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Srebrenica e il genocidio avvenuto in quell’area nel luglio 1995, sono stati il punto finale dell’assedio iniziato tre anni prima esattamente nella primavera del 1992. Trent’anni fa.
Ma ricordiamo in sintesi i fatti: intorno al 9 luglio 1995 l’armata serbo bosniaca attacca la sua Zona Protetta e il territorio circostante. L’offensiva si protrae fino all’11 luglio 1995, giorno in cui le unità serbo bosniache entrano nella cittadina bosniaca. Seguono stupri, mutilazioni, esecuzioni di civili, sepolture di vivi.
Ma il massacro di 8.372 civili di quella metà di luglio del 1995 è solo l’epilogo di una storia iniziata tre anni prima: una storia di Assedio.
Srebrenica avrebbe dovuto essere una lezione per l’Europa e più in generale per tutto il mondo, ma ora siamo certi che ciò non è successo. La lezione della memoria contro i nazionalismi e l’intolleranza, così come l’abbiamo praticata finora è stata fallimentare.
Come ripensare il tutto oggi alla luce di ciò che è accaduto e che sta accadendo? Il conflitto balcanico in sé non si è risolto, si è solo offuscato nel tempo e prosegue a bassa intensità e su diversi piani.
Dal 1998 abito e comunico la memoria di Srebrenica standomene sola su un palco, per un’ora e mezza in un assedio di parole raccontando come Ragion di Stato e Interessi di Politica Internazionale hanno giocato a risiko con la vita di decine di migliaia di persone. Una testimonianza teatrale che ricorda le vittime e punta il dito sui carnefici: Aggressori e Aggrediti.
Sono state oltre 600 le rappresentazioni in Italia e all’estero finora, negli scorsi mesi sono stata nuovamente chiamata da insegnanti di Storia di Istituti secondari a raccontare ai loro allievi questa pagina tra le più oscure del Novecento europeo.
Capisco che ciò che volevo trasmettere è andato a buon segno quando gli studenti e le studentesse a fine replica mi sommergono di domande, per capire meglio, per condividere dubbi, riflessioni. E mi dicono: “Noi non abbiamo assistito ad uno spettacolo, ma abbiamo fatto un’esperienza”.
La stessa fatta da me in questi lunghi anni di frequentazione e sostegno a quel luogo in differenti forme artistiche ed umanitarie.
Un viaggio fatto di incontri speciali e fondanti, che mi hanno portata ad attraversare diversi mondi e che ancora oggi mi spinge ad indagare quei territori, quella complessità della Storia per leggere il nostro presente, scrutare l’orizzonte, per attivare nuove azioni, nuovi progetti, nuove idee.
Una tra le tante: mettere in rete le molteplici iniziative italiane che ruotano intorno a Srebrenica e che facilmente intercetto per farle dialogare tra loro per evitarne la polverizzazione, affinché la fatica di chi abita la memoria si disperda nel vento e in Memoria del sacrificio delle vittime e dei loro famigliari.
Segue un breve estratto del monologo testimonianza ‘A come Srebrenica’ di Biagiarelli / Gonella / Giovanozzi interpretato da Roberta Biagiarelli, regia Simona Gonella; Maestro d’ispirazione Luca Rastello.
Io sono nata in un paese davanti al mare MAGNA! Per davvero! Il mare Adriatico. MAGNA! Da bambina io mangiavo poco MAGNA! e quando mia nonna mi rincorreva col cucchiaio in mano io scappavo fino alla riva. MAGNA!
Lì ero costretta a fermarmi. Dove va tutta quest’acqua? AHH, RCOMINCI CO SA STORIA Cosa c’è sotto? CO’ SO IO, NON SO MANCO NOTA’ Dove finisce il mare? Cosa c’è dall’altra parte? Cosa c’è dall’altra parte? Cosa c’è dall’altra parte? SI TESTONA, TE L’HO DETT UN SAC DE VOLT, CE ‘NA TERA COM LA NOSTRA. E ADE’ MAGNA! Allora io pensavo: proprio davanti a me – oltre il mare – c’è una spiaggia – dove una bambina corre – per sfuggire al pancotto – e alla nonna. Poi sono andata alle Elementari e ho scoperto che la mia terra si chiama Italia ed è fatta a forma di stivale. Le Marche verdi, l’Umbria marrone, il Lazio rosso, il Veneto giallo, la Liguria bordò… Uno stivale vestito d’arlecchino. E dall’altra parte? C’È NA TERA COM LA NOSTRA… Ma allora c’è un altro stivale! E io già me li vedevo uno accanto all’altro un bel paio di stivali. Io mi alzavo anche sulla punta dei piedi per vederli ‘sti due stivali, ma c’era solo il mare, e poi mare, e mare, e una linea blu giù in fondo. Terra? Manco a parlarne. MA CO’ DICI? COM TE VIEN CERTE STORIE?
A come albero, B come barca, C come cane, D come dado, E come elica, F come farfalla, G come gatto, gnomo, ghianda, H come…niente, I come imbuto, L come luna, M come mucca, N come naso, O come orologio, P come Prezzemolina, che era una bambina così povera che per sfamare i suoi fratellini andava a rubare il prezzemolo nell’orto di una strega cattiva, Q come quando la strega morì vissero tutti felici e contenti, R come raccontamene un’altra, S come le sette leghe degli stivali, T come Topolino, U come una, V come volta.
Alla Z come zebra io sapevo leggere. Io le cose le imparo così. Quando ne so abbastanza, riordino tutto con il mio alfabeto.
Per un po’ di tempo me la sono dimenticata quella terra oltre il mare. Io di qua, lei di là. Io di qua. Io di qua. Lei di là.
Ma di qua, sulla bocca di tutti: giornali, televisione, TG, speciali, conferenze, opinionisti, esperti, inviati…bla, bla, bla… Non ci capivo niente. Non ci ho capito niente per un bel po’, parlavano di guerra, questo era chiaro, quella era una storia di guerra, ma per il resto…
Ma cosa c’è dall’altra parte?… CE ‘NA TERA COM LA NOSTRA…
Allora ho letto, ho ascoltato, ho letto ancora, ho domandato…era tutto finito di là – sembrava – però io continuavo a leggere, a chiedere, a domandare…oh! Una malattia: Effetto Bosnia. Quella terra, quella guerra non ti lasciano più. Nomi, documenti, date, immagini. Voci.
Una guerra piena di storie. Voci, nomi, documenti, date, immagini. Città…in mezzo a tante una: esemplare. Una piccola città della Bosnia orientale: Srebrenica. Allora ho fatto come da bambina, ho riordinato tutto con l’alfabeto. Come da bambina, mi sono messa sulla punta dei piedi e ho cercato le parole.
A come
A come Atto di Accusa. Richard J. Goldstone, Procuratore del Tribunale Penale dell’Aja per la ex- Jugoslavia, in virtù dei poteri a lui conferiti dall’articolo 8 dello statuto del tribunale penale per la ex-Jugoslavia Accusa: Ratko Mladic e Radovan Karadzic di Genocidio, Crimini contro l’Umanità, e Violazioni delle Leggi di Guerra.
A come Aggressori, A come Aggrediti. A come Assedio. Come città Assediate. Una città Assediata. Dall’altra parte del mare c’erano città e villaggi che prendevano fuoco e finivano in fumo. Quei nomi, zeppi di consonanti, quelle che se le cerchi sul dizionario non sai mai dove stanno. La Kappa sta vicino alla C, o dopo la I? Bo!
Città come Vukovar, la prima città massacrata, come Mostar, quella con il ponte che il giorno prima c’era e il giorno dopo… Bihac, Gorazde, Zepa, Tuzla, Zone Protette – ricordatelo, Zone protette; Knin, l’esodo, Omarska, Trnopolje, i campi di concentramento – no, non in Germania o in Polonia, dall’altra parte del mare, sei anni fa – e poi, per tre anni, il centro del mondo: Sarajevo.
S come Sarajevo, non potevi non vederla. L’incrocio col tram fermo sui binari, lo spray sul muro “Welcome to hell”, le donne con la borsa della spesa che attraversano la strada correndo piegate su se stesse, la fila del pane, il viale dei cecchini, l’Holiday Inn, la strage del mercato. S come Sarajevo, non potevi non vederla.
Ma Srebrenica? Chi se la ricorda? Una piccola città della Bosnia Orientale, grande come uno spillo, dove per tre anni sono vissute assediate 40.000 persone. Per tre anni. I sopravvissuti raccontano per i primi undici mesi nessuno è venuto a chiederci niente, neanche un giornalista, né Croce Rossa, né ONU, né dalla Bosnia né dal mondo. Nessuno.
Oggi ci sono le testimonianze, le voci, i processi, tuttora in corso. Immagini? Poche. Allora io imparo un nuovo alfabeto: A come Srebrenica.
Paesaggio
Quattro chilometri di strada alberata, castagni dell’India. Ai due lati le case, le botteghe, il municipio; ancora dietro altre file di case: la scuola, il campo di calcio, il bar, la moschea e il minareto, la basilica ortodossa, la chiesa cattolica. Per quattrocento metri.
A Srebrenica non c’è nemmeno una piazza. Papà mi manca un centro! Te lo do io il centro! In miniera. Srebrenica se la traduci in italiano significa Piccola città dell’argento. Allora, è l’Argentina? Ma non si balla il tango! Città di minatori! Gente dura, solida: quelli non li smuove nessuno. Città da quattromila abitanti dove tutti conoscono tutti, e tutto di tutti. Anche di quelli dei paesi intorno: Njemic, Kamenolom, Ljubovia, Vrhpolje, Cerska, Konjevic Polje, Bratunac. Bratunac. B come Bratunac, perché per raccontarvi di Srebrenica devo prima passare da Bratunac.
Scena 1. Vicoli di Bratunac. Esterno. Giorno
Una macchina percorre a tutta velocità i vicoli del paese. Scene di panico al suo passaggio. Un vecchio gli lancia dietro un’imprecazione.
(vecchio) Che tu possa far festa sulla tomba di tuo padre!
Scena 2. Piazza di Bratunac. Est. Giorno.
La macchina frena bruscamente e sbanda per un buon tratto. Un uomo scende dal sedile di guida e si precipita ad aprire lo sportello posteriore. Fa scendere un uomo completamente coperto di sangue. Ha tagli su tutto il corpo, sulle braccia, sul collo, sulle orecchie, sul naso sulle gambe. Non si regge in piedi. Fa un passo, due. Barcolla. Gli occhi di quelli che si trovano nella piazza sono incollati su di lui. L’uomo fa ancora un altro passo. Dalla macchina parte una raffica di kalasnikov. L’uomo cade a terra. La macchina sgomma, fa un mezzo giro e riparte.
Era la primavera del 1992. Quelli che avevano sparato erano serbi di Bratunac, l’uomo coperto di sangue era un musulmano che veniva da un altro villaggio. Serbi di Bratunac? Che è in Bosnia, il musulmano era di un altro villaggio, ma sempre della Bosnia. Cosa facevano quelli, si ammazzavano tra loro? Tra vicini di casa?
Il vero problema quando è cominciata la guerra era capire chi ammazzava chi. Non era chiaro. Non era per niente chiaro. E neanche a Bratunac nel 1992 era chiaro perché quelli avevano preso un musulmano e lo avevano ammazzato così nella piazza del paese. Non era per niente chiaro. Oddio, se ne parlava, sottovoce, ma se ne parlava. Chiacchiere.