Il libro Jugobasket. Tre generazioni leggendarie (Bottega Errante Edizione, 2024) del giornalista sportivo Alessandro Toso è un lungo viaggio nella palla a spicchi dell’ex Jugoslavia. Il volume si focalizza su undici figure fondamentali che hanno contribuito a renderla grande in Europa e nel mondo. L’autore ci presenta undici ritratti di vere e proprie leggende, appartenenti a tre generazioni del basket: Bogdan Tanjević, Ljubodrag Simonović, Željko Jerkov, Dražen Dalipagić, Mirza Delibašić, Aleksandar Petrović, Želimir Obradović, Dino Rađa, Toni Kukoč, Vlade Divac e Predrag Danilović.
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Tra gli obiettivi del testo va annoverata l’intenzione di rendere l’intricata realtà dell’ex Jugoslavia più vicina e comprensibile al lettore. Per citare l’autore,
i fili che legano i protagonisti di questo libro sono troppi per poterli raccontare tutti; così, la mia speranza è di essere riuscito a rendere le loro storie e le loro voci nella maniera più realistica e convincente possibile e che – magari – dopo aver finito di leggerlo, quel mondo a est del confine di Fernetti risulti meno oscuro e più familiare a tutti coloro che lo hanno amato solo per il suo basket.
Nelle 280 pagine che la compongono, l’opera ripercorre sia i lati belli sia quelli meno belli delle carriere dei protagonisti nonché delle loro vite fuori dai palasport.
Così, ad esempio, scopriamo da vicino le considerazioni non scontate che hanno portato Ljubodrag Simonović a lasciare il basket agonistico: a seguito di una partita persa in maniera dubbia dalla sua nazionale contro il Portorico, durante le Olimpiadi del 1972 a Monaco, ma anche in conseguenza della scomparsa prematura e mai del tutto chiarita del compagno della nazionale Trajko Rajković, un talento come lui ha iniziato a valutare il mondo dello sport con sguardo critico fino a dissociarsi dal mondo della pallacanestro agonistica per procedere su un percorso filosofico e intellettuale.
Il libro si sofferma anche su un’altra pagina molto grigia del basket, che ha coinvolto un’altra leggenda, ovvero il dramma occorso a Mirza Delibašić, il quale, a conclusione dell’ingaggio col Real Madrid nel 1983, avrebbe dovuto raggiungere Caserta per proseguire la sua carriera e farsi apprezzare dal pubblico italiano. Purtroppo, così non è stato. Osserva infatti il giornalista veneto:
In agosto, al termine di un intenso ritiro a Bormio, durante il trasferimento verso Caserta Mirza fu vittima di un’emorragia cerebrale che lo mise addirittura in pericolo di vita. Dopo un’operazione delicata e un lunghissimo ricovero presso l’Accademia Militare di Belgrado, Delibašić fu in grado di riprendere la sua vita come privato cittadino, non certo di rimettersi le scarpe da basket.
L’importanza dello spirito sportivo e il valore del collettivo
Il valore aggiunto del libro sta nell’approfondimento del lato umano dei maestri come Bogdan Tanjević e Želimir Obradović, per non parlare dei campioni come Toni Kukoč, Vlade Divac e Dino Rađa, oppure dei veri e propri miti come Dražen Dalipagić e Mirza Delibašić, grazie al focus sul loro vissuto, sulle loro scelte di vita, sull’abilità, in molti casi, di riuscire a coniugare la professione sportiva con la vita della propria famiglia.
Nel testo di Toso riviviamo l’entusiasmo genuino, che nei primi anni Settanta ha guidato la splendida avventura di Bogdan Tanjević sulla panchina del Bosna Sarajevo – un entusiasmo figlio, forse, di un’epoca ormai tramontata irrimediabilmente. Agli esordi in panchina era un allenatore ventiquattrenne alle prese “con un gruppo di diciannovenni di talento e affamati di imparare”, che di lì a poco avrebbero conquistato due campionati nazionali, una Coppa jugoslava e una coppa di Eurolega nel 1979 (battendo in finale l’Emerson Varese).
Toso ci svela l’alchimia di quel successo: il collante di quella storica compagine non erano solo il talento del basket e la maniacale meticolosità che il “Boscia” metteva negli allenamenti per farlo crescere appieno, ma anche lo spirito romantico del gruppo.
Citando Tanjević, Toso riferisce:
Quei primi anni furono meravigliosi, perché vivevamo la squadra in maniera totalizzante. Non c’erano troppe distrazioni o soldi, ma ci facevamo compagnia in maniera modesta ma sincera. Cosa c’è di più bello? Per dirne una, in spogliatoio avevamo una grande cultura di romanzi, avevamo letto tutti Cent’anni di solitudine di Garcia Márquez, lo citavamo in spogliatoio… Era un terreno comune a tutti noi, non come adesso che ogni giocatore è un mondo a parte.
Grazie alla testimonianza resa nel libro Jugobasket si può apprezzare l’assoluta devozione per la palla a spicchi di un cestista talentuoso come Dino Rađa, il quale ha portato la compagine di Spalato alle vette jugoslave ed europee. Nel capitolo a lui dedicato, Rađa chiarisce le ragioni per cui, in un certo periodo, l’Italia era destinata a perdere in maniera quasi sistematica le sfide contro la rappresentativa jugoslava:
…Era la tradizione italiana a essere diversa dalla nostra, rispetto a noi anche i grandi giocatori italiani non lavoravano granché, proprio per questo li abbiamo sempre battuti con la Nazionale. A livello di talento gente come Stefano Rusconi o Ricky Pittis non avevano niente meno di noi, ma noi abbiamo sempre lavorato ore e ore in più.
Se oggi a farla da padrone sono il profitto, il marketing sportivo e se l’aspetto economico è un fattore determinante nell’esito dei singoli tornei, nell’ex Jugoslavia un tempo contavano soprattutto il duro lavoro nel corso dei faticosi allenamenti, l’attaccamento alla squadra, l’abilità di guidare con acume e disciplina un club in cabina di regia sul parquet o dalla panchina.
Come svela un decano del basket come Želimir Obradović, commentando la tradizione di pallacanestro della città di Čačak, durante gli anni di gioventù l’interesse per la pallacanestro era all’apice:
allora c’erano meno cose, meno distrazioni di oggi, una cosa come il basket era fondamentale per tutti. Passavi tutto il giorno giocando a basket, e quando non giocavi pensavi al basket.
Un altro elemento cardine, che ben emerge nel libro, e che aiuta a dettagliare i motivi del successo del basket jugoslavo, sta nel valore del gruppo, inteso come lo stare insieme a livello paritario. A questo proposito, illuminanti sono queste semplice eppure efficaci parole dell’ex asso della Benetton Treviso Toni Kukoč rispetto ai suoi primi anni col Jugoplastika Spalato e gli allenamenti svolti con i compagni:
era divertente, tutti noi stavamo insieme così tanto in campo, e anche quando avevamo tempo libero per uscire e la società ci distribuiva quei coupon per andare a prendere un gelato o una pizza, noi andavamo comunque insieme, tra compagni di squadra.
I lati nazionalistici, paralleli alla pallacanestro
Uno dei punti forti che rendono questo volume particolarmente intrigante (non solo per i seguaci della palla a spicchi) sta nella lettura dei nazionalismi, presentati attraverso lo sguardo degli undici protagonisti. Sia chiaro, nel libro non c’è un unico punto di vista né una singola chiave di lettura sui nazionalismi che hanno portato alla distruzione di quel sogno utopico socialista che fu alla base dell’ex Jugoslavia. Dai racconti e dalle testimonianze raccolte da Alessandro Toso traspaiono invece esperienze e giudizi molto diversi, talvolta persino contrastanti, tanto da spingere il lettore più attento a una necessaria riflessione in merito.
Secondo alcuni dei protagonisti, il nazionalismo era sempre molto forte ed era percepito anche da chi si cimentava nel basket. Così, per esempio, Ljubodrag Simonović descrive la sua impressione di Belgrado a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, considerandolo il fulcro del nazionalismo serbo:
anche allora Belgrado non era solo la capitale della Jugoslavia, era un vero simbolo dell’appartenenza e dell’identità serba. Nonostante fossimo una nazione unica, il concetto di essere serbi e belgradesi era vivissimo nella mente di chiunque appartenesse o tifasse il club [il Crvena Zvezda].
Seppure con tono diverso, la stessa impressione sembra essere stata condivisa da un giovanissimo Predrag “Saša” Danilović, che nel capitolo conclusivo ci racconta le sue impressioni:
…nella mia famiglia di Trebinje, la Serbia mi veniva sempre portata a modello come una cosa molto importante. Guarda alla Serbia, Saša, guarda alla Serbia! Personalmente non ho mai fatto e continuo a non fare differenze tra gli abitanti delle varie repubbliche, non mi interessa niente se uno è croato, musulmano o serbo, ma ricordo benissimo quegli ammonimenti. La Serbia era grande, e Belgrado era il posto più importante della Serbia. Non me l’hanno mai spiegato nei dettagli, né io l’ho mai chiesto, però era così.
Altri l’hanno vissuta in maniera diversa, per esempio come una sana dose di adrenalina in più, ma senza precise connotazioni politiche: per citare, tra gli altri, un passaggio illuminante di Toni Kukoč e l’atmosfera delle gare di basket quando indossava la canotta spalatina:
amavo quelle partite, non mi importava se giocassimo a Spalato o a Belgrado, ovviamente essere in casa faceva piacere, ma a me dava ancora più gusto quando i tifosi avversari mi gridavano contro, perché mi dava extra motivazione. Prima che ci si avvicinasse davvero alla guerra, quindi nei miei primi anni, la parte nazionalistica del tifo non era così pronunciata; per fare un esempio, i nostri rivali più importanti erano Sebenico e Zara, croati e dalmati quanto noi. Era solo tifo, insomma.
Jugobasket. Tre generazioni leggendarie di Alessandro Toso, Bottega Errante Edizione, 2024.