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Circa trent’anni fa, i Balcani sono diventati teatro di uno degli avvenimenti più drammatici e sconvolgenti della storia recente, che ha cambiato per sempre l’assetto geopolitico dell’Europa orientale: le guerre jugoslave (1990-1999), dopo un decennio, hanno infatti portato alla definitiva e violenta dissoluzione dello Stato Federale di Jugoslavia, i cui territori corrispondono oggi a sette Stati e realtà politiche autonome e indipendenti. A distanza di trent’anni, com’è stato possibile fare i conti con quel passato? E soprattutto, com’è stata vissuta la dissoluzione da parte delle persone che ne erano direttamente coinvolte?
L’organizzazione di ricerca no-profit Codici e l’associazione di promozione sociale e ricerca storica Laboratorio Lapsus hanno cercato di fornire una risposta a questi complessi quesiti, attraverso lo sviluppo del progetto Moj Dom/Casa Mia. Un’iniziativa europea che ha coinvolto decine di persone provenienti dai territori della ex Jugoslavia (e non solo). Trasferitesi in Italia dopo lo scoppio della guerra, hanno fornito delle testimonianze preziose su come hanno vissuto quegli eventi e come si sono ricostruite una vita dopo un’esperienza migratoria spesso “imprevista”.
Tuttavia, trattare un tema delicato come lo è quello della guerra non è affatto semplice. Pertanto, l’approccio utilizzato da Codici e Laboratorio Lapsus non è stato tanto quello d’intervenire direttamente in seno al conflitto, quanto più d’indagare il concetto di ‘casa’, che ha poi dato il nome all’intero progetto. “Che cos’è diventata ‘casa’ dopo la guerra?” è infatti il quesito da cui partire, dove la ‘casa’ è da sempre un luogo non solo simbolico, ma estremamente intimo, privato e di raccoglimento, oltre che un luogo di condivisione e convivialità delle tappe più importanti della vita di ognuno.
La ricerca di Codici e Lapsus ha infatti indagato in una maniera estremamente originale un’esperienza a tutti gli effetti segnante, quando non traumatica, come il vivere la quotidianità della guerra e la successiva migrazione in un altro paese.
Il progetto ha poi sviluppato una mostra fotografica interattiva, presentata alla Fabbrica del Vapore di Milano, oltre che diverse attività di ricerca del tema anche all’interno di alcune scuole. Altre attività comprendono uno spettacolo teatrale in Slovenia (di cui nei prossimi mesi si attende la messinscena anche in Italia) e il documentario La lunga vacanza di Davor Marinković, che porta la testimonianza e l’esperienza di migrazione di Almina Basić, che nel 1995, all’età di 12 anni, ha lasciato la Bosnia ed Erzegovina per trasferirsi in Italia (presto disponibile su YouTube con sottotitoli in più lingue).
Un racconto personale, ma anche emblematico e simbolico delle esperienze di migliaia di persone con storie affini, che tra gli anni Novanta e gli anni Duemila si sono trasferite in Italia che, in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, è diventata il secondo paese europeo ad accogliere il maggior numero di migranti da quei territori.
Per comprendere e raccontare il progetto di Moj Dom/Casa Mia, abbiamo intervistato i suoi artefici: Lorenzo Scalchi, presidente dell’organizzazione Codici, Erica Picco, storica e curatrice di Laboratorio Lapsus e il fotografo Marco Carmignan, autore di ritratti e dittici che hanno costituito la mostra. In un coro di voci ci hanno raccontato come hanno affrontato il concetto di ‘guerra’ e soprattutto di ‘casa’, dopo la Jugoslavia.
Come e a partire da chi nasce l’idea del progetto Moj Dom/Casa Mia?
Lorenzo Scalchi: Nasce dall’idea di utilizzare la ‘casa’ come chiave di lettura del dopoguerra in ex Jugoslavia, a partire da un progetto realizzato precedentemente con Marco Carmignan e Davor Marinković, che è autore e regista. Avevamo fatto un reportage lungo la rotta balcanica, dove abbiamo cercato di raccontarne le dinamiche, ma lì ci è venuta voglia di raccontare anche la migrazione interna di quei territori, in corso da trent’anni. Così si è creata una rete di enti interessati a lavorare insieme e abbiamo creato un partenariato di 9 enti tra Austria, Germania, Slovenia, Croazia e Italia, facendo azioni di ricerca, divulgazione e rielaborazione artistica, attraverso progetto europeo.
In generale Moj Dom/Casa Mia ha come obiettivo quello di raccontare una guerra e una migrazione, un fenomeno difficile e molto impattante per le persone che lo hanno vissuto, anche dal punto di vista traumatico, anche a distanza di trent’anni. Quindi la domanda chiave da cui siamo partiti è stata: “Che cos’è ‘casa’ dopo la guerra?”
Avete utilizzato un approccio molto interessante per affrontare un tema delicato come quello della guerra. In particolare, rispetto al concetto di ‘casa’ dopo la guerra, nel corso della mostra sono stati esposti, attraverso il percorso fotografico, numerosi oggetti di uso quotidiano. In che modo sono stati raccolti e a chi appartengono?
Lorenzo Scalchi: Allora, prima di questa raccolta c’è stato un momento di ricerca, in cui abbiamo realizzato 30 interviste, in Italia, andando in profondità, a partire dalla domanda “Che cos’è casa?”.
Erica Picco: Durante il percorso di ricerca, come Laboratorio Lapsus e Codici, in collaborazione, abbiamo organizzati degli eventi di ‘raccolta di memorie’, che si chiamano Collection days. Lo scopo era quello di chiedere alle persone coinvolte di portare degli oggetti che per loro significassero ‘casa’, senza però dare ulteriori indicazioni. In questi eventi abbiamo coinvolto diverse comunità presenti in Italia, prevalentemente comunità bosniaca e serba, ma non solo, e l’oggetto di ognuno è diventato un tramite per le loro storie personali; un oggetto carico di significato simbolico, che poteva essere veicolo di trasmissione della memoria. Le persone rappresentate in mostra sono 35 e vivono tutte in Italia, hanno ricostruito qui la loro vita; però tra loro non ci sono solo persone che provengono dai territori della ex Jugoslavia, ma anche persone di origine italiana, che durante gli anni della guerra e della dissoluzione della Jugoslavia hanno dato ospitalità a chi arrivava in Italia.
Visti i tempi in cui viviamo, ci piaceva l’idea di mettere in relazione persone che hanno dato ospitalità, dimostrandosi solidali, con persone che in quegli anni erano in stato di necessità. Quindi abbiamo cercato di ricreare un ambiente di ‘casa’ anche nel contesto espositivo.
In effetti spesso si tende a ‘dimenticare’ che le guerre che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia sono avvenute solo trent’anni fa, dunque è un evento piuttosto recente. E l’Italia, d’altra parte, anche per vicinanza geografica, ha accolto moltissime persone da quelle aree. Alcune sono arrivate anche con lo status di profughi di guerra e senz’altro narrare la loro esperienza non è semplice. A questo proposito, qual è stata la parte più difficile per voi nel fare i conti con tutto questo e metterlo insieme all’interno di Moj Dom/Casa Mia?
Erica Picco: Noi come Laboratorio Lapsus ci occupiamo di storia contemporanea, e uno degli aspetti più difficili è stato senz’altro lavorare con il trauma. Intervistando persone che hanno subito un trauma come quello, avevamo sempre il timore e la responsabilità etica di non riattivare il trauma, attraverso le nostre ricerche. Per fortuna però, in questo ci hanno aiutato diverse figure, tra cui quella di Umberto Pizzolato che è stato operatore umanitario in numerosi contesti di guerra, che ci ha aiutato a capire come agire, senza diventare dei ‘riattivatori’ di trauma. Poi anche l’aspetto linguistico non è stato semplice: come scegliere la lingua in cui conversare con queste persone? Noi in quanto ricercatrici e ricercatori italiani avevamo un limite personale, ma abbiamo trovato davvero grande disponibilità nelle persone intervistate, che si sono misurate in italiano, e dunque non nella loro lingua madre, raccontandoci come si sono pian piano riorganizzati una vita qui.
Osservando l’approccio che avete utilizzato per raccontare l’esperienza di queste persone in mostra, si nota un’interessante prospettiva soprattutto sugli aspetti culturali, sugli usi e i costumi legati alla ‘casa’, che forse aiutano uno ‘spettatore’ che conosce meno il contesto dei Balcani e della ex Jugoslavia ad avere una visione ‘nuova’, ad andare oltre a determinati pregiudizi e scoprire qualcosa di più su queste comunità.
Lorenzo Scalchi: L’idea era quella di antropologizzare al massimo quella che è l’esperienza storica più specifica. Per questo abbiamo utilizzato degli oggetti di ‘casa’, come concetti più universali possibile, per fare in modo che i parametri di comprensione di alcune cose anche difficili, come per esempio il concetto di ‘assedio’, o di ‘etnia’ legati al contesto ex jugoslavo, potessero essere più facilmente interpretabili. La casa, infatti, può anche essere un simbolo di difesa, di fortezza e barriera.
Erica Picco: Rispetto a questo, abbiamo condotto un lavoro anche con diverse scuole e centri di aggregazione giovanile. In particolare, abbiamo creato un kit educativo didattico che contiene diversi laboratori già pronti che sono pensati per approfondire questi argomenti con le classi, sia all’interno dell’istruzione formale, sia all’interno di contesti informali. Sono pensati per ragazzi delle scuole superiori, prevalentemente, ma sono estendibili anche alle scuole medie. La cosa interessante che è venuta fuori è che alla fine, lavorando su temi così universali come il concetto di ‘casa’, o gli ‘oggetti che per te rappresentano casa’, si è creata una connessione anche con persone di background migratori diversi e un dialogo anche con le generazioni più giovani.
Avete parlato della difficoltà di affrontare il concetto di trauma, subìto da persone che hanno vissuto, in prima persona, gli anni di guerra in ex Jugoslavia. A questo proposito, purtroppo anche negli ultimi anni si è tornati a parlare di guerra, in maniera costante, e ci sono tante persone che allo stesso modo stanno affrontando, di nuovo, quello stesso percorso e le stesse difficoltà. Secondo voi un progetto come Moj Dom/Casa Mia può essere utile per creare una forma di accettazione pacifica di quello che è successo negli anni Novanta? Ad ‘accogliere’, in qualche modo, questo lascito?
Erica Picco: Questa è una gran bella domanda. Per quello che abbiamo fatto durante la ricerca e le interviste per i Collection Days, ovviamente la risposta e la percezione delle persone coinvolte è stata molto diversificata, non solo per comunità di origini diverse, ma anche per generazioni diverse, che quindi hanno vissuto la guerra o la migrazione in fasi differenti della propria vita. Quello che abbiamo notato, però, è che in tutti i casi parlarne e confrontarsi su questo argomento ha avuto un impatto molto positivo. Le persone coinvolte nel progetto sono state contente di dare un contributo e che le loro storie non sono rimaste relegate al passato, ma che sono state raccontate. Poi su una vera ‘pacificazione’ sarei più cauta forse.
Lorenzo Scalchi: Abbiamo cercato, nel nostro piccolo, di mediare e conciliare, facendo ‘nostro’, qualcosa che non era nostro. In questo modo, attraverso il senso di appartenenza, è possibile unire anche cose che sono, nella realtà, lontane. Questo secondo me emerge tanto nel progetto e questa è un po’ la ‘cura’. Abbiamo notato che le persone erano non solo prontissime a parlare, ma ne avevano anzi bisogno, perché magari per tanto tempo non lo avevano fatto. C’è stata anche un’intervista in particolare, realizzata nei Collection Days, dove una persona ci ha detto che grazie al ricordo di quello che è successo oggi riesce a capire meglio il mondo di oggi, arrivando banalmente a comprendere quanto sono state peculiari le guerre in ex Jugoslavia. Capendo le specificità di quelle guerre, si hanno più strumenti per capire anche il nuovo contesto.
Invece una riflessione più legata all’aspetto culturale: tra gli oggetti esposti, assieme alle persone, ci sono tanti ‘arnesi’ o cose tipiche proprio del contesto balcanico ed ex jugoslavo, che magari non sono altrettanto comuni in una ‘casa media’ in Italia. Per esempio, c’è un mlin za kafu, ovvero “macchina per macinare il caffè” a manovella, spiegata anche in video; esemplari di džezva, ovvero il “bollitore per caffè” tradizionale; oltre alle papuče, ovvero le “babbucce” di lana, fatte a mano, quindi tutti oggetti molti intimi, della sfera privata, ma anche autentici, forse anche curiosi da una prospettiva italiana.
Erica Picco: Sì, quando abbiamo chiesto di portare un oggetto sono arrivate cose diversissime. Il tema del caffè in effetti è ricorrente tra diverse comunità, come simbolo proprio della convivialità, dello stare insieme e confrontarsi. Per questo, anche a livello di scelta dell’allestimento della mostra, abbiamo ricreato un salotto, perché all’interno delle interviste è emerso quanto il momento del caffè, preso insieme in salotto, fosse un qualcosa che lega e che trasmette senso di ‘casa’. Poi ci sono tante fotografie personali, di persone che hanno fatto attivismo, ma anche di persone di famiglie miste. Un altro aspetto che emerso è anche quello religioso, perché la fede è diventata per alcuni un momento di conforto, che ha creato senso di appartenenza. Quindi sì, ci sono tanti oggetti con cariche simboliche importanti.
Marco Carmignan: Io volevo aggiungere una mia considerazione, rispetto alle fotografie e alla scelta delle immagini.
Al giorno d’oggi a livello mediatico siamo molto colpiti dalle tante immagini di guerra, per cui diventa delicato parlare di quello che è successo in Jugoslavia, che è una guerra comunque recente, di solo trent’anni fa. Quindi penso che sia stato utile raccontare il tema in questo modo, con questo approccio, cioè parlando di guerra, senza parlare davvero di guerra, ma parlando di casa. Se noi guardiamo le fotografie, le persone e i loro oggetti, presi così, da soli, senza sapere che sono legati alla Jugoslavia, e senza sapere a cosa fanno riferimento, credo che ognuno possa riconoscersi. Io mi chiedo, se uno le guarda, riesce a capire che si tratta di persone venute dai Balcani? Può anche essere, però guardando queste foto, io mi rivedo e penso che potrei esserci anche io lì, e portare a mia volta questo stesso oggetto. Quindi secondo me questo è un bel modo per rendere universale l’accesso a queste storie.
Un’ultima domanda: qual è il messaggio che vorreste comunicare attraverso il progetto di Moj Dom/Casa Mia? Sia per chi si è interessato alla mostra, sia per chi guarderà il documentario che avete realizzato, o le altre attività e iniziative nelle scuole e non solo.
Erica Picco: Personalmente, quello che mi piacerebbe che le persone si portassero a casa da un’esposizione del genere è il valore dell’ascolto, perché abbiamo incluso una serie di testimonianze che si possono anche ascoltare, oltre che guardare, e danno la possibilità di entrare in contatto con le storie delle persone. Quindi recuperare l’ascolto attivo e mettersi in comunicazione con le altre persone sta alla base della comprensione dei fenomeni che abbiamo intorno. E come storica, ritengo che senza la comprensione del presente e del passato, non è possibile agire.
Lorenzo Scalchi: Sì, in linea con questo, la creazione di un setting e di un contesto che permetta l’ascolto e l’accoglienza. Questo secondo me crea senso di comunità.
Marco Carmignan: Per quanto mi riguarda, mi piacerebbe che il messaggio che arrivasse un po’ a tutti fosse che siamo tutti diversi, ma allo stesso tempo siamo anche simili.
Bulgara di nascita, ma milanese d’adozione, è una mediatrice culturale, blogger e studiosa che si occupa di Russia, Bulgaria e più in generale dei Paesi Est europei. Dopo la laurea in Mediazione Linguistica e Culturale presso l’Università degli Studi di Milano e alcune esperienze di studio all’estero tra Mosca, San Pietroburgo e Plovdiv, ha scritto per Il Tascabile, Pangea News e MowMag. È ideatrice del canale Instagram @ilmaestroemargherita_ dedicato alla promozione della letteratura e della cultura russa, con l'intento di approfondire la "Cultura" in senso ampio, contro ogni forma di pregiudizio e cancel culture. Collabora inoltre con il canale Instagram @perestroika.it che si propone di presentare e promuovere il cinema russo in lingua italiana.