Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:

  • IBAN IT73P0548412500CC0561000940
  • Banca Civibank
  • Intestato a Meridiano 13

Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.

Dona con PayPal

Viaggio in Armenia: trauma, cancellazione, resistenza culturale

Alcune note di un viaggio in Armenia a partire dalle cicatrici che la storia ha inciso sul corpo del paese: segni del trauma, della cesura e dell'incompiuto, ma anche delle reazioni emotive e politiche che il popolo armeno ha saputo opporvi. Di Giulio Burroni*.

Come ogni guida di buon senso suggerirebbe di iniziare l’esplorazione di Napoli salendo a Castel Sant’Elmo, osservare la città dall’alto e solo dopo addentrarsi nei vicoli bui, così a Erevan, capitale dell’Armenia, il punto di partenza ideale per visitare la città sono i 570 scalini bianchi della Kaskad (la cascata). Da qui si abbraccia con lo sguardo l’intera pianta circolare del centro, progettato negli anni Venti del Novecento dall’architetto Aleksandr Tamanyan nell’ambito del nuovo piano urbanistico ancora oggi ben visibile.

Dall’alto di questa visuale emergono tre delle rappresentazioni più emblematiche della storia armena: la parte sommitale dell’incompiuto monumento-giardino così amato dagli abitanti della capitale; poco più a ovest, e già fuori dai confini nazionali, la gigantesca sagoma del monte Ararat che si chiude a 5.100 metri di altitudine nella calotta di ghiaccio perenne; e, a nord, l’obelisco puntuto del memoriale dedicato al genocidio armeno del 1915-1923.

Osservando anche soltanto questi tre punti di riferimento, si possono intuire le cicatrici che il secolo scorso ha inciso sul corpo dell’Armenia. Sono i segni del trauma, della cesura e dell’incompiuto, ma anche delle reazioni emotive e politiche che il popolo armeno ha saputo opporvi.

In questa elementare evidence board composta soltanto di tre immagini-simbolo, si aggiunge un altro elemento, discreto ma pressoché inevitabile da incontrare: i cimiteri, che punteggiano il paesaggio come testimonianza silenziosa della storia del Paese. Sono segni di lutti che raccontano un popolo svuotato da guerre, terremoti e miseria, ma anche del rapporto intimo con la memoria dei defunti, preservata attraverso una tradizione che intreccia devozione e arte.

L’arte funeraria armena, con i suoi khachkar e le sue complesse decorazioni scolpite su pietra, rappresenta infatti un patrimonio culturale unico che tuttavia è stato, nel secolo scorso e tutt’oggi, un bersaglio costante all’interno del piano di cancellazione culturale messo in atto dai nemici storici dell’Armenia.

Incompiutezza. La cascata senz’acqua

La cascata di Erevan, progettata dall’architetto Jim Torosyan, insieme ad Aslan Mkhitaryan e Sargis Gurzadyan, durante il periodo sovietico, negli anni Settanta, è uno dei monumenti più noti della capitale armena e un’opera unica nel suo genere. Concepita come parte di un progetto urbanistico che voleva connettere il centro città con la collina del distretto residenziale superiore, la cascata è sia un giardino terrazzato, sia una grande fontana da cui però non sgorga più acqua, se non in qualche periodo estivo.

La gestione di un sistema idrico così complesso richiede infatti risorse economiche e una manutenzione costante e così, come dopo la fine dell’Unione Sovietica molte infrastrutture pubbliche in Armenia hanno subito una carenza di fondi per la manutenzione, anche la Kaskad di Erevan non ha fatto eccezione.

Il primo livello della Kaskad di Erevan (Giulio Burroni)

Interamente rivestita in tufo di vari colori, tra cui tonalità di crema, giallo, rosa e persino nero, la cascata senz’acqua è impreziosita da complesse decorazioni geometriche e floreali che richiamano la tradizione ornamentale armena. I suoi scalini, i terrazzamenti e i punti panoramici progressivamente più ampi allargano la vista sulla pianta a fiore circolare del centro città. Le panchine appartate lungo il percorso accolgono coppie e amici, mentre all’interno della risalita mobile si trova una galleria d’arte contemporanea, testimonianza di una vitalità culturale che sembra voler convivere con il peso della storia.

Tuttavia, raggiungendo la sommità della scalinata, si incontra un grande incompiuto: un vuoto monumentale che non è da leggere semplicemente come un difetto estetico o una lacuna progettuale, ma semmai come una testimonianza tangibile del trauma collettivo vissuto dall’Armenia negli ultimi anni dell’Unione Sovietica.

Superate le eleganti decorazioni e i rivestimenti in basalto bianco, si apre infatti la voragine di un cantiere edilizio mai concluso. Qui, i basamenti cementizi appena posati e poi abbandonati raccontano l’impatto devastante degli eventi che si intrecciarono in un momento storico senza precedenti: il terremoto del 1988, che devastò gran parte del paese; la caduta dell’Unione Sovietica, che lasciò l’Armenia senza risorse e infrastrutture; e la prima guerra in Nagorno-Karabakh, che aggravò ulteriormente la fragilità economica e sociale.

Il cantiere della Kaskad di Erevan in stato di abbandono (Giulio Burroni)

L’incompiutezza si svela in un forte impatto visivo: armature arrugginite sporgono nel vuoto di un buco nero che racconta la precarietà e lo smarrimento del periodo post-sovietico. Eppure, sopra lo squarcio sospeso tra passato e presente, la cascata sembra riprendere vita ma in modo molto meno luminoso e in qualche modo macabro. Il belvedere, ultimo livello del complesso, si staglia con il suo obelisco di 95 metri, una struttura che punta al cielo, forte e insieme inquietante, con il suo richiamo a un occhio vigile che vorrebbe proteggere – d’accordo – ma che soprattutto osserva e domina. Si tratta del memoriale per i cinquant’anni della rivoluzione d’ottobre, realizzato nel 1967. 

Non è certo un caso che strutture simili siano sparse in tutto il mondo ex sovietico. Pensiamo all’obelisco alla vittoria di Mosca, imponente e solenne, che celebra la memoria della guerra ma sembra, al contempo, rammentare chi detiene il controllo. O alla torre della televisione di Riga, ombra vigile sul paesaggio urbano, simbolo del potere statale che regnava incontrastato anche attraverso le frequenze radiotelevisive. La torre Baiterek in Kazakhstan racconta certo una storia di indipendenza, ma la sua presenza centrale e la forma slanciata non nascondono del tutto un altro messaggio: quello di uno stato che guarda dall’alto, che guida e, talvolta, sovrasta.

Anche l’obelisco alla sommità della Kaskad di Erevan si inserisce in questo linguaggio politico che parla di celebrazione e controllo attraverso l’opera pubblica.

Cesura. La montagna negata

A qualche centinaio di metri dalla sommità incompiuta della Kaskad, all’interno del parco della vittoria, poggia adesso, sullo stesso basamento su cui per sessant’anni si è sorretta l’immensa statua del dittatore georgiano Iosif Stalin, l’altrettanto gigantesca statua di Madre Armenia.

La protettrice del paese, armata di spada, ha lo sguardo rivolto verso i 5.100 metri dell’Ararat, il monte sacro che oggi si trova oltre i confini nazionali a seguito delle disposizioni del Trattato di Kars del 1921, firmato tra la Turchia kemalista e le repubbliche sovietiche del Caucaso (inclusa l’Armenia), che confermò la cessione della montagna alla Turchia, annullando le promesse territoriali fatte agli armeni dal precedente trattato di Sèvres del 1920, che prevedeva una “Grande Armenia” con confini ben più ampi.

Belvedere del memoriale per i cinquant’anni della rivoluzione. Sullo sfondo, debolmente visibile, le due cime dell’Ararat. Erevan (Giulio Burroni)

L’Ararat va quindi alla Turchia, ma da ogni angolo del paese i nuovi armeni lo osserveranno senza poterlo mai più raggiungere. Un’umiliazione senza pari nella bilancia dell’identità nazionale o forse, a pensarci bene, qualcosa che racconta bene una cifra dell’identità armena: la resistenza culturale e politica di fronte alle continue negazioni e perdite subite. 

Solo restando su questa immagine dell’Ararat dalle alture di Erevan potrebbe dispiegarsi la matrice delle storie e dell’identità armene: distanza, dispersione, distacco, negazione, nostalgia, memoria. Il parallelo forse incauto con il popolo ebraico è proprio lì, sotto il naso. Perché sia per gli armeni che per gli ebrei, il rapporto con la terra rappresenta un elemento centrale dell’identità collettiva, intrecciato a vicende di esilio, diaspora e resistenza culturale.

Nonostante le differenze nei percorsi storici, entrambi i popoli condividono certamente l’esperienza di una dispersione globale che non ha però intaccato la forza della loro identità, custodita attraverso la lingua, la religione e la memoria collettiva. 

Ma se per gli ebrei il ritorno alla terra ha rappresentato una rinascita che si è risolta oggi in una spirale di violenza genocidiaria, la perdita dell’Ararat e delle terre occidentali rimane una ferita ancora aperta, simbolo di una lotta ancora in corso per il riconoscimento della loro storia e del loro diritto alla memoria.

Trauma. Il genocidio cancellato

Dalla sommità incompiuta della Kaskad, la vista abbraccia tutta Erevan. Tra le linee spezzate dei terrazzamenti e lo sfondo montuoso, l’occhio si spinge fino a un profilo distante ma inconfondibile: il memoriale del Genocidio Armeno, sul colle di Tsitsernakaberd. È un luogo che non può essere ignorato, né nella geografia della città né in quella della memoria. 

Inaugurata nel 1967, durante gli anni della Repubblica Socialista Sovietica Armena, quest’opera è una risposta tardiva ma potente al silenzio imposto per decenni dal regime sul genocidio turco, che mal tollerava espressioni di identità nazionale distinte dal progetto collettivo sovietico.

Memoriale del Genocidio armeno a Erevan (Giulio Burroni)

La prima volta che si entra in un monumento allo sterminio umano, se si è nel giusto stato mentale, se ci si è minimamente documentati o se non si è guardato reel per i precedenti quindici minuti riducendosi la mente a poltiglia, può generarsi un sentimento di pietà e pena universale; qualcosa che fa sentire vicino alla specie e allo stesso la rende tragicamente repellente. 

Ma l’essere umano, se non quello che lavora sullo spirito con tenacia, non è fatto per tenere viva per troppo tempo l’empatia. E infatti, questa stessa immagine già a un secondo sguardo, può diventare solo la rappresentazione di un monumento: un santuario commemorativo a forma circolare; un obelisco che con le sue due parti inclinate simboleggia la rinascita del popolo armeno e il suo futuro. Cemento ben assemblato, nella luce già bassa di un primo pomeriggio a Erevan. E questa è la ragione per cui ci viene più naturale diventare indifferenti morali che non, anche se le fiamme degli stermini ardono perenni in molti angoli del mondo. 

Questo processo di distacco dal passato rischia di ovviamente manifestarsi non solo nella percezione dei luoghi della memoria, ma anche nell’atteggiamento verso le questioni di stringente attualità, sia a livello individuale e di opinione pubblica sia di relazioni politico-economiche tra stati.

Se ad oggi infatti la negazione del genocidio armeno è circoscritta a un ristretto numero di paesi, tuttavia, l’importanza strategica dell’Azerbaigian per le forniture di gas e della Turchia per questioni economiche e geopolitiche spinge molti stati a evitare confronti diretti, contribuendo così alla sottovalutazione di un retaggio storico fatto di discriminazione e odio etnico, ancora profondamente radicato nella regione. 

E questa persistente negazione, unita alla mancanza di una posizione del tutto univoca da parte della comunità internazionale, crea una spirale di indifferenza che risucchia l’attenzione dell’opinione pubblica per le recenti vicende del Nagorno-Karabakh. Una crisi già drammatica, ulteriormente oscurata da conflitti mediaticamente più rilevanti, come la guerra in Ucraina.

Leggi la nostra breve storia del Nagorno-Karabakh.

Morte. Quei vivi cimiteri armeni

In Armenia, complici le recenti perdite di giovani soldati nell’ultima fase della guerra con l’Azerbaigian, il genocidio del 1915-1923 – frattura storica, morale e demografica per eccellenza, e il terribile terremoto del 1988, la morte e il suo culto si osservano ovunque: negli sterminati cimiteri ai bordi delle strade di collegamento principali, sui muri delle case iscritte in struggenti fotografie di giovani scomparsi al fronte, negli occhi che già troppo hanno pianto dei familiari e in una popolazione che sembra essersi chiusa in una irreparabile contrizione per le sorti subite.

Includere i cimiteri nel proprio itinerario di viaggio può essere un’esperienza preziosa per chiunque desideri comprendere non solo il rapporto dell’essere umano con la morte in senso generale, ma soprattutto con la morte legata alla guerra o catastrofi collettive di ampia portata. Può essere particolarmente significativo per noi occidentali cresciuti in un’epoca di pace permanente che abbiamo trasformato il nostro rapporto con i defunti, spesso illudendoci di un’idea di quasi-immortalità ancorata al presente.

La fontana di ferro di Gyumri. Nel devastante terremoto di Spitak del 1988, che distrusse gran parte della città la fontana rimase in piedi, diventando un simbolo della capacità di resistenza di Gyumri (Giulio Burroni)

Lungo la strada che dalla seconda città armena, Gyumri, conduce verso Spitak, Vanadzor e poi nelle gole del Debent, si risalgono le curve isometriche passando dai 1.600 ai quasi 2.000 metri con un passo lento, senza strappi. Dai finestrini scorrono colline brulle, punteggiate senza logica apparente da fabbriche, capannoni, piccoli paesi e fermate del bus posizionate nei punti meno intuitivi del paesaggio. I rilievi si fanno via via più tozzi e robusti, e la coltre di neve che li ricopre sembra un tocco di cosmesi messa ad abbellire i toni riarsi dell’altopiano desertico. 

Sul declivio di una collina, lungo uno sterminato rettilineo, si apre una vasta area cimiteriale. Dall’altro lato della strada, la piana innevata cinta dai primi massicci oltre i 3.000 metri riflette l’opalescenza di un mezzogiorno che ancora non scalda a sufficienza.

L’ampiezza del cimitero sembra sterminata, l’occhio fatica a coglierne il limite. Qui riposano anche le vittime della catastrofe del 1988, il terremoto che rase al suolo la cittadina di Spitak, poco più avanti, e devastò quasi completamente Gyumri, appena lasciata alle nostre spalle. Le dimensioni di questo luogo rendono tangibile l’entità del disastro, che coincise, per un crudele accanimento della Storia, con altri due eventi cruciali per il popolo armeno: la fine dell’Unione Sovietica e la guerra in Nagorno-Karabakh. Fu la seconda grande trauma zone del paese, dopo il genocidio di inizio secolo scorso: il secondo big bang dell’universo armeno.

Camminando tra gli stradelli colpisce la presenza dei tanti viventi che vi si aggirano, molto più di quanti siamo abituati a vedere nei nostri cimiteri. Qui si bruciano incensi, si apparecchiano banchetti nei tavoli preposti accanto a ogni tomba, si piange, si discute, si cammina semplicemente guardandosi intorno. 

Ci si domanda quale ruolo possa avere un luogo del genere in una società in cui quasi ogni famiglia porta il peso di almeno un lutto, tra le guerre e il terremoto di trent’anni fa. E una risposta a questa domanda richiede inevitabilmente di tentare un confronto con le proprie esperienze culturali e il modo in cui viviamo e ricordiamo i nostri stessi lutti.

Il cimitero di Shirak (Giulio Burroni)

Ricordo che in famiglia le visite ai parenti passati oltre erano frequenti nell’arco della mia prima infanzia e che mai mi sono sentito minacciato dalle lapidi, dai fiori smorti e dal loro odore di marcio, quando si andava a trovare nonno, bisnonna e tutta la compagnia non più cantante.

Ricordo che “il dobbiamo andare al cimitero” non era quasi mai sentito come un dovere mortifero ma semmai come un bilanciamento al tempo del gioco che, dopo poco, si sarebbe risolto in una nuova magnifica e violentissima guerra al pallone con i miei piccoli e bastardi coetanei di paese. Oggi, a.d. 2024, pare impossibile anche solo pensare di dedicare un porzione del proprio tempo durante l’arco del mese a visitare le tombe degli più o meno adorati avi.

Sappiamo che il rapporto con la morte e la cura della memoria dei defunti varia profondamente tra le società ad alto benessere economico, in cui si osserva spesso un passaggio dalla dimensione collettiva della morte a una più individuale. Spostamento che si manifesta in una riduzione della centralità dei cimiteri come luoghi di memoria comunitaria e la morte tende a essere delegata a professionisti e strutture specializzate, in un processo che sociologi come Zygmunt Bauman hanno descritto come parte della liquid modernity, dove il legame con il passato è sempre più tenue, e il tempo presente domina l’immaginario collettivo.

Norbert Elias diceva ne La solitudine del morente, che le società moderne abbiano “nascosto” la morte, relegandola a una dimensione privata o medicalizzata, lontana dalla ritualità condivisa. La cremazione senza cerimonie o la dispersione delle ceneri stanno diventando sempre più comuni. Il bisogno di un luogo fisico come il cimitero è insomma sempre più ridotto. L’utilizzo dei cimiteri non solo come luoghi di ricordo, ma anche come spazi vivi di socializzazione e ritualità collettiva quasi del tutto scomparso, se non in paesi come il Giappone o la Corea del Sud.

Khachkar: memoria, trascendenza, paesaggio

L’arte funeraria costituisce una significativa fetta della dimensione storico-artistica armena, profondamente legata al culto e alla memoria dei defunti; una tradizione che si estende dall’antichità fino ai giorni nostri e trova la sua massima espressione nei khachkar, le iconiche croci di pietra scolpite. 

Si tratta di monumenti realizzati a partire da materiali vulcanici facilmente lavorabili ma resistenti, come tufo o andesite, con una croce centrale spesso decorata con intricati motivi ornamentali, simboli religiosi e, talvolta, iscrizioni che alla rappresentazione per eccellenza della fede cristiana, la croce, associano richiami sincretici con decori di matrice medio-orientale e arabo-persiana.

Si trovano facilmente anche senza doverli cercare con particolare impegno. Sono deposti in luoghi all’aperto, vicino a chiese, cimiteri, villaggi o spesso lungo strade importanti e non vengono soltanto usati come memoriali per i defunti, ma anche per celebrare vittorie, per chiedere protezione divina o per commemorare eventi significativi. 

Croci ammassate all’ingresso del monastero di Sevanavank (Giulio Burroni)

Il khachkar, o «pietra-croce», segna e santifica il paesaggio, accompagna la vita di chi lo abita e la collega alla trascendenza. Le sue origini risalgono probabilmente ai višapakʽar, le «pietre-drago» pre-cristiane legate alla mitologia locale. A partire dal VII secolo, hanno assunto la forma definitiva di stele rettangolari, decorate con una croce latina al centro, i cui bracci spesso si estendono sull’intera superficie della pietra. 

L’arte dei khachkar ebbe il suo apice tra il XII e il XIV secolo, quando raggiunse un incredibile livello di dettaglio nelle decorazioni, ma non è da considerarsi come una tradizione congelata nel tempo. Ancora esistono infatti artigiani-scultori che creano queste opere funerarie per le famiglie che vogliono onorare i propri defunti secondo la tradizione delle croci di pietra, particolarmente viva nella regione del lago di Sevan dove si trova il più grande sito khachkar attualmente esistente: il cimitero di Noraduz. 

Noraduz è un archivio a cielo aperto della tradizione funeraria armena dove le linee del tempo si leggono nei differenti livelli di conservazione. Qui, le più antiche croci di pietra ormai ricoperte di licheni, convivono accanto alle più recenti, tuttora realizzate artigianalmente in un laboratorio a conduzione familiare situato all’interno dell’area stessa.

Ogni khachkar realizzato richiama nei suoi decori le celebri croci scolpite che si possono osservare nei monasteri di Haghpat, Sanahin e Akhtala, nel nord dell’Armenia. Altri riferimenti importanti per gli artigiani scalpellini del cimitero di Noraduz sono agli esemplari ormai perduti dell’area di Giulfa, nella regione azera del Nachicevan, dove fino al XX secolo sorgevano migliaia di croci di pietra, alcune risalenti al XII e XIV secolo.

I due fratelli che incontriamo mentre lavorano chini sulla pietra ci mostrano i loro modelli stampati su carta, facendoci capire che si tratta di croci molto note, ma che loro hanno visto solo sui libri perché agli armeni è impossibile accedere al territorio azero del Nachicevan.

L’idea che si forma ascoltandoli è che il loro mestiere, iniziato dal nonno paterno, sia essenziale nella comunità a cui appartengono, in cui le persone, anche di più umili origini, spendono cifre considerevoli per ottenere da loro un khachkar che riproduce gli stilemi delle croci dell’antica città di Culfa. E che questa pratica di riproduzione del patrimonio sia anche una risposta culturale di preservazione della memoria in risposta alla distruzione di Culfa. 

Culfa, oggi, è infatti un nome associato non alla conservazione dei suoi beni culturali, ma alla cancellazione del patrimonio culturale armeno in territorio azero. Tra il 1998 e il 2005, le autorità azere hanno infatti distrutto sistematicamente i khachkar di questa regione, in un’operazione documentata con fotografie e video che hanno fatto il giro del mondo.

Quella che un tempo era una testimonianza vivente della memoria storica armena è diventata un simbolo di perdita irreversibile. Alcuni studiosi hanno evidenziato che dopo la distruzione del cimitero storico di Culfa in Azerbaigian, si è sviluppato un movimento di “repatriazione culturale” attraverso la creazione di copie dei khachkar distrutti.

Questo processo, iniziato nel 2007, è stato spontaneo e individuale, senza il supporto statale: in una prima fase le repliche sono state realizzate principalmente in Armenia, in luoghi come Vanadzor, Gyumri e Erevan, oltre che in monasteri, chiese e cimiteri. Dal 2012 si è entrati in una seconda fase in cui la diffusione delle repliche si è estesa a livello globale, con oltre trecento copie in tutto il mondo.

Al riguardo, da segnalare il Julfa Cemetery Digital Repatriation Project, un’iniziativa avviata nel 2014 dalla Australian Catholic University che ha creato una ricostruzione 3D del cimitero distrutto.

Il lavoro di incisione di un khachkar. Laboratorio all’interno del cimitero di Noraduz (Giulio Burroni)

Le chiavi per interpretare l’Armenia sono ovviamente molteplici e quelle qui accennate ne rappresentano solo una piccola parte: viaggiando nel paese ci si potrebbe concentrare anche soltanto sui segni del sacro rinvenibili nei celebri monasteri, sulle tracce architettoniche e culturali dell’ex Unione Sovietica o sugli aspetti più prettamente paesaggistici e naturali. Ma ignorarne i segni del trauma collettivo significherebbe portare con sé un’immagine parziale e consolatoria. 

Perché in un paese confinante con due nemici storici, l’Azerbaigian e la Turchia, privo di sbocchi sul mare e profondamente legato agli interessi della Federazione Russa, la storia ha seguito ben poche volte dei percorsi lineari. E, quei segni, quei luoghi e quei simboli raccontano qualcosa che durante un viaggio in Armenia non si può evitare di ascoltare: incompiutezza, perdita, cancellazione e resistenza politica e culturale qui si intrecciano, rivelando non solo le cicatrici del passato ma anche la capacità di trasformarle in simboli di memoria e identità.

Viaggiando attraverso l’Armenia, emerge con chiarezza un fragilità diffusa che è anche segno dell’unicità di questo paese. Lo squilibrio di potere con i vicini azeri sostenuti dalla Turchia, e l’indebolimento del ruolo della Russia come garante della sua sicurezza, alimenta incertezze sul futuro della regione e solleva molti dubbi su quanto a lungo l’integrità territoriale dell’Armenia, per come la conosciamo oggi, potrà ancora resistere.

*Giulio Burroni è un consulente esperto in comunicazione e design. Lavora con un approccio che integra testi, strategie e immagini – tre pilastri che sorreggono anche i suoi interessi e le sue passioni. Oltre a offrire consulenza professionale, scrive e produce reportage fotografici indipendenti, collaborando con riviste italiane di divulgazione scientifica e culturale. Co-fondatore di Eccetera Magazine, porta avanti un impegno costante nella narrazione e nella valorizzazione dei contenuti visivi e testuali.

Condividi l'articolo!
Redazione
Redazione