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Il 25 giugno prossimo si svolgerà a Sarajevo la terza Marcia della comunità LGBTQI. La Bosnia è stato l’ultimo paese europeo a ospitare un Pride. La parata si è svolta, per la prima volta, il 9 settembre 2019 nella capitale bosniaca con la partecipazione di circa duemila persone. Il notevole ritardo temporale rispetto al resto dei paesi europei, dove manifestazioni di questo tipo si svolgono ormai da decenni, è solo uno degli aspetti che rendono visibili le quotidiane difficoltà per la comunità LGBTQI nella lotta per il loro riconoscimento come parte integrante della società bosniaca. Una società ancora legata a una visione fortemente patriarcale ed etnonazionalista, dove la divisione etnica e religiosa tra i gruppi che la compongono (i croati cattolici, i bosniaci musulmani e i serbi ortodossi) costituisce il fondamento stesso dell’impianto istituzionale dello Stato.
In Bosnia, probabilmente più che in altri paesi, la lotta per il riconoscimento dei propri diritti e contro qualsiasi forma di discriminazione deve fare i conti con gli ostacoli posti sia dalle istituzioni, governate da partiti nazionalisti ben poco interessati ai diritti civili, sia con una società che su questi temi mostra ancora un significativo scetticismo.
Le differenze tra le due entità che compongono il paese, la Federazione della Bosnia-Erzegovina (a maggioranza croato-musulmana) e la Republika Srpska (a maggioranza serba), sono davvero minime. La Federazione ha decriminalizzato l’omosessualità, legalizzando l’attività sessuale tra persone dello stesso sesso, subito dopo la conclusione della guerra, nel 1996. La Republika Srpska ha invece atteso altri due anni per adeguarsi.
Un importante passo avanti si è avuto nel primo decennio degli anni Duemila con l’adozione di due leggi. La prima, intitolata “legge sull’uguaglianza dei sessi”, è stata adottata nel 2003 e vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata sul genere e sull’orientamento sessuale. La seconda norma, la “legge contro la discriminazione” adottata dal parlamento bosniaco nel 2009, ampliava la precedente legge perseguendo le molestie e la segregazione basata sull’orientamento sessuale.
Nonostante questi progressi, la legislazione bosniaca presenta ancora numerose lacune come quella che vieta alle persone non eterosessuali la donazione di sangue. Se sul piano legislativo le cose non vanno benissimo, anche la vita quotidiana delle persone non etero nel paese continua a rimanere piuttosto complicata e piena di ostacoli. A confermarlo è stato lo stesso difensore civico bosniaco (ombudsman) con un breve comunicato rilasciato il 17 maggio 2021 durante la Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia. L’ombudsman, pur riconoscendo gli sforzi dei ministeri dell’Interno nell’organizzazione di corsi di formazione per agenti di polizia, ha sottolineato come negli ultimi anni “non sono stati compiuti passi concreti” verso il riconoscimento dei diritti per coppie dello stesso sesso, sottolineando come esistano ancora forme di “incitamento all’odio nei confronti delle persone LGBTQI” e che “sono pochi i detentori delle posizioni più alte [di governo] che si battono apertamente per la tutela dei diritti di queste persone”.
L’attivismo della comunità LGBTQI
Le difficoltà e l’ostruzionismo istituzionale non hanno però evitato un sempre più attivo protagonismo della comunità LGBTQI e delle associazioni da essa creata. Lo svolgimento del primo Pride a Sarajevo è solo il risultato più evidente di un lungo e coraggioso percorso portato avanti negli anni, nonostante le intimidazioni e le violenze, come quelle registrate durante il Queer Sarajevo Festival del 2008.
Una ricerca condotta da alcuni studiosi nel 2021 sugli effetti del Pride tra la popolazione dimostra però che la lotta della comunità comincia a produrre effetti concreti. La ricerca fornisce alcuni importanti spunti di riflessione. Il primo riguarda l’estrema differenza tra la città di Sarajevo e il resto del paese sul livello di accettazione di questo tipo di manifestazione. Una discrepanza che ripercorre la classica dicotomia tra città e campagna, evidente anche in altri aspetti più prettamente “politici”. Prima del Pride, il 56,7% della popolazione sarajevese si dichiarava contraria alla manifestazione contro l’86,3% del resto del paese. Dopo la marcia, il dato ha mostrato un consistente calo delle opinioni contrarie nella capitale (48,3%), sintomo che questo tipo di evento contribuisce quantomeno a sfatare alcuni tabù e renderlo più “accettabile” agli occhi della società. Al contrario, l’opposizione è cresciuta (88,6%) nel resto del paese per nulla coinvolto dalla marcia.
Quest’anno la marcia si svolgerà il 25 giugno a Sarajevo sotto lo slogan “Riunione di famiglia”. Come si legge nel sito ufficiale del comitato organizzatore, l’obiettivo è “la messa in discussione di questo argomento per fornire una dimensione più ampia di ciò che è la famiglia oggi”.
Come Meridiano 13 abbiamo affrontato questi temi con Amar Ćatović, attivista della comunità LGBTQI di Tuzla, terza città del paese appartenente alla Federazione di Bosnia-Erzegovina, di cui di seguito riportiamo una breve intervista.
Quali sono le difficoltà maggiori con cui si devono interfacciare le persone non eterosessuali in Bosnia-Erzegovina?
Le persone non eterosessuali in Bosnia hanno due problemi principali: le istituzioni e la società. Nel primo caso, abbiamo istituzioni che di fatto non riconoscono le persone non etero quando si tratta di difendere i loro diritti, anche se abbiamo leggi che formalmente proteggono le persone LGBTIQ+. Le istituzioni locali, in particolare, non supportano e rispettano le norme che riguardano le discriminazioni sessuali o l’identità genere. Nel nostro paese, inoltre, non esiste una legge che riconosca le coppie dello stesso sesso.
Riguardo la società, ci scontriamo con discriminazioni a tutti i livelli: al bar, al cinema, nel lavoro di tutti i giorni. I cittadini sono imbevuti di stereotipi, stigmatizzano le persone non etero e alimentano costantemente le divisioni.
Ci sono differenze a livello istituzionale e tra le società delle due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Republika Srpska (a maggioranza serba)?
A dire il vero ci sono poche differenze tra le due entità. Nella Federazione, ad esempio, il governo ha creato nel 2018 un gruppo di lavoro di esperti che lavora su questi temi per cercare di arrivare a una legge che riconosca le coppie dello stesso sesso. Lavorano ormai da ormai quattro anni ma non sono ancora arrivati a una soluzione. Da persona non etero, attivista per i diritti delle persone LGBTQI e avvocato non capisco perché ci voglia tutto questo tempo, quando anche in paesi vicini come Croazia e Montenegro esistono leggi di questo tipo.
Nella Republika Srpska non abbiamo neanche questo tipo di iniziative. Chiaramente la situazione è un poco migliore nelle grandi città rispetto ai piccoli centri, dove le comunità sono più chiuse, più legate all’identità etero.
Anche per questo ci battiamo per avere spazi pubblici sicuri e per la libertà di poterci riunire apertamente e senza problemi.
Quali sono le rivendicazioni politiche della comunità LGBTQI in Bosnia-Erzegovina oggi?
Le rivendicazioni principali riguardano soprattutto l’adozione di una legge per il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso e l’implementazione e il rispetto delle regole già esistenti in materia di protezione dei diritti. Lottiamo per una maggiore protezione delle istituzioni dalle violenze fisiche che subiamo costantemente e ovviamente per una società più aperta, che superi gli stereotipi e le divisioni.
Tra il 2020 e il 2021 in Bosnia le violenze legate alle discriminazioni di genere sono state numerose. Ci sono stati diversi casi di coppie aggredite per strada senza che la polizia perseguisse gli aggressori o considerasse queste violenze come atti criminali. Questo implica che non esistono praticamente procedimenti giudiziari che riguardano atti violenti contro le coppie dello stesso sesso in quanto tali.
Anche per questo ci battiamo per avere spazi pubblici sicuri e per la libertà di poterci riunire apertamente e senza problemi. Quando siamo andati dalla polizia per organizzare il primo Pride di Sarajevo nel 2019, le forze dell’ordine hanno imposto alla nostra organizzazione misure di sicurezza ulteriori rispetto a qualsiasi altro evento organizzato da altre realtà sociali e politiche. Questo significa che siamo liberi di svolgere la nostra marcia ma dobbiamo pagare per la sicurezza, anche fino a 15000 euro in più, rendendo chiaramente molto più complicata l’organizzazione del Pride. Lottiamo per impedire che questo avvenga, perché la polizia è obbligata a proteggere anche i nostri eventi e le nostre manifestazioni esattamente come accade per tutti gli altri cittadini del paese. La sicurezza non è una nostra responsabilità ma delle autorità preposte. Così come la colpa dell’insicurezza non è nostra ma di quella parte della società omofobica e transfobica.
Non vogliamo che nei prossimi dieci anni ci sia solo la marcia a Sarajevo.
Avete intenzione di organizzare altre marce in altre città del paese oltre Sarajevo?
Si, abbiamo già avviato questa discussione al nostro interno. Non sappiamo ancora se ci riusciremo entro il 2022 o il 2023 ma ovviamente incoraggiamo una “decentralizzazione” delle marce. Non vogliamo che nei prossimi dieci anni ci sia solo la marcia a Sarajevo. Quindi si, è un nostro obiettivo coinvolgere anche altre città ma abbiamo bisogno di migliorare la nostra organizzazione, di sensibilizzare sempre di più la popolazione di Tuzla, Banja Luka, Mostar. Per questo organizziamo vari workshop e meeting in tutto il paese ma non sappiamo quando sarà possibile sfilare anche nelle altre città.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.