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Alla caduta dei regimi socialisti in Europa, molti paesi si sono trovati a fare i conti con cosa fare dell’eredità del passato, se preservarla o cancellarla dalla memoria collettiva, a cominciare dai monumenti.
Dopo il 1989-1991 la questione dei monumenti che abitavano le piazze delle città negli anni del socialismo divenne un vero e proprio problema: un po’ come dopo le rivoluzioni, la maggior parte delle statue furono rimosse dai luoghi pubblici e stoccate in depositi e altri dimenticatoi o, nei casi più drastici nonché più simbolici, abbattute.
Alcuni paesi hanno deciso di “esiliarle” in musei o aree dedicate. È questo il caso dei parchi che ospitano i monumenti socialisti: in Europa ce n’è più di uno, come quelli in Lituania, Ungheria e Bulgaria.
Il parco di Grūtas in Lituania
Il parco di Grūtas (Grūto Parkas) è uno dei più grandi musei di sculture ideologiche a cielo aperto: l’area conta oggi un centinaio di statue di icone socialiste come Lenin, Stalin, Marx ed Engels, con le quali (e, col benestare dello staff, sulle quali) i visitatori possono posare.
Il parco nasce da una gara lanciata nel 1998 dal Ministero della Cultura della Lituania per recuperare e preservare l’eredità iconografica del periodo sovietico. Ad aggiudicarsi il progetto non fu un esperto di storia o di beni culturali ma un imprenditore, Viliumas Malinauskas, proprietario di un’azienda che si occupava della lavorazione di funghi (cosa che peraltro gli valse il soprannome di “re dei funghi”), frutti di bosco e lumache. Negli anni successivi, molte statue vennero rilocate dalle varie città lituane verso il terreno di Malinauskas nell’insediamento di Grūtas, frazione di 140 abitanti del comune di Druskininkai nel sud-est della Lituania, fino alla sua inaugurazione avvenuta il primo di aprile del 2001.
La scelta della data non fu certo casuale, a suggerire la volontà di schernire il passato anziché commemorarlo, ma non tutti trovarono divertente l’idea di un parco di sculture sovietiche: inizialmente le reazioni furono spesso negative e spinte dalla preoccupazione che si trattasse di un tentativo di commemorare l’epoca sovietica o di ridicolizzare la sofferenza dei lituani sotto l’Urss trasformando un passato doloroso in show business (soprattutto perché nell’area del parco si trovano anche un ristorante che serve piatti dai nomi sovietici, un parco giochi e uno zoo). Addirittura un gruppo di ex prigionieri politici e partigiani che negli anni Quaranta combatterono l’Armata Rossa nelle foreste di Grūtas organizzò uno sciopero della fame in protesta al progetto. Malinauskas si oppose sempre alle accuse affermando che per la prima volta in oltre 50 anni ai lituani viene offerta “l’opportunità di guardare la propria storia dal proprio punto di vista, e non da quello russo o straniero” e probabilmente i lituani apprezzarono la cosa: a dispetto delle critiche, un sondaggio del governo lituano rivelò che il 70% della popolazione lituana era favorevole al progetto.
Un cartello stradale di “via Lenin” a Grūtas (foto di Giulia Pilia)
Nonostante le intenzioni di Malinauskas, sicuramente l’atteggiamento “capitalistico” verso il patrimonio sovietico lituano si porta dietro una certa ambiguità. Tuttavia questo progetto non può essere considerato rappresentativo delle politiche della memoria del paese baltico: il parco è infatti di proprietà della famiglia di Malinauskas e, anche se le statue sono patrimonio pubblico, si tratta comunque di un’impresa privata (interessante poi notare che la gara fu vinta anche grazie al fatto che il progetto non richiedeva fondi pubblici, al contrario delle altre tre proposte presentate). Inoltre – e forse non troppo casualmente – seppur nato con l’intento di non dimenticare la storia e di dare consapevolezza del proprio passato, il parco ha un target di visitatori più internazionale che domestico.
Il progetto ha comunque dato una certa visibilità a Malinauskas che nel 2001 si è aggiudicato il premio Ig Nobel per la pace, riconoscimento satirico organizzato dal giornale di humor scientifico Annals of Improbable Research e che viene assegnato ogni anno ad autori di ricerche, scoperte e invenzioni improbabili o di dubbia utilità, che “fanno prima ridere e poi riflettere”.
Altri parchi, altre storie di monumenti socialisti
Il parco lituano non è l’unico sul continente: il primo museo delle statue socialiste, nonché quello col nome più evocativo, è il Memento a Budapest (in ungherese Szoborpark Múzeum) creato nel 1993 nel contesto di una più ampia campagna di decomunistizzazione e privatizzazione. In questo senso l’approccio fu chiaramente quello di mostrare la storia alle generazioni future affinché non si ripeta (il sito del museo tiene a specificare che il parco non è “un museo sul Comunismo, ma sulla caduta del Comunismo!”). Anche qui non manca un tocco di ironia: uno dei punti forti del parco è infatti una replica a grandezza naturale degli stivali di Stalin provenienti da una statua abbattuta durante la rivoluzione del 1956 ma conservata in ricordo – ovviamente sarcastico – del dittatore.
Così come il caso dell’omologo lituano, col passare degli anni e con l’aumentare dei visitatori più giovani, che quindi non hanno molti ricordi da associare agli ospiti fissi del museo, il sito ha iniziato ad attrarre un numero sempre maggiore di visitatori internazionali.
Il giardino del Museo dell’Arte Socialista di Sofia (foto di Gianni Galleri)
La Bulgaria invece ha aspettato oltre vent’anni prima di inaugurare un museo dedicato al periodo socialista, proprio a causa della difficoltà di trovare un consenso su cosa fare del proprio passato recente: il Museo dell’Arte Socialista, nel cui giardino si trovano tutt’ora le statue della discordia (collocate peraltro senza un chiaro criterio logico), venne inaugurato a settembre del 2011 e annunciato da Veždi Rašidov che, oltre a essere l’allora Ministro della Cultura, è anche uno scultore affermato.
Quello che distingue questo sito dagli altri è sicuramente l’approccio che lo configura come museo d’arte e non museo storico. Tra le oltre 70 statue non ci sono solo quelle degli esponenti politici del periodo come gli evergreen Lenin e Georgi Dimitrov o quelle dedicate a lavoratori e agricoltori, ma anche una che rappresenta la danza popolare bulgara răčenica e un’altra che rappresenta un requiem.
Un altro “museo” delle statue sovietiche si trova in Crimea, ma purtroppo è difficilmente visitabile, ovviamente non soltanto perché si trova a dodici metri di profondità sul fondo del Mar Nero a cento metri dalla costa di capo Tarchankut.
Il luogo, conosciuto anche come il “vicolo dei leader”, è stato creato nel 1992 dal sub Volodymyr Broumens’kyj, nativo di Donec’k, poco dopo la caduta (o meglio affondamento?) dell’Unione sovietica. Questo pezzo di fondale del Mar Nero ospita più di 50 sculture di leader e figure di spicco del periodo sovietico, oltre a repliche della torre Eiffel e del Tower Bridge di Londra, che giacciono pacificamente accanto ai busti di Lenin e Stalin.
Il rapporto con la memoria
Pur testimoni di approcci diversi, più o meno didattici o commerciali, i parchi delle sculture sovietiche nascono dallo stesso bisogno: rilocare le statue significa alterarne il significato inserendole in un nuovo contesto, ponendo quindi una distanza sia temporale che fisica (soprattutto nel caso di Grūtas che si trova a cento chilometri dalla capitale lituana) da un passato scomodo, quasi a farne un cimitero per ricordare qualcosa che è stato seppellito e che fa parte del passato a tempo indeterminato.
Questi luoghi hanno sempre aperto il dibattito tra il ricordo – inteso come conoscenza – e la cancellazione di eredità contestate, a testimonianza di come il rapporto con la memoria di un paese possa essere complicato anche dopo anni dall’inizio di un processo di autodeterminazione nazionale.
Laureata in Scienze Politiche (Studi sull’Est Europa) e in Governance locale all’Università di Bologna, ha studiato e lavorato in Lituania, Slovenia e Ucraina, dove si è occupata di sicurezza e reti energetiche, comunità locali e IDP. Lavora nel campo dell’integrazione europea, sviluppo locale e osservazione elettorale.