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La notte tra il 7 e l’8 maggio 1999, a Belgrado, la temperatura è ancora piuttosto fresca. Ma i suoi abitanti non possono goderne. Da un mese e mezzo, infatti, volano sopra le loro teste gli aerei della Nato che fanno cadere una pioggia di “bombe intelligenti”, nella capitale come in altre città del paese. Lo fanno per fermare la pulizia etnica in corso in Kosovo voluta dal presidente serbo Slobodan Milošević. Quella notte, però, intorno a mezzanotte, qualcosa va storto. Ad essere colpito non è un obiettivo militare ma l’ambasciata cinese. Un luogo che per il diritto internazionale gode non solo dell’immunità ma anche dell’extraterritorialità, ricadendo cioè sotto la giurisdizione del Paese ospitato.
In sostanza, quella notte, il bombardamento Nato dell’ambasciata cinese a Belgrado ha rappresentato un attacco diretto di Washington a Pechino. Un evento che, oltre ai tre giornalisti cinesi morti sotto le bombe, ha aperto una ferita ancora oggi non del tutto rimarginata.
Le relazioni tra Cina e Stati Uniti alla fine degli anni Novanta
Nonostante le divergenze, prima della guerra in Kosovo, le relazioni tra Cina e Stati Uniti godevano di discreta salute. Appena un anno prima, nel giugno 1998, il presidente degli Usa Bill Clinton si era recato in visita nel paese asiatico. Nel suo discorso all’Università di Pechino, Clinton riconobbe la “straordinaria trasformazione sociale ed economica” della Cina, capace di aprirsi al mondo e di “aver sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà”.
Questo nuovo secolo può essere l’alba di una nuova Cina, orgogliosa della sua antica grandezza, orgogliosa di ciò che sta facendo, ancora più orgogliosa del futuro che verrà. Potrebbe essere un momento in cui il mondo guarderà di nuovo alla Cina per il vigore della sua cultura, la freschezza del suo pensiero, l’elevazione della dignità umana che traspare dalle sue opere. Può essere un momento in cui la più antica delle nazioni contribuisce a creare un mondo nuovo. Gli Stati Uniti vogliono collaborare con voi affinché quel momento diventi realtà.
Bill Clinton, 29 giugno 1998, Pechino
La visita sembrò quindi aprire a una nuova fase di collaborazione tra i due paesi, pur ideologicamente così lontani.
La posizione cinese sull’Operazione Allied Force
Gli ultimi anni del Millennio scorso ricordarono all’Europa che gli orrori della guerra non erano più solo una traumatica esperienza del passato. La fine violenta del socialismo jugoslavo mostrò a intere generazioni, nate in un spazio ormai pacificato come quello dell’Europa unita, la realtà della guerra, fino ad allora vissuta solo come un genere del cinema hollywoodiano. Le brutalità in Bosnia ed Erzegovina dei primi anni Novanta e quelle di poco successive in Kosovo se, da un lato, suscitarono sentimenti di solidarietà e umanitarismo, dall’altro alimentarono i mai sopiti sentimenti militaristi dei governi europei.
L’Operazione Allied Force, lanciata il 24 marzo 1999 senza il consenso delle Nazioni Unite, provocò però la contrarietà di Russia e Cina. Entrambi i paesi consideravano i bombardamenti della Nato contro quello che restava della Jugoslavia come un’aggressione unilaterale, utile a rafforzare l’egemonismo statunitense.
Il 26 marzo 1999, appena due giorni dopo l’inizio della missione, Pechino votava a favore della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva l’immediata cessazione degli attacchi aerei in Jugoslavia, non solo perché non approvati dall’Onu ma anche perché rappresentavano un’interferenza in una “questione interna” alla Federazione. Per la Cina, sostenere le rivendicazioni kosovare avrebbe inoltre significato riconoscere come legittime le aspirazioni del Tibet e di Taiwan.
Il bombardamento Nato dell’ambasciata cinese a Belgrado
Un anno dopo la visita di Clinton a Pechino, la collaborazione sino-statunitense rischiò di naufragare in pochi giorni. Non solo per via dell’opposto posizionamento sulla guerra in Kosovo, ma soprattutto per quello che sarebbe successo la notte tra il 7 e l’8 maggio 1999.
L’ambasciata cinese a Belgrado si trovava nella zona di Novi Beograd, a pochi passi dal famosissimo Hotel Jugoslavija ma, soprattutto, dalla sede della Direzione federale jugoslava per l’approvvigionamento e gli acquisti (FDSP), accusata di attività illecite nella proliferazione di armi in violazione dell’embargo imposto nel marzo 1998 dalle Nazioni Unite, distante poco più di 300 metri. Una distanza sufficiente a evitare errori, soprattutto per le bombe dotate del Joint Direct Attack Munition (JDAM), allora considerate all’avanguardia e, grazie al sistema GPS incorporato, capaci di colpire gli obiettivi con un margine di imprecisione di pochissimi metri.
La sera del 7 maggio 1999, un B-2, il più costoso aereo militare al mondo dell’epoca, parte da una base in Missouri direzione Belgrado. Il suo obiettivo è, almeno ufficialmente, la sede della FDSP. L’ambasciata cinese è ben visibile e tutti ne conoscono la posizione esatta. Tutti tranne gli ufficiali statunitensi che, come dichiarato dopo il bombardamento, avevano organizzato la missione utilizzando mappe vecchie di qualche anno. Un errore banale che causa però la morte di tre giornalisti cinesi, Xu Xinghu e sua moglie Zhu Ying inviati per il Guangming Daily e Shao Yunhuan della Xinhua News Agency, e il ferimento di oltre venti persone.
La reazione di Stati Uniti e Nato
In pochi minuti il governo e la stampa serba utilizzano l’accaduto per accusare la Nato di attacchi indiscriminati, mentre l’Alleanza Atlantica si limita a derubricare il bombardamento come un “errore profondamente deplorevole”.
Tra i primi a metterci la faccia c’è il presidente Clinton, vero fautore dell’operazione militare e indicato come primo responsabile. In un’intervista per Associated Press rilasciata all’indomani dell’attacco, Clinton prova a minimizzare l’accaduto dichiarando che “non è stato barbaro. Ciò che è barbaro è ciò che ha fatto il signor Milošević”.
Passano ben sette giorni prima che Clinton riesca a sentire telefonicamente l’omologo cinese Jiang Zemin per presentare le proprie scuse e promettere un’indagine ufficiale. Poche settimane dopo, il 16 giugno, Thomas Pickering, Sottosegretario di Stato statunitense, presenta al governo cinese i risultati di questa indagine:
L’attacco è stato un errore. […] Nessuno, in nessuna fase del processo, si è reso conto che le nostre bombe erano dirette all’ambasciata cinese. […]
Il bombardamento è stato causato da tre fallimenti di base. In primo luogo, la tecnica utilizzata per localizzare l’obiettivo designato […]. In secondo luogo, nessuno dei database militari o di intelligence utilizzati per verificare le informazioni sull’obiettivo conteneva la posizione corretta dell’ambasciata cinese. In terzo luogo, nessuno dei primi due errori è stato rilevato da nessuna parte nel processo di revisione dell’obiettivo. […]
Le informazioni obsolete che collocavano l’ambasciata cinese nella sua precedente sede nella Vecchia Belgrado non sono state aggiornate quando l’ambasciata si è trasferita. […] L’indirizzo era nell’elenco telefonico, nell’elenco diplomatico e forse in altre fonti, tra cui le mappe jugoslave. Di sicuro, molti cittadini e funzionari degli Stati Uniti erano a conoscenza della posizione corretta dell’ambasciata cinese a Belgrado. Tuttavia, per errore, la loro conoscenza non è stata registrata in nessuno dei database militari o di intelligence utilizzati nel processo di targeting.
Il 30 luglio, le parti raggiungono un accordo sul risarcimento economico: 4,5 milioni di dollari al governo cinese per le vittime. A dicembre dello stesso anno un altro accordo chiude la questione riconoscendo un ulteriore risarcimento di 28 milioni di dollari per i danni materiali causati dal bombardamento.
Le proteste in Cina
Da parte sua il governo cinese mostrò, almeno all’inizio, una certa riluttanza ad accettare le scuse e riconoscere l’errore. In Cina scoppiarono immediatamente dure manifestazioni di protesta da parte degli studenti che attaccarono con bombe incendiarie la residenza del console americano a Chengdu, mentre nella capitale Pechino l’ambasciata venne assediata per giorni e fatta oggetto di fitti lanci di pietre, sotto gli occhi compiaciuti dell’Esercito Popolare di Liberazione. Il Quotidiano del Popolo, organo del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, scriveva sulle proprie pagine
La ruota della storia non andrà indietro. Questo è il 1999, non il 1899. […] La Cina è una Cina che si è rialzata; è una Cina che ha sconfitto i fascisti giapponesi; è una Cina che ha avuto una prova di forza e ha vinto sugli Stati Uniti sul campo di battaglia coreano. Il popolo cinese non deve essere vittima di bullismo, e la sovranità e la dignità della Cina non devono essere violate. La Nato guidata dagli Stati Uniti farebbe meglio a ricordarselo.
Peter Hays Gries, “Tears of Rage: Chinese Nationalist Reactions to the Belgrade Embassy Bombing,” The China Journal, No. 46 (July 2001), p 32 .
L’ipotesi di un attacco pianificato
Nonostante il clima di tensione fosse rientrato nel giro di qualche giorno, un’inchiesta congiunta condotta dal settimanale inglese The Observer (il domenicale di The Guardian) e dal danese Politiken accusava i vertici Nato e il presidente Clinton di aver deliberatamente attaccato l’ambasciata cinese a Belgrado.
I servizi segreti statunitensi sarebbero infatti stati informati del supporto fornito dalla sede diplomatica cinese all’esercito jugoslavo nel facilitare le comunicazioni dopo l’interruzione delle linee di collegamento dovuta ai bombardamenti. L’inchiesta si spingeva addirittura a dichiarare che l’ambasciata “veniva usata direttamente da Željko Ražnatović, conosciuto come Arkan, per trasmettere messaggi alle sue “Tigri” in Kosovo”. Ovviamente sia la Cia che le alte cariche statunitense e dell’Alleanza Atlantica hanno sempre negato quanto riportato nell’inchiesta rifiutando categoricamente di riconoscere qualsiasi volontarietà dell’attacco, non riuscendo però mai del tutto a sgomberare il campo dai dubbi.
Il ricordo
Oggi, l’ambasciata cinese a Belgrado si trova nel quartiere diplomatico di Dedinje. La vecchia sede è stata completamente demolita nel 2010 per far posto a uno dei più grandi centri culturali cinesi d’Europa. Alla cerimonia di posa della prima pietra nel giugno 2016 partecipò anche il presidente cinese Xi Jinping, in visita ufficiale dopo ben 32 anni dall’ultima volta per un leader cinese in Serbia.
La struttura, costata oltre 50 milioni di euro, è stata completata nel 2020 e oggi ospita un hotel, una biblioteca e un centro multifunzionale che offre lezioni di lingua cinese, di strumenti musicali tipici, arti marziali e cucina. La piazza antistante è stata ribattezzata la Piazza dell’amicizia tra Serbia e Cina. Qui, sono presenti due targhe in marmo nero che commemorano le vittime del 1999.
Il 7 maggio di quest’anno, in occasione del 25esimo anniversario del bombardamento Nato dell’ambasciata cinese a Belgrado, il presidente Xi Jinping si è recato presso il Centro culturale per rendere omaggio ai suoi connazionali uccisi. In una lettera pubblicata dal quotidiano Politika, Xi Jinping ribadiva l’amicizia tra Belgrado e Pechino ricordando quanto avvenuto
Venticinque anni fa, oggi, la Nato bombardò in modo flagrante l’ambasciata cinese in Jugoslavia, uccidendo tre giornalisti cinesi […] Non dovremmo mai dimenticarlo. Il popolo cinese ama la pace, ma non permetteremo mai che una storia così tragica si ripeta. L’amicizia Cina-Serbia, forgiata con il sangue dei nostri compatrioti, rimarrà nella memoria comune dei popoli cinese e serbo e ci ispirerà a marciare avanti a grandi passi.
Lettera di Xi Jinping pubblicata sul quotidiano Politika, 7 maggio 2024
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.