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Questo testo che parla del Cimitirul vesel di Săpânța è un estratto proveniente dal libro Non è il paese di Dracula di Paolo Ciampi, edito Bottega Errante Edizioni.
Romania, cos’è la Romania? Con questo interrogativo e un po’ di titubanza, Paolo Ciampi si rimette in viaggio, direzione Balcani orientali. Dove la birra scorre a fiumi, le chiese sono in legno e il Palazzo del Parlamento, secondo solo al Pentagono per dimensioni, svetta nella sua monumentalità. È un viaggio che dalla capitale si snoda attraverso le selve e i castelli della Transilvania, fino a raggiungere le coste più remote della Romania, bagnate dal Mar Nero. Un reportage leggero ma documentato che mescola storia, incontri, gastronomia, immaginari.
“La grappa è un veleno puro, che porta pianto e tormento, anche a me li ha portati, la morte mi ha messo sotto i piedi. Coloro che amano la buona grappa, come me patiranno, perché io la grappa ho amato, con lei in mano sono morto”.
Dumitru, così si chiama, è morto nel 1958, a quarantacinque anni. Doveva essere l’ubriacone del paese. Come lo era Jones, il suonatore di Fabrizio De André, benché quest’ultimo abbia vissuto il doppio degli anni, lui che offri la faccia al vento la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo.
A differenza di Jones il suonatore, Dumitru parla in prima persona, a differenza di lui le sue parole trasudano rammarico e si fanno ammonimento. Eppure, mi sembra ancora di vederlo mentre leva il bicchiere al cielo e improvvisa canti e discorsi. Le sue parole non sono epitaffio, sono voce che percepisco.
Mi trovo a Săpânța, cittadina di poche migliaia di abitanti, dominata dal profilo dei Carpazi. Il confine con l’Ucraina, a quattro chilometri appena, regala un particolare sentimento di distanza, per il resto sembra un centro abitato abbastanza anonimo. Non fosse per questo posto.
A Săpânța merita venire per i morti piuttosto che per i vivi. Soprattutto oggi che il cielo è sgombro di nuvole e il suo azzurro fa a gara con l’azzurro delle tombe.
Questo è il Cimitirul vesel, il cimitero gioioso: e trovatelo voi un altro posto così. Con queste croci in legno di quercia sormontate su scene di vita che sono quadri naïf. Con queste iscrizioni che riepilogano vizi e virtù del defunto, il sorriso di chi sa che siamo tutti esseri imperfetti, bisogna farsene una ragione, prenderla per il verso giusto.
Sento che mi fa un gran bene stare qui. Mi abbandono a questa galleria di uomini e donne che vanno a cavallo, intagliano il legno, falciano il fieno, tengono bambini tra le braccia, filano e cucinano. Non mi sento estraneo. Anch’io in qualche modo faccio parte di questa comunità, insieme alla massaia e al fannullone, al medico e al suonatore di clarinetto.
Incontro la guardia forestale – “Qui io riposo, amavo il bosco e l’ho curato per trent’anni” –, incontro il carpentiere – “Ho imparato a lavorare alle macchine e a scolpire la mia vita veloce, caro papà e fratello, vi ringrazio tutti per la bella vita che mi avete dato” –, incontro l’ingegnere comunale – “La morte è stata senza pena e mi ha messo qui a riposare”.
Sì, sempre prima persona, sempre quel verbo che non sa di morte: “Io riposo”.
Era il 1934 quando lo scultore Stan Ioan Pătraș cominciò a occuparsi della sua tomba e poi delle tombe di molti altri. Previdente, ma anche bravo a esorcizzare la grande paura. Negli anni che gli restarono, non pochi, il suo lavoro fu questo, ridare voce ai defunti.
Mi aggiro. A volte è la tenerezza a prevalere, come per questa donna che parla del marito: “Lui c’è rimasto male per la mia morte e per quanto vivrà non riderà più. Quanti giorni abbiamo passato insieme? Abbiamo vissuto bene, finché un martedì mattina non si spense la mia vita”.
A volte prevale il buon umore, la voglia ostinata, se non sfrontata, di provocare la battuta, di strappare almeno un sorriso. Come l’uomo che non parla in prima persona, ma dice della suocera che qui è sepolta: “Sotto questa croce pesante giace la mia povera suocera. Se viveva ancora tre giorni vi giacevo io. Voi che passate cercate di non svegliarla, perché se torna romperà di nuovo le scatole”. Nemmeno fosse la “Settimana Enigmistica”, con le sue barzellette in cui le suocere abbondano.
Dovevo spingermi fino all’estremo lembo del Maramureș per trovare questa Spoon River spensierata, dello stesso colore che per me possiedono la speranza e la libertà, azzurro come azzurro è il fiume delle parole, azzurro come il pomeriggio della canzone, col treno dei desideri che al contrario va.
Questo cimitero, leggo in un opuscolo, affonda le sue radici nella tradizione, rispecchia gli umori dei canti popolari, si ricollega addirittura alla cultura degli antichi Daci, per cui la morte era gioia, passaggio a un’esistenza migliore.
Ma soprattutto avverto vita che occupa lo spazio della morte. Non a caso i romeni, di una persona venuta a mancare, non dicono che è morta, ma che ha vissuto.
Mi sento più leggero questa mattina, grazie a questo cimitero. Più impalpabile e allo stesso tempo più piantato sui miei piedi.
Più libero, più disposto a partire.
Non è il paese di Dracula, Paolo Ciampi, Bottega Errante Edizioni, 2024