di Eleonora Sacco*
Nel Caucaso, invece, il principale centro di civiltà è sempre stato, e in buona parte resta tuttora, il villaggio. Chi non ha visto un villaggio, sa ben poco del Caucaso.
Dal Caspio al Mar Nero, dalle vette dell’Elbrus alle steppe inaridite della Calmucchia, Pianeta Caucaso di Wojciech Górecki è un ricchissimo reportage che sviscera le nuove frontiere, visibili e invisibili, sorte attorno alla catena del Caucaso maggiore con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un viaggio negli anni Novanta del Caucaso del Nord, tra guerre intestine, posti di blocco da corrompere, villaggi ancora non raggiunti dalla strada e il risveglio dei nazionalismi – il pjatyj punkt sul passaporto sovietico, che indicava l’etnia di appartenenza, improvvisamente tornava cruciale.
Anche se il termine fa spesso da sinonimo ai tre Stati del Caucaso meridionale visibili sulle cartine generiche, cioè Armenia, Azerbaigian e Georgia, il Caucaso è in realtà molto di più, e molto oltre. Górecki va per l’appunto a scandagliare il Caucaso meno visibile e più in senso stretto, seguendo le montagne e con qualche incursione nelle grandi pianure a Nord della catena.
In Pianeta Caucaso esplora le entità statali e i popoli che non affiorano in superficie, perdendosi all’interno della linea netta delle frontiere della Federazione Russa, della Georgia o dell’Azerbaigian. Ma la porosità dei confini di una regione che da secoli è la porta del Medio Oriente per la Russia, e una porta d’Europa per il Medio Oriente, non è una novità.
Le politiche etniche sovietiche hanno disegnato e ridisegnato nei decenni sotto-confini bizzarri, che seguono fiumi, torrenti, mappe demografiche ormai datate, crinali di montagna, creando un sottobosco incredibilmente complesso di repubbliche autonome, kraj (territori), oblast’ (regioni), e oblast’ autonome, accorpando forzatamente popoli diversi con criteri opachi, fallendo prevedibilmente nel tentativo di incasellare uomini liberi in recinti quadrati, sterminandoli o deportandoli in massa quando necessario (sic). Oggi, quel sottobosco scompare dentro i confini monocromatici della Federazione Russa, in una pax putiniana apparente che dura da una quindicina d’anni. Negli anni Novanta, però, lo scenario era completamente diverso.
Funestato da guerre violentissime, dalla Cecenia al Nagorno-Karabakh, il Caucaso tutto pullulava di movimenti per l’indipendenza per regioni microscopiche, di proteste e di dispute territoriali riemerse dopo decenni in cui i confini interni dell’Urss non avevano importanza. Dal conflitto etnico tra osseti e ingusci ai mercenari in Abcasia, fino alla breve vita della repubblica cecena di Ičkeria, il vuoto di potere lasciato dall’Unione Sovietica e la tabula rasa da cui rinegoziare la convivenza con i padroni di casa portarono un misto di euforia e violenza che ritorna, in forma diversa, in tutti i capitoli del libro.
Dalle teorie fantascientifiche su una possibile e devastante eruzione dell’Elbrus, fino a rituali sufi danzati illegalmente nelle cantine, l’umanità nel Caucaso di quegli anni si sfoga in ogni modo, alla disperata ricerca di una nuova identità individuale e collettiva, tra nuovi culti e ideologie. Nel suo lungo viaggio su mezzi scassati e strade che hanno visto tempi migliori, Górecki racconta soprattutto delle differenze, in alcuni casi molto sottili o che si perdono nella notte dei tempi, delle decine di popoli che incontra – ognuno impegnato ad avanzare pretese territoriali a scapito dei vicini, o a rivendicare un insediamento più antico.
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Il filo conduttore di Pianeta Caucaso
Sono però le somiglianze tra questi popoli quelle che rimangono impresse, pagina dopo pagina, in maniera indelebile. Il legame inscindibile con il proprio aul, il villaggio, e la reverenza sacra nei confronti degli anziani. La generosità, l’ospitalità, la libertà e l’indipendenza come tratti culturali di cui provare orgoglio. La coesione delle comunità, con le loro leggi non scritte, costrette a chiudersi in sé stesse per resistere alla lenta assimilazione.
La perdita della lingua, il subire il marchio da estranei o lo sciogliersi nella cultura maggioritaria, il testimone da profughi passato da un popolo a un altro, il dolore del ritorno a casa trovandola occupata da nuovi inquilini. Il Caucaso degli anni Novanta è un pianeta che ha paura di scomparire fagocitato da un nuovo ordine mondiale, e che allo stesso tempo si gioca tutto nella speranza di una rivalsa covata per secoli, dove il sogno sovietico della fratellanza tra i popoli sembra non sia mai arrivato: ogni abitante di quella strana dimensione si ritrova d’improvviso solo, in un campo di battaglia tutti contro tutti.
È un libro che parla forte e chiaro ancora oggi, a distanza di trent’anni da molte delle scene a tratti mitiche ritratte da Górecki – una febbre quasi mortale in un remoto villaggio azero, lo zikr della vittoria in una Groznyj in macerie ma finalmente indipendente, le strade tortuose del Daghestan, il mistero ineffabile dell’identità abcasa custodito da pochi, venerati saggi, lo spaesamento dei vecchi credenti russi tornati ai loro villaggi, rimpatriati dalla Turchia.
Alternando discussioni quasi surreali a vivide pagine di reportage, fino a excursus storici e interviste a personaggi chiave, Pianeta Caucaso è una lettura fondante e un lavoro poderoso, che poche altre persone potrebbero svolgere con la stessa competenza di Wojciech Górecki. È un punto di partenza e non di arrivo.
La riedizione di Keller non ha però aggiornato la traduzione approssimativa e datata di Vera Verdiani, piena di refusi e inesattezze, che tolgono lustro a un testo così importante. La prefazione dello stesso Górecki e le sue pagine di appunti più recenti, tradotti da Marco Vanchetti, aiutano invece ad attualizzare il testo, con riferimenti ai decenni successivi e ad alcuni dei profondi cambiamenti che la regione ha vissuto.
La nostalgia del Caucaso
Anni fa presi un volo da Danzica, in Polonia, a Kutaisi, in Georgia, e mi ritrovai seduta tra un signore dal viso visibilmente georgiano e, a sinistra, a un signore dal profilo decisamente armeno. Dando per scontato che non capissi il loro russo koinè, e dopo lunghi sguardi tra occhi scuri, iniziarono una conversazione che ebbi il privilegio di potermi godere in incognito, come se fossi invisibile.
L’armeno viveva in Norvegia con la famiglia, il georgiano in Svezia. Dopo i primi convenevoli, iniziarono a dirsi che certo, in Scandinavia il lavoro è ben pagato, i figli fanno buone scuole, ma non è come «u nas na Kavkaze», da noi in Caucaso, «i vicini non si salutano neanche!», «già, pensa che è dieci anni che siamo in quell’appartamento e non sappiamo nemmeno come si chiamano i nostri dirimpettai!», «i nostri figli a scuola fanno fatica a fare amicizia con gli svedesi», e così via.
Entrambi andavano in vacanza sulle affollate e caldo-umide spiagge di Batumi: il place to be caucasico estivo. Quella conversazione scivolò in breve tempo in un moto di nostalgia. C’è una discreta forza che tiene insieme le zolle del Pianeta Caucaso. La si percepisce per contrasto, quando si è lontani da lì. Meglio ancora se in volo, sorvolando l’immensa massa d’acqua del Mar Nero, lontano da terre abitate, città e confini.
Sabato 15 marzo alle ore 17:30, Wojciech Górecki presenterà Pianeta Caucaso e Abcasia presso il Circolo dei lettori (via Bogino 9, Torino). L’incontro si svolgerà nell’ambito del festival Slavika (il programma completo del festival). Per maggiori informazioni sull’evento visitate questo link.
* È un’autrice che scrive di viaggi, cura il blog painderoute.it e la linea viaggi kukushkatours.it. Dal 2019 organizza e accompagna viaggi nei Balcani, in Caucaso, Asia Centrale e Sud-Occidentale. È esperta di minoranze etniche dell’ex Urss e di patrimonio artistico e architettonico sovietico. È autrice, insieme a Angelo Zinna, dei podcast Cemento (2019-2021) e Kult (2023). Ha scritto Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici (Enrico Damiani Editore 2020).
Pianeta Caucaso di Wojciech Górecki, traduzione di Vera Verdiani, Keller Editore, 2025