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Le proteste studentesche in Serbia di Vladimir Arsenijević e una lettura del fenomeno dalla Georgia

La giornalista e curatrice di libri Tamar Babuadze ha di recente intervistato per la rivista georgiana Indigo Magazine lo scrittore e attivista serbo Vladimir Arsenijević al fine di contestualizzare le proteste studentesche in Serbia più grandi dai tempi di Milošević. Vladimir ci illustra il processo di tali manifestazioni sullo sfondo della storia serba recente, delle difficoltà di comunicazione all’interno dei Balcani occidentali e degli squilibri di potere tra Russia ed Europa, guardando anche al fenomeno delle proteste in Georgia.

Riproponiamo l’intervista in lingua italiana. La traduzione è a cura di Fabiana De Benedictis*.

Scrittore, intellettuale, attivista e schietto interprete dei fenomeni sociali, Vladimir Arsenijević è anche presidente dell’associazione KROKODIL [acronimo che sta per: raduno letterario regionale che allevia la noia e la letargia] che si definisce “tra le poche organizzazioni indipendenti, apartitiche della società civile in Serbia a occuparsi di cultura e letteratura, nonché […] impegnata nello sviluppo di una cultura democratica, nell’attivismo civico e nella sensibilizzazione dei cittadini riguardo ai propri diritti politici”.

Le proteste studentesche in Serbia raccontate da Vladimir Arsenijević

Tamar: È il 7 febbraio e mentre noi parliamo, i manifestanti a Tbilisi si preparano per il loro rituale che dal 28 novembre si ripete ogni sera. Alcuni si radunano sul viale Rustaveli vicino al Parlamento e vengono poi raggiunti da altri provenienti dall’edificio dell’Emittente pubblica nazionale. Gruppi di studenti in sciopero occupano le aule di diverse università. Sono queste le zone calde in cui sono scoppiate le contestazioni a Tbilisi, e sono continuate senza sosta. Qual è invece la percezione quotidiana delle proteste studentesche in Serbia e nella città di Belgrado?

Vladimir: Gli studenti protestano in maniera ininterrotta, tutti i giorni, e le università restano occupate continuativamente. Per quanto riguarda le altre persone, ogni giorno si organizzano per partecipare ai 15 minuti di silenzio che vengono osservati quando scoccano le 11.52, ora esatta in cui lo scorso 1° novembre è crollata la tettoia alla stazione ferroviaria di Novi Sad, uccidendo 15 persone. È stata questa tragedia a dare il via alle proteste. Così ogni giorno esattamente a quell’ora, in qualsiasi normale situazione in città, durante il solito flusso di macchine e pedoni, ogni persona si ferma, immobile e in silenzio per 15 minuti. È molto suggestivo da vedere.

Le proteste quotidiane proseguono solo Belgrado e Novi Sad o anche in altre località del paese? Potrebbe tracciare una mappatura urbana più precisa di dove si stanno svolgendo le proteste?

I centri principali sono Belgrado e Novi Sad, che si trova a 70 chilometri dalla capitale ed è la seconda città più grande del paese, nonché pressoché l’unico centro culturale, economico e politico oltre a Belgrado. Tuttavia, le proteste sono in corso anche a Niš, la terza città più grande, e in altre località minori. Vengono organizzate azioni, come blocchi stradali, e iniziative di diversa portata che confluiscono in eventi più partecipati, perlopiù organizzati dai movimenti studenteschi.

I luoghi variano sempre e non c’è un unico spazio che le persone occupano quotidianamente, un po’ come succede a Tbilisi. Ad esempio, a Belgrado c’è uno snodo, che noi chiamiamo Autokomanda, particolarmente articolato di strade e autostrade, fondamentale per i tragitti dei pendolari che entrano ed escono dalla città. Se viene bloccato quell’incrocio, in pratica si ostruiscono tutti gli accessi alla città.

I blocchi vengono organizzati regolarmente anche in centro, ad esempio all’incrocio tra via Nemanjina e Kneza Miloša, in cui da un lato c’è il Palazzo del Governo e dall’altro il ministero degli Affari esteri. Dall’altra parte della strada si trova invece l’edificio, direi iconico, del cosiddetto Generalštab, il quartier generale militare che fu bombardato dalla NATO nel 1999 e mai realmente ristrutturato. Ci sono inoltre piazza Slavia o via Tarkovska, ovvero la zona della televisione pubblica. Vista la profonda consapevolezza di come il governo mantiene il controllo sui media, compresa l’emittente televisiva nazionale, anche questo è diventato un luogo di ritrovo per diverse manifestazioni.

Anche la strada che collega Belgrado a Novi Sad è un punto caldo. Poco tempo fa gli studenti hanno organizzato una lunga passeggiata (70 chilometri), partendo dall’università di Belgrado fino a Novi Sad.

Quella che sembrava l’ennesima protesta studentesca, questa volta si è estesa a diversi gruppi sociali, coinvolgendo diversi strati della popolazione di ogni estrazione sociale, tanto che i pensionati, tradizionalmente di stampo conservatore e che quasi sempre votano per i politici al governo, sostengono la protesta e di recente si sono uniti agli studenti per contestare il governo. Si tratta di un fenomeno piuttosto nuovo per il paese.

Un balzo indietro nel tempo per capire le proteste studentesche in Serbia

Questo è un aspetto sorprendente. Ma si tratta di un avvicinamento recente, avvenuto gradualmente, giusto? A dir la verità, a fine dicembre avevo letto uno studio che sottolineava proprio come la generazione più anziana non si facesse coinvolgere da quello che stava accadendo.

Credo che l’onda sia diventata oramai di dimensioni tali che è difficile opporvisi. Questo è un dato di fatto. C’è da dire poi che un forte senso di delusione diffusa nell’intera nazione per come sono state gestite le cose negli ultimi anni ha fatto la sua parte.

Potrebbe quantificare questi anni? Ad esempio, in Georgia si parla de “i nove anni di sangue” (una definizione coniata dai sostenitori del partito Sogno Georgiano per indicare il governo Saakashvili, ma utilizzata anche in maniera ambigua), e anche de “i dodici anni di Sogno Georgiano”, contro il quale le persone sono scese in piazza.

Beh, allora bisogna fare un balzo indietro nel tempo. Dunque, 1980: il maresciallo Tito muore e tutte le certezze di un’intera nazione implodono. Il paese precipita subito in un susseguirsi di crisi di diversa entità. La prima, la più visibile, fu quella economica. Ma data la natura complessa e multiculturale della Jugoslavia, si trasformò ben preso in una crisi politica. Seguì poi una crisi identitaria: nessuno voleva più rimanere nello stesso paese.

Non eravamo nemmeno colpiti dal processo di democratizzazione che, come una valanga, stava attraversando l’Europa orientale dopo la caduta del muro di Berlino. Questa incapacità di percepire e prender parte agli eventi globali era già un chiaro segnale di malessere e il preludio al periodo di guerre che sarebbe seguito.

Poi arrivarono i politici nazionalisti populisti come Slobodan Milošević in Serbia, Franjo Tuđman in Croazia o Alija Izetbegović in Bosnia ed Erzegovina. Erano tutti ex apparatčiki, ovvero uomini del partito, cresciuti in un sistema monopartitico che governò il paese per tutto il periodo socialista. Queste figure hanno creato narrazioni di stampo nazionalista e sono stati di fatto i principali responsabili dell’atmosfera estremamente aggressiva che ha lacerato il paese nel corso degli anni Novanta.

Abbiamo poi vissuto un decennio orribile di guerre in Jugoslavia, conclusosi nel 1999 con i bombardamenti della NATO in Serbia e Montenegro. Poi Milošević fu finalmente rovesciato nel 2000 grazie a un enorme movimento popolare, chiamato “il 5 ottobre” (data in cui avvenne questa cosiddetta rivoluzione).

A quel punto avevamo tutte le ragioni di credere di essere entrati in una nuova era.

Tuttavia, le nostre speranze non si sono mai concretizzate, bensì vennero immediatamente distrutte dal gruppo di politici d’opposizione che avevamo supportato per tutti gli anni Novanta. In quegli anni i riflettori erano puntati su chi si era arricchito o aveva commesso crimini e atrocità durante la guerra. In quest’ottica, il politico dissidente e poi primo ministro Zoran Đinđić aveva cercato di fare qualcosa al riguardo, intrattenendo rapporti di attiva collaborazione con il Tribunale dell’Aja, ma fu assassinato nel 2003. Quell’evento ci ha fatto ripiombare in un periodo molto buio che si ripercuote fino ai giorni nostri.

Negli ultimi 12 anni, se non sbaglio, il paese è stato governato dal Partito Progressista, che è in realtà la propaggine del Partito Radicale Serbo di estrema destra. Aleksandar Vučić, il nostro attuale presidente, a mio parere avrebbe dovuto essere processato all’Aja già molto tempo fa. Infatti, in quanto membro di alto rango dei Radicali, è personalmente legato ad alcune sanguinose atrocità commesse durante le guerre in Jugoslavia, per le quali non è mai stato perseguito, né tantomeno gli è stato impedito di candidarsi a cariche pubbliche.

Non solo, Vučić è un fedele partner della Germania e degli Stati Uniti, che per procura partecipano attivamente alla sua politica isterica, ossia il gioco sconsiderato di tenere i piedi in più scarpe, creando diverse narrazioni a seconda dei diversi paesi partner, e trattando, come è noto, anche con la Russia, con la Cina, con gli Emirati, con l’Unione Europea. È strano, ma in qualche modo sembra che tutto giochi a suo favore.

La sua innata capacità distruttiva ci ha inoltre praticamente strappato e allontanato dai nostri vicini, ovvero i paesi dell’Europa sudorientale e dei Balcani occidentali da cui siamo circondati, ma allo stesso ha anche generato forti valori antieuropei e antioccidentali che hanno influenzato la nostra società e in particolare i nostri giovani.

Per fare in modo che questa impalcatura sia stabile, Vučić mantiene un forte controllo sui media in Serbia e anche su diversi ambiti della vita pubblica, tentando miseramente di creare una sorta di culto della personalità. Tuttavia, il lato depressivo del suo carattere gli impedisce di avere il successo che probabilmente vorrebbe.

Diciamo che la vita in questo contesto non era proprio rosea. Le cicatrici, lasciate dalle vicende menzionate, sono profonde nella coscienza delle persone, e quindi c’è voluto un po’ di tempo prima che le recenti proteste trovassero una giusta dimensione.

Ma non è la prima volta che io sappia. Negli anni passati ci sono stati anche altri tentativi di proteste…

Ci sono stati diversi grandi movimenti di massa organizzati su questioni solo in apparenza non politiche.

Un esempio sono le proteste ambientaliste relative alla costruzione dell’area del lungofiume di Belgrado, venduta a degli appaltatori di Abu-Dhabi, che circa sette o otto anni fa si sono svolte sotto l’egida dell’organizzazione politica “Ne davimo Beograd” (Non affondiamo Belgrado). Oppure la serie di proteste ambientaliste legate al progetto dell’azienda Rio Tinto (gruppo multinazionale che si occupa di ricerca, estrazione e lavorazione delle risorse minerarie; n.d.r.) di sfruttamento di una importante miniera di litio in Serbia. Si trattava di un protocollo d’intesa particolarmente redditizio firmato dalla Germania e il nostro attuale governo.

Questo aspetto chiarisce ulteriormente la timida reazione dell’Ue riguardo alle proteste in Serbia rispetto a quella nei confronti della Georgia.

Tutto ciò, e non solo, ha prodotto massicce manifestazioni a Belgrado e in altre città serbe nell’ambito del movimento “Srbija protiv nasilja” (Serbia contro la violenza). Alla luce di ciò, credo che ora siamo finalmente riusciti a superare quella linea invisibile oltre la quale le proteste non si spegneranno come nei casi precedenti.

Anche se è proprio questo che il governo si auspica, che le proteste si smorzino, no? Anche i manifestanti georgiani hanno ricevuto lo stesso messaggio, cioè che il governo li sfiancherà.

Sì, questo è l’obiettivo del governo. Stanno cercando di mantenere il controllo della situazione e di non scatenare troppe azioni violente. Non viene schierata troppa polizia nelle strade. Non ci sono scontri con le forze dell’ordine. Si sono verificati episodi di violenza, ma rimangono gestibili e non fanno altro che alimentare ulteriormente la rabbia della gente.

In altri casi le proteste in genere si sarebbero già esaurite. Abbiamo assistito già a movimenti antigovernativi in questo paese, come le enormi proteste studentesche in cui in centinaia di migliaia di persone scesero in strada nell’inverno tra il 1996 e il 1997, ma si esaurirono ugualmente. Quindi credo che ora ci sia il punto di svolta, in cui l’energia della protesta si sta semplicemente alimentando da sola.

Dietro le quinte: gli studenti prendono le redini

Si aspettava che gli studenti avrebbero assunto un ruolo di guida? Da dove pensa traggano questa forza costante? L’energia necessaria non solo per portare avanti le proteste, ma per renderle ancora più imponenti e d’impatto?

Gestiscono queste proteste con una sensibilità complessa e strutturata e vorrei confermare che sì, queste proteste sono iniziate proprio dagli studenti e sì, organizzano il tutto in maniera molto intelligente.

In Serbia esiste una lunga tradizione di movimenti studenteschi e di proteste politiche gestite dagli studenti. Nel 1968 venne indetta la prima protesta studentesca, ai tempi della Jugoslavia socialista. In seguito, nel corso degli anni Novanta, sono esplose una serie di proteste studentesche e si sono evolute nel 1991, 1992, 1996-97 e infine nel 1999-2000. A caratterizzare le proteste passate era un aspetto, facilmente intuibile e causa della loro fine, ovvero la leadership di una o due persone, facilmente individuabili dalle autorità, isolabili dal resto del movimento e maggiormente corruttibili. È in questo modo che inevitabilmente l’intera protesta si sgretola in maniera verticale.

Ma oggi la composizione del movimento è molto più amorfa. Per questo le autorità li percepiscono come un nemico impossibile: la leadership studentesca è sconosciuta, tutto sembra inafferrabile e le autorità non sanno a cosa aggrapparsi. A turno molti giovani parlano pubblicamente a nome degli studenti e si esprimono tutti con eloquenza, sono calmi ma determinati.

Devo dire che è una cosa che mi ha sorpreso, ma le generazioni più anziane sono un po’ sospettose nei confronti delle successive. Questo accade perché non le capiamo, non le comprendiamo fino in fondo, ci appaiono come una sorta di mistero.

Sembra che i giovani siano cresciuti come ardenti nazionalisti su base etnica e conservatori, infervorati dalle narrazioni stataliste e dalle evocazioni romantiche di un passato che non è mai esistito per davvero.

In prima battuta, mi riferisco a questo atteggiamento assolutamente non critico nei confronti dei nostri paesi vicini in termini di crimini di guerra, genocidi e atrocità commesse dalla Serbia durante le guerre negli anni Novanta, che di fatto li sta allontanando da noi. Per quanto riguarda i giovani maschi, purtroppo, come unica sottocultura esistevano gli ultrà del mondo del calcio. Spesso anche loro venivano assoldati dallo Stato per svolgere attività losche e faccende di strada. Queste bande di ragazzi erano anche legate alla mafia e molti di loro hanno continuato su quella strada.

In tutto questo tempo gli studenti che mostrano una sensibilità completamente diversa rispetto ad altri giovani, sono stati semplicemente invisibili. E adesso si ripongono in loro tutte le speranze. Questa volta hanno diffuso un’enorme energia che gli altri hanno colto, iniziando a sentirsi persino eccessivamente ottimisti ed euforici. Per quando mi riguarda, non riesco a provare quel tipo di eccitazione dentro di me, ma capisco da dove viene questo atteggiamento da parte di alcune persone: ora i cittadini serbi hanno finalmente qualcosa a cui aggrapparsi ed è per questo che ripongono questa quantità enorme di aspettative sugli studenti.

Sebbene non abbiano cambiato completamente il nostro punto di vista su ciò che rappresentano i giovani, tuttavia hanno sicuramente contribuito a renderlo maggiormente sfaccettato. Ora capiamo che il concetto di generazione è solo un mito. Ma è ovvio che in ogni generazione esistano diverse opinioni politiche, differenti estrazioni sociali e posizioni nei confronti di qualsiasi argomento. 

Forse il punto è proprio che sono giovani?

È tutta lì la questione: essere giovani ed essere responsabili, dopotutto è una buona combinazione.

Un fronte comune nei Balcani

Mentre la ascolto parlare dei giovani in Serbia, mi vengono in mente i giovani in Georgia, che sono parte attiva nelle nostre proteste. Nonostante ci siano gruppi attivi in diverse università che occupano ininterrottamente le aule dei loro atenei o che rimangono fuori perché la dirigenza dell’università non li lascia entrare negli edifici, nonostante di tanto in tanto riescono a organizzare manifestazioni corpose, tuttavia non sono percepiti come organismo principale delle proteste. Non credo sia colpa di un pregiudizio o di una visione parcellizzata del fenomeno. Alcuni aspetti necessitano di una riflessione critica.
Ecco perché vorrei tornare al mio quesito iniziale: nel caso dei giovani in Serbia, da dove viene questa capacità di gestire la protesta. Lei ha parlato di una grande tradizione di proteste, eppure la tradizione può avere anche un effetto contrario, di distacco. Inoltre, tutte queste esperienze passate non sono proprie di queste giovani, loro non ci si identificano. Per questo ripongo la domanda: la tradizione di proteste cosa ha che fare con il fenomeno attuale?

Certo, non hanno vissuto le proteste del passato in prima persona, ma è impossibile che non ne abbiano sentito parlare. E se volessero approfondire, ci sarebbero numerosissime fonti, libri e documentari. Ed è quello che hanno fatto.

Uno dei testi più importanti che hanno utilizzato e stanno utilizzando, per organizzare e dare forma al movimento, è Blokadna kuharica (Il ricettario delle occupazioni), nato durante le proteste studentesche all’Università di filosofia di Zagabria, in Croazia. D’altra parte, questo mette in luce un’interessante sovrapposizione di influenze a livello regionale. Si tratta di un documento estremamente dettagliato su come organizzare l’occupazione di un’università.

C’è stato un momento in cui le autorità serbe hanno anche cercato di rigirare la frittata, volendo far credere alla società civile che le proteste fossero state manovrate dalle autorità croate nel tentativo di rovesciare il governo serbo. Il che è davvero ridicolo. Se proprio vogliamo dirla tutta, l’occupazione dell’Università di filosofia di Zagabria era nata in opposizione alle autorità croate, pertanto è impossibile che sia stata strumentalizzata da loro. Di certo esiste una solidarietà studentesca e un modo per gli studenti di riconoscersi come giovani universitari, piuttosto che come serbi o croati etnici.

Credo che questo sia un altro risultato estremamente importante per il futuro delle relazioni che creerà un’influenza positiva nella regione. Siamo già in grado di vedere esempi evidenti e significativi di questa influenza: le proteste serbe hanno scatenato diverse iniziative nella regione e nei confronti dei giovani in Serbia c’è solidarietà e ottimismo da parte dei cittadini croati, bosniaci, macedoni, di tutti quei paesi con cui convivevamo prima che la Jugoslavia si dissolvesse completamente. Se si era arrivati a pensare che non saremmo più stati in grado di recuperare le relazioni con gli altri paesi, ora è stato dimostrato che possono essere ripristinate anche in tempi relativamente brevi se si è mossi da buona volontà.

Quindi sostengono le proteste in Serbia e condividono i valori di questa lotta come una causa comune?

Non solo sostengono le proteste in Serbia, ma individuano anche molti parallelismi e comunicano con le rispettive società.

Quando si parla di “regione” in pratica si intende l’ex Jugoslavia. Semplicemente non la chiamiamo più così. All’interno della “regione” esistono in realtà due aree. Se a questo riguardo chiedete a qualcuno a Bruxelles risponderà che da una parte ci sono i Balcani occidentali, ovvero i cinque paesi che non appartengono all’Unione Europea, e dall’altra un’area conosciuta ufficiosamente come Europa sudorientale, che comprende la Croazia e la Slovenia, oggi parte dell’Ue.

Questa linea di demarcazione è di natura puramente amministrativa. Noi non la percepiamo affatto. Credo che per tutti, anche per i nazionalisti più accaniti, questo confine non sia tangibile. Se si viaggia dalla Serbia alla Croazia, dalla Croazia alla Bosnia o dalla Bosnia al Montenegro e così via, non ci si percepisce come all’estero. Capisce cosa voglio dire?

Questa è un’unica area dove ci riconosciamo a vicenda, ci conosciamo molto bene, condividiamo la stessa sensibilità, abbiamo lo stesso temperamento e senso dell’umorismo. Inoltre, molti di noi condividono anche la stessa lingua.

Di certo alcuni aspetti non sono neanche lontanamente paragonabili, come la qualità della vita in Slovenia o la qualità della vita in Kosovo. D’altronde, nessuno ha i motivi necessari per essere completamente soddisfatto nel proprio paese. Per questo, quando le persone vedono la situazione in Serbia, la confrontano con quella che hanno a casa loro e si rendono conto che esistono ancora delle analogie, che si può imparare qualcosa sulla propria società, osservando i processi che si verificano accanto a noi. È davvero qualcosa di cui abbiamo bisogno.

Se si rivolgesse al me scrittore, le direi che questo è esattamente ciò di cui mi occupo da quando ho pubblicato il mio primo libro nel 1994. Se si rivolgesse al me presidente di KROKODIL (o a chiunque ne faccia parte), beh, le farei presente che questo è ciò di cui ci occupiamo da quando abbiamo iniziato nel 2009.

Vogliamo davvero che il dialogo interno nella regione prosegua e si evolva ulteriormente, perché siamo consapevoli di aver bisogno gli uni degli altri se vogliamo creare un futuro dignitoso per i nostri figli. È un processo che rende più complesso il contesto in cui si calano le nostre vite e, a mio avviso, forse si tratta dell’eredità più preziosa delle proteste attuali.

KROKODIL, la società serba e i rapporti con l’esterno

Vladimir, visto che Lei ha accennato a KROKODIL, parliamo del lavoro in questa organizzazione. Avete dovuto adattarvi, anche in minima parte, alle proteste in corso, modificando qualcosa?

No, proseguiamo con le nostre iniziative. Con il tempo e l’esperienza abbiamo imparato che per noi la posizione migliore nella società è in questa zona intermedia tra le attività culturali e letterarie da un lato e l’impegno sociopolitico dall’altro.

Anche se ci sentiamo a disagio in questa società a causa delle pressioni esercitate nei nostri confronti da più fronti, è qui che noi troviamo il nostro posto. Siamo costretti a difenderci legalmente in ben 28 procedimenti cosiddetti SLAPP (ovvero azioni legali volte a bloccare la partecipazione nella vita pubblica e impedire di riferire su questioni di interesse pubblico), intentati contro gli attivisti e i dipendenti dell’associazione. I pretesti dei procedimenti sono le attività che svolgiamo contro i messaggi d’odio di varia natura che tappezzano i muri della città: rimuovere queste porcherie è ormai una nostra missione.

Inoltre, siamo stati oggetto di violenza anche per le iniziative destinate all’Ucraina. Oltre ai diversi programmi volti a fornire sostegno alla popolazione ucraina, abbiamo organizzato per tre volte delle raccolte e ci siamo recati in varie parti del paese devastate dalla guerra per distribuire gli aiuti umanitari. Questo non ci rende apprezzati dalla gran parte della società serba.

Noi abbiamo sempre promosso l’idea di intrattenere rapporti dignitosi e reciprocamente rispettosi con i paesi vicini, oltre che di assumere un atteggiamento di presa di responsabilità nei confronti di tutta la sofferenza che la Serbia ha seminato dopo gli anni Novanta. Finora il paese non ha mai avuto la decenza di affrontarne le conseguenze, analizzarle e assumersene le responsabilità. Quindi, avere a che fare con le autorità serbe, che alimentano questo atteggiamento negazionista, non è facile. E ciò incide anche su situazioni estremamente semplici e banali. Ad esempio, invitare un poeta kosovaro albanese a tenere un incontro a Belgrado potrebbe provocare reazioni molto forti.

Abbiamo affrontato tutto questo e continuiamo a farlo. Il centro KROKODIL viene vandalizzato spesso da delinquenti di destra. A dire il vero, non spesso, ma quotidianamente. È successo anche ieri e siamo dovuti uscire ancora una volta per cancellare quei messaggi d’odio.

Chi sono questi vandali?

Sono giovani, i tipici ultrà con i capelli corti, felpe con il cappuccio, sneakers costose… avranno al massimo 17 anni, o giù di lì. Quando pensi a loro, ti rendi conto come un filo invisibile attraversi la società in maniera verticale e arrivi fino quei piani alti che muovono questi ragazzi. Questo filo può arrivare veramente in alto, probabilmente fino ai vertici politici del paese. C’è da dire che gli insulti e le minacce arrivano anche online; so che di base vengono generati dai bot, ma sono poi le persone reali a ricondividere quei commenti d’odio. Quando vivi queste situazioni, non fai fatica a credere che nel Medioevo esistevano persone che ballavano attorno ai roghi.

Ogni volta raccogliamo tutto il materiale e informiamo la polizia riguardo alle minacce che subiamo. La maggior parte del nostro team è composto da donne e spesso devono patire commenti a sfondo sessuale, minacce di stupro e di morte. Eppure, nonostante il materiale e i filmati forniti, non c’è mai una reale intervento da parte delle forze di polizia. 

Un altro episodio grave si è verificato quando, durante un colloquio con l’Agenzia di intelligence serba (BIA), è stato installato di nascosto uno spyware nel telefono del nostro direttore. Abbiamo così constatato quanto fossero interessati a sorvegliarci e a controllare le nostre chiamate. Questa è la situazione che stiamo vivendo e l’ambiente in cui lavoriamo, dedichiamo molto del nostro tempo alla ricerca di risorse finanziare consistenti per sopravvivere.

Quando si è alle prese con attività non a scopo remunerativo, si capisce come funzionano le SLAPP di cui ho parlato pocanzi, e quale sia il loro reale scopo: ci si ritrova a passare giornate intere nei tribunali davanti ai giudici a dare spiegazioni… è un costo a livello economico (i servizi legali sono cari) e in termini tempo. Tutti i nostri sforzi ci servono per ribadire che esiste un modo più semplice e meno conflittuale per rapportarsi con diverse realtà, con tutte le realtà.

Viviamo in una società che sembra essere solo in grado di produrre nemici.

Se considerassimo la Serbia l’epicentro e procedessimo a cerchi concentrici sempre più ampi, guardandoci intorno tutti risulterebbero essere nostri nemici. L’Europa è nostra nemica. L’intero Occidente è nostro nemico. L’unico legame d’amicizia è con la Russia, o meglio una ridicola illusione che qui viene coltivata con estrema cura. Parlo di illusione perché il modo con cui viene percepita la Russia non ha nulla a che fare con la realtà o con qualsiasi elemento storicamente comprovato in merito alle relazioni tra i due paesi.

Pertanto, è essenziale capire che si tratta di un sogno fittizio, quello di essere sotto una potente ala e di avere una sorte di “protettore”, pronto a salvare i serbi da tutti i loro nemici. I serbi hanno pian piano portato avanti questa illusione a tal punto da distorcere la realtà. E oggi ci ritroviamo a dover combattere questo demone nel nostro Paese.

A proposito della creazione di nemici, per molti georgiani si tratta di un paradigma molto comodo a cui aggrapparsi. Anche in Georgia i nemici possono essere ovunque, in un gruppo sociale o in un altro, tranne che in noi stessi e nelle nostre convinzioni. In queste proteste si assiste un tentativo disperato di liberarsi da quel paradigma e provare a considerare con un occhio critico le decisioni prese o le situazioni affrontate, senza dare necessariamente la colpa di tutto ad altre forze (aldilà del fatto che possano essere realmente nemiche o meno). Lei ha fatto cenno al sistema giudiziario. In Serbia ci si può fidare (a differenza nostra)?

Sa Tamar, noi siamo stati geopoliticamente fortunati. Siamo circondati da paesi membri dell’Ue e dalla Nato. Molte cose terribili che sembrano possibili, e che lo sono in Belarus’ e figurarsi in Russia, non lo sono in Serbia. Ad esempio, c’è stato il caso del giornalista e attivista bielorusso Andrej Gnët, arrestato a Belgrado con un ordine di estradizione in Belarus’. Alla fine, l’ha scampata e ora credo si trovi in Germania. La comunità bielorussa qui in Serbia si è mobilitata per lui.

O basti pensare a una qualsiasi persona in Russia che osi usare la parola “guerra” al posto di “operazione militare speciale”: verrebbe mandata in Siberia per 25 anni a migliaia di chilometri da casa per poi scomparire del tutto. In Serbia invece questo tipo di situazioni vengono considerate illeciti minori. Qui siamo sempre un po’ tragicomici. Quindi può capitare che tu debba pagare una multa di 10mila dinari, pari a circa 80 euro, ma se la paghi entro un mese puoi godere del 50% di sconto. Rispondere a certe accuse funziona un po’ come al supermercato.

È pur vero che, se pensiamo alla Belarus’ e alla Russia, questi tentativi risultano insignificanti. Il vero problema sorge quando ti scagliano contro 30 accuse per “comportamento negligente e sconsiderato” (qualsiasi cosa voglia dire): si è costretti ad occuparsene, buttando via tempo e denaro. Così ti ritrovi in tribunale, davanti ai giudici, e ti rendi conto di come il sistema sia disorganizzato. Finora abbiamo vinto tre cause, che ora il nostro avvocato sta usando come precedente per respingere anche le altre.

Pian piano ci siamo avvicinati al tema della Russia e della percezione della Russia. Mi chiedo se questa protesta affronterà anche la tematica del sentimento che in Serbia si nutre nei confronti della Russia?

Ad un primo sguardo i giovani manifestanti non appaiono né filorussi, né antirussi.

Questa tematica non rientra nel quadro complessivo. Credo che non parlarne sia il modo migliore per evitare discussioni inutili che potrebbero far imboccare una strada sbagliata. Chissà quale sia la loro posizione nei confronti della Russia. Non sembra essere un argomento importante per loro e quindi cessa di esserlo per la società tutta. Questo è un bene. Perché la quantità di tossicità che la Russia ha prodotto in Serbia è di proporzioni immense. Ero assolutamente disgustato, negli ultimi due anni non potevo credere a quello che stavamo vivendo.

La cosa strana è che Lei ha menzionato la comunità russa in Georgia. Anche la Serbia ha accolto circa 300mila cittadini russi, molti dei quali hanno proseguito verso altri paesi europei, nonostante ci sia una consistente comunità russa a Belgrado e in altre città della Serbia. Credo che tutti, comprese le nostre autorità, siano rimasti sorpresi del numero di iniziative anti-Putin nella diaspora russa. Non dico che si tratti di una grande maggioranza, ma è sicuramente un gruppo piuttosto numeroso e politicamente forte. Direi forse circa il 10%. Il resto della diaspora russa è qui per affari e non esprime alcuna posizione politica.

Abbiamo noti canali televisivi controllati dal governo, e in questo senso anche filorussi, che non sono mai riusciti a trovare neanche un solo cittadino russo che partecipasse ai loro stupidi talk-show politici a sostegno di Putin e delle sue politiche. Il che ci rivela sicuramente qualcosa sulla Russia contemporanea e sui suoi cittadini, di cui oggi non si sente parlare dai mass media praticamente da nessuna parte. Fornisce, inoltre, uno spaccato delle opinioni politiche dei cittadini russi in Serbia.

Qui ci sono molti graffiti e murales dedicati alla Russia. C’è stato un momento in cui i muri di Belgrado erano pieni di “Z” scarabocchiate. C’era un murale dedicato a Putin, il cui volto veniva deturpato ogni giorno, poi restaurato da parte di alcuni gruppi, per poi essere deturpato di nuovo. Il punto è che tutti questi murales erano stati realizzati da gruppi serbi di estrema destra, mentre a cancellarli erano diverse organizzazioni di attivisti russi. È una cosa strana, che non ci aspettavamo, e ora diversi cittadini russi, in particolare chi è dichiaratamente attivo in questo tipo di lotta, subiscono la reazione delle autorità serbe. Ci sono diversi avvocati che difendono questi cittadini russi e bielorussi.

Per il resto, questo atteggiamento malato nei confronti della Russia si inserisce in un contesto storico stratificato alle spalle.

Questa nuova ondata di idealizzazione della Russia ha a che fare con il negazionismo della politica degli anni Novanta.

Secondo la narrazione comune serba in quel periodo non è successo nulla di rilevante e che, mentre noi coltivavamo fiorellini, eravamo costretti a sopportare le vessazioni dei nostri perfidi vicini odiatori dei serbi. E poi all’improvviso la malvagia Nato ci ha bombardato senza motivo, e come se non bastasse, ci ha cosparso di uranio impoverito che oggi ci sta facendo morire tutti di cancro. Questa narrazione riduttiva e vittimistica funziona a meraviglia e recita così: “La Nato ci ha bombardato, l’intero Occidente ci ha bombardato, mentre la Russia e la Cina non ci hanno mai bombardato. Fine della storia”.

Se si controllano i media, se ogni giorno si riempie la gente con stronzate di ogni tipo, se ci si assicura di mantenere una società scarsamente istruita con circa il 60% di alfabetizzati, allora si può fare ciò che si vuole. In questo senso il ruolo della stampa è centrale. In Serbia non esiste una testata decente, ogni giorno si inventano nuovi nemici e si schiaffano in prima pagina. Così quando la mattina sui mezzi pubblici le persone vanno a lavoro e leggono questi giornali da quattro soldi, ogni assurdità e banalità scritta lì sopra diventa il loro punto di vista, il modo di vedere le cose, lo strumento per spiegarsi il mondo circostante.

Si tratta certo di manipolazione, ma dall’altra parte cade nell’esagerazione. Insomma, ai serbi non importa molto della Russia. Non siamo per nulla vicini alla Russia. Anche storicamente siamo stati lontani: una parte significativa dell’orgoglio jugoslavo risiede proprio nel no che Tito disse a Stalin nel 1948 e che portò allo scisma interno al blocco comunista. Il nostro vanto per tutto il periodo socialista era proprio il non far più parte del blocco orientale, il perseguimento della nostra strada e la nostra maggiore apertura rispetto agli altri paesi socialisti dell’epoca. Questo si rifletteva anche sull’economia: la vita era migliore, si poteva sviluppare il settore turistico…

Queste sono cose che le persone ricordano ancora. La fascinazione quasi erotica nei confronti della Russia, come ho detto, è più l’infatuazione per quel paese “protettore” da parte di una nazione frustrata che ora è finita su una brutta china e si aggrappa a quello che può.

Ed è qui che entra in scena la Russia, un’entità innegabilmente imponente, che ti lascia pensare di poterti proteggere. Ma poi, alla fine, si compiono delle scelte razionali: se un serbo vuole emigrare per un futuro migliore, di sicuro non opta per Vladivostok o un’altra città russa, ma sceglierà come destinazione Stoccolma o Monaco. Se deve comprarsi delle sneakers, prenderà un paio di Nike e non di un marchio russo. Quindi, dai, di che parliamo…

Non entrerò nel merito di come la Russia viene percepita da chi aspira a entrare in Unione Europea (secondo gli ultimi sondaggi l’80% della popolazione) e da chi protesta in strada contro il governo di Sogno Georgiano.

Non è necessario, perché conosco la risposta dal caso dall’Ucraina. Gli stessi ucraini sono rimasti sconvolti dall’atteggiamento serbo nei confronti della Russia, completamente sconvolti. Credo che in generale l’Ucraina vedesse la Serbia come potenziale amica e noi invece li abbiamo traditi.

La prima volta che noi di KROKODIL ci siamo recati in Ucraina nel giugno del 2022, siamo stati fermati al confine e abbiamo dovuto passare la notte lì. Sono stati gentili con noi, ma ci hanno raccontato come la maggior parte dei cittadini serbi che entra in Ucraina finisce dalla parte dei russi, e hanno registrato un afflusso di mercenari che vanno poi a combattere per la Russia. Devo dire che è una cosa che ti fa stare male.

Poi abbiamo attraversato l’Ucraina da Užhorod e dalla zona occidentale siamo arrivati nei territori orientali di quell’enorme paese per portare personalmente aiuti umanitari al Centro perinatale di Charkiv. Siamo stati fermati in diversi posti di blocco, ma nessuno ci ha riservato un trattamento brusco per via del nostro passaporto serbo. Anche questo ti fa sentire in colpa. Non è giusto. Ma gli ucraini chiedevano: “Perché voi serbi ci state facendo questo?”, e io rispondevo che non lo sapevo. Loro replicavano: “Beh, dovreste essere vicini dei russi per dieci anni. Di certo cambiereste idea”.

Un dettaglio interessante è che molto georgiani si sono offerti volontari per combattere nell’esercito ucraino e arrivano ancora notizie di soldati georgiani che hanno perso la vita lì. Quando si vanno a leggere le loro storie, si scopre che in passato questi soldati hanno combattuto in Abcasia e in Ossezia del sud. Hanno quindi fatto propria l’esperienza di lotta contro la Russia e, mentre combattevano in Ucraina, in realtà è come se stessero combattendo la loro guerra contro la Russia per quei territori georgiani ormai persi.
Volevo però soffermarmi su un altro argomento: le proteste georgiane hanno prodotto una serie di nuovi slogan, grida collettive frutto di un’opinione comune tra i manifestanti. La novità è che si condanna il capitalismo oligarchico, l’autoritarismo, l’ingiustizia. È la prima volta che le persone si riuniscono attorno a un rifiuto radicale di ogni forma di ingiustizia, facendo della giustizia, trasparenza e solidarietà i nostri ideali. Questo mi fa credere che il sentimento antirusso dei manifestanti non derivi da un odio etnico, ma si tratta di una condanna molto dura nei confronti di uno stato occupante e in generale del governo putiniano. Forse i manifestanti in Serbia si renderanno conto che le questioni a cui si oppongono, sono rilevanti in Russia. Ma lì le persone non possono neanche protestare… Credo quindi che la gente se ne renderà conto.

A prescindere dal fatto che si giunga a dalle conclusioni o meno, sono convinto che il progetto russo sarà lasciato morire senza grosse conseguenze qui in Serbia. Tuttavia, abbiamo visto come il governo sia su una sorta di altalena, oscillando tra un atteggiamento pro-russo e un atteggiamento antirusso.

Sono state forniti armi e munizioni all’Ucraina, nonché aiuti umanitari. In diversi forum si sono tenuti una serie di incontri non ufficiali tra Zelens’kyj e Vučić. La first lady ucraina, Olena Zelens’ka, è venuta spesso a trovare Tamara Vučić e insieme hanno aperto un angolo dedicato alla cultura ucraina nella biblioteca comunale di Belgrado. E ci sono diverse cose in corso perché è quello che il nostro governo sa fare meglio: tenere il piede in più scarpe e produrre narrazioni differenti in base agli obiettivi politici.

Ciò che mi preoccupa quando si parla di proteste è il fatto che, come abbiamo detto in precedenza, gli studenti non sembrano avere alcun contatto diretto con la classe politica dirigente. Il che è positivo, ma non strategico.

Conosce l’espressione “madre ebrea”, secondo lo stereotipo iperprotettiva e premurosa? Credo di essere arrivato a quell’età in cui si diventa come una madre ebrea. Tutto sembra fantastico, ma mi sorgono dei dubbi, dal momento che non vedo alcun nesso tra ciò che fanno gli studenti, la maggior parte della società che si unisce a loro nonostante tutte le illusioni e i pregiudizi, e la nostra, tristemente inadeguata, rappresentanza politica.

A dire il vero, non vedo alcuna evoluzione nei nostri rappresentanti politici. Si tratta solo di un gruppo di nazionalisti che si scontra con un altro gruppo di nazionalisti per raggiungere il potere. Non sto banalizzando, è proprio così. Quindi chiunque rappresenterà questo movimento di proteste dovrà superare quella soglia per entrare nelle istituzioni, perché è solo da lì che può e deve avvenire il cambiamento. L’opposizione politica finora è rimasta in silenzio perché spera di capitalizzare sul movimento studentesco, ma a causa della sua ottusità ancora non riesce a capire come farlo.

Credo che uno dei maggiori successi del governo attuale sia quello di essere riuscito ad annientare completamente la vera opposizione.

Insomma, negli anni Novanta, nei momenti peggiori, Milosević si è sempre trovato di fronte a un movimento di opposizione molto forte, che ha continuato a crescere per tutti il decennio contro ogni previsione. È sorprendente come Vučić sia riuscito a trasformare questa opposizione in una forza insignificante, pare irreparabilmente.

L’unica cosa che potrebbe salvarci è che in Serbia succeda qualcosa di simile alla Spagna con il partito Podemos e che il nostro Fronte Verde-Sinistra si decuplichi improvvisamente sull’onda delle proteste studentesche. Tuttavia, mancherà l’infrastruttura di supporto, per cui non so come questa responsabilità politica possa venire implementata. Eppure, questo è l’unico partito che potrebbe davvero seguire le linee stabilite dagli studenti.

Tutti gli altri non sono semplicemente su quella linea. Tutti gli altri sono stati resi inconsistenti. Il Fronte Verde-Sinistra è nato nella fase iniziale di protesta contro la costruzione del lungofiume di Belgrado. Allora si chiamava “Ne davimo Beograd” (Non affondiamo Belgrado) e si trattava di una protesta di natura urbanistica che in realtà era politica. Poi, a poco a poco, già come Fronte Verde-Sinistra, ha svolto un ruolo centrale nelle proteste ambientaliste. Sono profondamente legati al movimento di protesta in Serbia, ma finora non sono cresciuti abbastanza. Ricoprono alcune cariche nei governi locali, nelle città e nei comuni, ma quando si parla di parlamento, non credo che siano in grado di crescere tanto da potersi assumere questa responsabilità.

Ed è qui che la mia paura inizia a superare l’ottimismo, perché non vedo il modo in cui tutto questo si possa trasformare in qualcosa di tangibile. E penso che questo sia ciò che anche il presidente e l’attuale governo auspicano, ossia che qualsiasi cosa faccia la società, non ci sia nessuno che la rappresenti. Fin dall’inizio del parlamentarismo in Serbia ho avuto difficoltà a trovare una rappresentanza adeguata nel mondo politico; quindi, quando votavo, di solito votavo come i francesi, tappandomi il naso, perché per lo più detestavo le politiche delle persone per cui votavo.

Quali sono gli obiettivi massimi che gli studenti vorrebbero raggiungere?

Credo che gli studenti facciano un gioco sottile con le autorità. Non hanno mai chiesto le dimissioni del presidente, né il rovesciamento del sistema politico, nulla di rivoluzionario. Volevano solo giustizia per la tragedia di Novi Sad. Ma il fatto è che se si schiacciasse quel tasto, l’intero castello di carte crollerebbe immediatamente. Per la prima volta, il modo per raggiungere un obiettivo politico è non reclamarlo direttamente, e reputo sia questa la forza principale di queste proteste.

Il movimento di studenti si tiene anche alla larga da alcune tematiche ed è in questo aspetto che individuo la principale differenza tra le proteste georgiane e quelle serbe. Le proteste georgiane sono apertamente pro-Eu e antirusse. Al contrario le proteste serbe in questo contesto non tirano in mezzo la Russia in alcun modo, ma mantengono una posizione ambivalente nei confronti dell’Ue.

Molto probabilmente alcuni manifestanti, o molti di loro, sono anche antieuropeisti. Ma, anche in questo caso, non lo rendono noto.

Vladimir, una dei motivi di questo sentimento antieuropeista non è forse il lunghissimo processo di adesione all’Unione europea? Forse la frustrazione sta proprio lì.

Credo sia stata l’intera vicenda di Rio Tinto ad aver prodotto un’altra ondata di sentimenti antieuropeisti tra i giovani, perché è stato dato loro un altro motivo per credere che siamo percepiti come una colonia. Forse serviamo all’Europa solo per le nostre materie prime: se qualcuno può scavare e usare le nostre risorse a proprio vantaggio, forse in quel caso andiamo bene. È questa la convinzione che serpeggia… Abbiamo visto il flusso e il fermento di iniziative quando il progetto di Rio Tinto è stato fermato dalla rivolta popolare.

All’improvviso i principali politici dell’Ue sono venuti qui a negoziare: erano chiaramente affari a cui tenevano molto. Credo che le proteste ambientaliste abbiano fatto bene a sottolineare come non venissero adottate le misure necessarie per la salvaguardia della natura e dell’ambiente.

Ecco perché queste proteste sono state sostenute non solo da persone antieuropeiste, ma anche da molte persone che in realtà sono pro-Ue, me compreso.

Per i giovani il ricordo è relativamente recente e l’Ue appare come un’entità molto distante, che non ha davvero bisogno di noi e non ci vuole. La politica serba non ha mai fornito chiare garanzie di essere o voler percorrere davvero, in maniera onesta e genuina, la strada verso l’adesione all’Ue e di cercare di aprire capitoli di negoziato. Da entrambe le parti è stato solo un gioco di tattica. E questo è il tipo di atmosfera in cui sono stati cresciuti i giovani. Non c’è da stupirsi che siano confusi da tutta questa storia.

Ora che gli studenti guidano queste proteste, non parlano di Europa, cercano di stare lontano dai partiti politici, il che è comprensibile, ma non particolarmente strategico. Si stanno dissociando anche dall’intera società civile. Beh, l’associazione KROKODIL è una ong e noi siamo in contatto con gli studenti, portiamo loro cibo e bevande, cose di questo tipo, e loro accettano questo aiuto da parte nostra. Ma a livello di dialogo, le ong sono state demonizzate in Serbia fin dall’inizio di questa vicenda. Dall’inizio degli anni Novanta ad oggi, la società civile è stata sistematicamente demonizzata in questo paese. E questo si riflette anche sugli atteggiamenti dei nostri giovani.

Dagli anni Novanta in Georgia esiste un’espressione per definire le ong: i mangiatori di fondi.

Sì, c’è questo mito anche in Serbia, secondo cui la figura satanica di George Soros finanzia le ong locali con ingenti somme di denaro, affinché queste possano minare la politica locale a vantaggio dell’agenda neoliberista e globalista. Manca la consapevolezza di ciò che le ong rappresentano, che deriva anche da anni di propaganda che per troppo tempo hanno condizionato le menti delle persone.

Gli studenti riflettono le tendenze della nostra società; sono cresciuti qui e in modo acritico hanno fatto proprie molte delle schifezze che esistono in questa società. Nel bene e nel male giocano a questo gioco, in cui cercano di evitare necessarie discussioni conflittuali. In realtà tutto dipende da come li guardiamo, da quanto crediamo nelle loro capacità: forse sono mosse sagge o forse, in parte, se ammettessero certe cose non saprebbero affrontarne le conseguenze. Tuttavia, non credo possano evitare determinati argomenti per sempre. Arriverà il momento in cui dovranno mostrare un po’ più di coraggio e battersi per alcuni temi che non sono del tutto popolari tra le opinioni dominanti sociali e politiche di questo paese.


*Laureata in Traduzione specializzata all’Università di Trieste, ha vissuto e lavorato ad Almaty in Kazakhstan. Attualmente insegna italiano a russofoni. Si interessa di attivismo politico, femminismo e dinamiche di repressione del dissenso in Italia e nello spazio postsovietico.

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