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Nell’ultimo trentennio, l’Albania è riuscita ad acquisire visibilità e rilevanza nel dibattito pubblico italiano. Prima per gli arrivi di migranti provenienti dalle coste albanesi poi, a partire dai primi anni Duemila, per l’avvio del processo, non ancora concluso, di adesione all’Unione Europea, per giungere ai tempi più recenti come rinomata meta turistica e per le polemiche relative ai centri di permanenza per i rimpatri costruiti dal nostro governo in territorio albanese.
Tuttavia, per quarant’anni, dalla proclamazione della Repubblica Popolare Socialista d’Albania del 1946 fino alla morte del suo leader Enver Hoxha nel 1985, il paese ha rappresentato quasi un buco nero, di cui era difficilissimo avere informazioni e con cui era impossibile dialogare. Il libro di Giovanni Verga, L’uomo che non doveva mai morire. L’Albania e il regime di Enver Hoxha, pubblicato quest’anno da Prospero Editore, ricostruisce il clima che si viveva in quegli anni sotto la scure di una delle più temute polizie segrete, la Sigurimi.
Quando si parla dell’Albania sotto il regime di Enver Hoxha, gli aggettivi più utilizzati rimandano al suo isolamento dal resto del mondo. Chiusa, impenetrabile, imperscrutabile, definiscono con più o meno enfasi, ma in maniera comunque piuttosto fedele, ciò che è stato il paese balcanico nella seconda metà del Novecento. L’uomo che non doveva mai morire riconnette l’appartenenza ideologica e la personalità di Hoxha all’instaurazione di un regime vendicativo e, al suo interno, penetrante e lo fa attraverso interviste e racconti diretti di chi subì la repressione della polizia segreta e le diverse ondate di purghe che colpirono anche uomini degli alti apparati statali.
Da quanto emerge dalle pagine del libro è possibile rintracciare una costante, sebbene minoritaria, forma di contestazione al regime fatta di trame segrete, tentativi riformatori, ripensamenti e pentimenti. Allo stesso tempo, tema centrale del volume è proprio la reazione del regime a qualsiasi opposizione, per quanto quest’ultima fosse sempre stata incapace di assumere una configurazione strutturata e presente nel tessuto sociale albanese.
Una società sicuramente spaventata, spesso anche prostata e silenziosa. Sarebbe però un errore considerare, come sembra emergere a tratti nel volume, la società albanese durante il comunismo enverista solo ed esclusivamente come vittima del regime, manovrata dalla Sigurimi, escludendo qualsiasi possibilità di convinta aderenza ideologica a quel sistema di valori che pure, sicuramente, ci fu.
Il Truman show di Enver Hoxha
La recente storia dell’Albania non può esser compresa senza trovarsi di fronte a colui che la governò per quasi quarant’anni, diventando uno dei più longevi capi di Stato della storia contemporanea europea: Enver Hoxha. Le considerazioni sulla sua figura, come sempre accade quando si tratta di personaggi divisivi, oscilla tra l’intransigente difesa ideologica dei marxisti-leninisti più duri e puri e l’irreversibile definizione di uomo sanguinario e dittatore senza scrupoli del mondo liberal-democratico.
Tralasciando la definizione orientalista di “satrapo” fornita da Indro Montanelli, che visse in Albania nella fase del suo massimo sostegno al fascismo, e riportata nel prologo del volume, Hoxha non ha rappresentato altro che l’emblema di un uomo di grande potere, caratterizzato da un forte rigore ideologico e narcisismo, ambizioni e paranoie complottiste.
Per tali personaggi ogni critica equivale a un tradimento e come tale va perseguito e punito. Il libro di Verga riporta, con tanto di particolari, la rete di spionaggio e il processo sommario che spettava ai “nemici del popolo” mentre un museo nella capitale Tirana, ospitato proprio dove prima sorgeva la sede della polizia segreta, racconta i metodi e gli strumenti utilizzati per rintracciare e punire gli oppositori. Una sorta di “The Truman Show”, come indicato nel titolo del capitolo del libro L’uomo che non doveva mai morire dedicato a questi aspetti.
Fare i conti con la presa del potere
Le prime vittime del sistema enverista furono ovviamente i rappresentanti del vecchio mondo. La fine della Seconda guerra mondiale rappresentò infatti per molti paesi dell’Europa dell’Est un vero e proprio momento rivoluzionario. I vecchi sistemi vennero sconfitti e abbattuti e venne edificato un nuovo ordine sociale e politico. Per fare questo si agì con ogni mezzo necessario, anche con l’uso della violenza.
Per citare uno dei punti di riferimento del leader albanese, Mao Zedong, “la rivoluzione non è un pranzo di gala […] non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza”.
Ed è quello che successe subito dopo la guerra anche in Albania. Migliaia di fascisti, collaborazionisti e anticomunisti vennero eliminati, i loro beni espropriati, le loro famiglie perseguitate. Cosa che accadde anche al cosiddetto “Mandela dei Balcani”, al secolo Pjetër Arbnori, figlio di un soldato cattolico che si oppose ai partigiani e a sua volta agitatore politico anticomunista durante il regime.
Come ricostruito nel libro, per via della sua attività politica volta alla costruzione di un movimento socialdemocratico, Arbnori venne arrestato e incarcerato per ben 28 anni. Caduto il regime, torno in libertà e riprese l’attività politica fino a ricoprire la carica di Presidente del Parlamento nel periodo più delicato della recente storia dell’Albania, tra il 1992 e il 1997, con il paese condotto alla bancarotta e alla guerra civile proprio da coloro che avrebbero dovuto risollevarla.
Uomini di fede e di istruzione
Il libro di Giovanni Verga, L’uomo che non doveva mai morire, prosegue con il raccontare la “crociata di Stato contro le religioni”. Oltre a intellettuali e studenti, da sempre nel mirino di qualsiasi regime, un’altra vittima prediletta fu il clero. In linea con l’idea della “religione come oppio dei popoli” e con la rivoluzione culturale cinese, vero e proprio modello ispiratore tra anni Sessanta e Settanta, nel 1976 una nuova Costituzione stabiliva, all’articolo 37, che “lo Stato non riconosce alcuna religione, appoggia e svolge la propaganda atea al fine di radicare negli uomini la concezione materialistica del mondo”. Questo si tradusse in demolizioni di chiese e moschee o in una loro trasformazione in centri culturali, cinema o impianti sportivi.
Non fu, però, solo il rigore ideologico il motivo che, ancor prima dell’introduzione dell’ateismo di Stato in Costituzione, portò alla persecuzione degli uomini di fede. Nonostante la repressione colpisse tutte le confessioni, quello che ricevette maggiori attenzioni fu il clero cattolico. Non solo per il sostegno fornito durante la guerra agli occupanti nazifascisti ma anche, e forse soprattutto, perché “i cattolici [minoranza rispetto ai musulmani, ndr] avevano sempre avuto in mano le leve della formazione e dell’insegnamento”. Un elemento che non poteva certo essere ignorato da un regime che voleva costruire un Uomo Nuovo.
Appropriarsi dell’istruzione delle masse popolari, ancora per largamente analfabete, divenne quindi uno dei principali obiettivi di Hoxha. Nei primi anni del nuovo corso vennero così costruite centinaia di nuove scuole, la cui frequentazione fu resa totalmente gratuita, basate sull’insegnamento dei principi del marxismo-leninismo, venne fondata la prima università del paese a Tirana e istituite scuole di partito post-secondarie. I risultati furono incredibili: già a metà degli anni Cinquanta l’analfabetismo era stato quasi del tutto eliminato.
La repressione di poeti e artisti
Il controllo totale sull’istruzione non poteva che includere anche quello sulla cultura più in generale. Anche su questo tema, il libro di Verga opera una precisa ricostruzione dei metodi della Sigurimi di screditare persino il Festival della canzone albanese e il suo direttore accusato di aver favorito una “cultura di decadenza” dando spazio, all’inizio degli anni Settanta, a “qualche canzonetta pop, non conforme ai rigidi canoni dettati dalle gerarchie in campo artistico e musicale”.
Una nuova ondata repressiva colpì così costumi e stili di vita considerati troppo occidentali come i capelli lunghi e gli abiti stravaganti. Approfondendo le teorie enveriste sul tema della “formazione dei gusti” e della “produzione simbolica”, il volume permette di comprendere fino a che punto il rigore ideologico del leader permeasse tutti gli aspetti della società albanese. A farne le spese furono scrittori, poeti e pittori colpevoli di decadentismo per “aver ceduto alla melanconia, al pessimismo, al disfattismo”.
I militari nel mirino
L’ultima grande purga enverista colpì la cerchia ristretta della nomenklatura comunista. Negli anni Settanta, la paranoia del leader per i complotti interni ed esterni aveva ormai raggiunto il punto di non ritorno. Basti pensare che in tutto il paese vennero costruiti migliaia di bunker militari per contrastare un’invasione che non avvenne mai. In un clima di costante sospetto e paura, anche gli uomini più fidati non furono più al sicuro.
La vittima più illustre fu addirittura Mehmet Shehu, vera e propria ombra di Hoxha e numero due del regime per più di venticinque anni. Il motivo reale della sua estromissione fu la superiore caratura intellettuale che rischiava di oscurare quella del leader dopo la sua morte. Nessuno poteva essere superiore a Hoxha, né in vita né dopo la sua morte. A complicare le cose contribuirono le posizioni scettiche di Shehu sulla politica isolazionista intrapresa dopo la rottura con la Cina nel 1978 (successiva a quella con la Jugoslavia nel 1948 e a quella con l’Unione Sovietica nel 1961).
Il pretesto con cui il numero due del regime venne progressivamente isolato e ignorato dal resto del Partito fu però un altro. Il figlio si era infatti innamorato di una giocatrice di pallavolo, figlia di un noto dissidente stabilitosi negli Stati Uniti. Aver tenuto nascosto questa storia al proprio leader rappresentò una colpa senza possibilità di redenzione. Shehu venne trovato morto suicida con un colpo di pistola nella sua stanza il 17 dicembre 1981.
Complessivamente il libro L’uomo che non doveva mai morire. L’Albania e il regime di Enver Hoxha di Giovanni Verga permette a un lettore poco informato di conoscere le attività e i metodi della Sigurimi e dei meccanismi di controllo degli apparati statali nei confronti dei cittadini albanesi, dissidenti e non. Attraverso le testimonianze di chi ha vissuto sulla propria pelle la repressione, l’autore svela il clima di paura che si viveva in quegli anni tralasciando però, forse in maniera troppo netta, il supporto popolare alla lotta di liberazione nazionale e ad alcune politiche volte a modernizzare il paese e migliorare le condizioni di vita, almeno fino agli anni Settanta.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.