che conosco sono luoghi in cui senti che qualsiasi cosa può accadere in qualunque momento, tutto è possibile. Una sensazione instabile, una instabilità che scorre sotto, che è nella psiche delle persone. Io però non sono una sociologa, non mi interessa così tanto analizzare, ma sì, è qualcosa che si sente. È viscerale, hai incontri viscerali con le persone nei posti che questi libri esplorano. Io sono alla ricerca di incontri viscerali, altrimenti perché mi prenderei la briga di fare quello che faccio?

Ed è viscerale perché sono successe così tante cose a queste persone, loro sono ancora lì e stanno accadendo altre cose, e perché il mondo è quello che è. Sempre più persone sentono queste emozioni viscerali, c’è del dolore collettivo. In questi posti le storie delle apocalissi che sono accadute agli animali e alla gente hanno avuto eco nel paesaggio, e si riflettono nell’emarginazione che vivono queste persone, pur occupandosi di qualcosa di così importante per la nostra società, come la pastorizia. È così importante avere specie indigene per i nostri ecosistemi.

Ovviamente è tutto molto viscerale e c’è una sorta di continuo spezzare cuori nelle vite di tutte queste persone, che diventa poi lo spezzarsi del mio stesso cuore. Al contempo a salvarci c’è questa incredibile vitalità che continuavo a trovare, soprattutto in Anima ed Elisir, che veniva dal rapporto attivo tra le persone e il paesaggio, sia esso piante, animali, questo è da dove la vitalità viene fuori. È qualcosa di vivo, vero, non è digitale, non è sintetico, non è industriale, è contatto reale.

È una delle gioie, anche se è stato difficilissimo su nell’Acqua Nera, e non puoi stare lì a lungo, ti manca quando scendi, ed è una sorta di sindrome del pastore, ti manca terribilmente. È stata un’esperienza di sopravvivenza, e questa è la vita sulle montagne con gli animali, senza alcun tipo di rete di salvataggio, ed è così che vivevano i nostri antenati, erano forti. Forse la grande differenza è il rispetto dato alle persone che si occupano di queste attività, cosa in cui la Bulgaria è molto carente.

kapka kassabova anima
Nel libro ribadisci più volte come nel tempo, specie nel secolo scorso, i vari gruppi nomadi che abitano la penisola sono stati fermati e resi stanziali, il loro fluire all’interno dei Balcani è stato bloccato. Credi che se questi gruppi non fossero stati interrotti la loro attività avrebbe aiutato la comunicazione tra i vari paesi e popoli, contribuendo a mantenere una sorta di equilibrio nella penisola?

È una domanda da un milione di dollari! Molto interessante. Sì, se questo non fosse accaduto, e non ci fossero state neanche Guerra fredda e cortina di ferro, tutto il processo che ha portato la Prima e la Seconda guerra mondiale, confini, comunismo e poi nazionalizzazione, forse… Ad esempio in Grecia ci sono i sarakatsani, che non sono stati travolti dalla storia allo stesso modo. Quello che si è fermato, come dici tu, è il movimento su larga scala.

Lo scambio è andato perso, e così abbiamo perso la libertà di muoverci, il contatto con altre persone, l’abitudine di essere in costante e stretto contatto con le persone più diverse. La penisola balcanica sarebbe stata una regione più in salute, più autentica, perché questa è la natura dei Balcani, una cacofonia di popoli, un grande miscuglio di popoli, e dovremmo celebrare questo. E spero che i miei libri siano anche una sorta di celebrazione, anche se non intenzionale, non vorrei fossero né un requiem né una celebrazione, sarebbe troppo ambizioso, ma queste sono le cose che apprezzo.

A essere andato persa è ad esempio il poter trascorrere la primavera in Macedonia e l’inverno in Turchia, spostare intere comunità e vedere il mondo lungo queste distanze notevoli. Si vede qualunque tipo di cosa per strada, questi erano i Balcani, e ora non lo sono più. L’industrializzazione, la privatizzazione hanno portato alla sofferenza degli animali. E dove gli animali soffrono, soffrono anche gli umani. È quello che dice anche Sašo, se gli animali vivono, viviamo anche noi, se gli animali muoiono, moriamo anche noi. Può sembrare un’esagerazione ma è così, c’è una interdipendenza, siamo connessi. Dobbiamo capire cosa le frontiere hanno fatto nei Balcani, e non solo nei Balcani. Soprattutto quelle ideologiche, che sono peggiori di quelle nazionali.

In un nostro dialogo precedente avevi raccontato di quanto scrivere questi libri sia un processo molto intenso e difficile, e di come l’inglese ti aiuti ad avere la giusta distanza tra l’esperienza e il racconto. In Anima ho percepito una maggiore intensità emotiva, c’è molta nostalgia, o malinconia, o tăgà, per citare Georgi Gospodinov. Hai trovato un modo per elaborare questo carico? I libri aiutano oppure no?

In realtà credo che la nostalgia arrivi quando non capiamo che tutto nella vita è transitorio, e ci aggrappiamo al passato. La nostalgia si manifesta quando viviamo nel passato, e non è una cosa molto saggia. Credo che la tăgà – o meglio, io la chiamo sofferenza, riferendomi al concetto buddista della sofferenza – sia fondamentale per capire la nostra condizione umana. È una cosa diversa, non possiamo evitarla, non possiamo espellerla, è lì, nel nostro DNA, e anche i luoghi la trattengono. Persino quando le persone non ci sono più i luoghi conservano questa sofferenza.

Come affrontarla? Attraverso la vitalità, attraverso l’esperienza della vitalità. Un’altra grande lezione per me è stata, grazie a questi libri, uscire da me stessa, lasciare il mio ego da parte. È stato un grande regalo. Perché quando entri nelle vite degli altri tutto torna al proprio posto, capisci che il tuo dolore è il loro dolore, anche se le tue circostanze sono diverse. La mia vita è stata molto diversa da quella di qualcuno come Sašo, ovviamente, però tra noi c’era un’affinità. E non credo avrei potuto averla e provare il suo dolore se non avessi vissuto l’allenamento dei viaggi precedenti, dello stare con le persone, dell’ascoltare le persone, essere con loro nel loro dolore mentre raccontano le storie della propria vita o mentre leggono il paesaggio per me giorno dopo giorno, scalano colline, trovano rovine.

Credo sia questo il modo di affrontarla, con l’empatia. Perché non siamo soli. Non c’è niente di peggio che essere da soli e sentirsi isolati. Noi europei stiamo diventando una razza, una cultura deprimente, e abbiamo bisogno di rivitalizzarci. Siamo seri e allo stesso tempo superficiali. Quest’ultima esperienza mi ha fatto capire il motivo: è perché siamo diventati addomesticati, come animali da allevamento. Siamo pieni di vergogna e autoconsapevolezza e depressione, abbiamo perso la nostra libertà. La libertà di vivere in modo selvatico. E per me stare con gli animali è una grande lezione.

La società attuale ci vuole in cattività, e noi dovremmo scappare in qualche modo, e cercare esperienze che ci possano rivitalizzare. Non importa se saranno piene di tristezza, il mondo è pieno di tristezza comunque. Molte delle persone che vivono ai margini, come quelle in Elisir e Anima, hanno perso tantissimo, ma in qualche modo, se c’è una comunità allora puoi digerire il dolore, trasformarlo in qualcosa.

Noi dovremmo essere interessati a questo, nella trasmutazione alchemica del buio in luce. Trasformare il piombo in oro. Nelle nostre vite, su piccola scala. E questi pastori che sono alcolizzati e persone difficili, così come i raccoglitori di erbe, non vanno a fare meditazione e psicoterapia (ride), non ci sono attività extra lassù, ma è come se avessero trovato il loro modo di “alchemizzare” questo dolore insopportabile che è la loro vita. E la natura li aiuta. È una grande lezione.

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Anima, Kapka Kassabova, traduzione di Anna Lovisolo, Crocetti Editore, 2024

Tutte le foto contenute nell’articolo sono state gentilmente concesse da Kapka Kassabova. L’autrice ringrazia Giulia Taddeo e Crocetti Editore per l’aiuto nella realizzazione dell’intervista.

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Giorgia Spadoni
Giorgia Spadoni

Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, specializzandosi all'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot.