Dopo alcuni giorni di tregua, brucia ancora il Carso, a cui, nonostante la lacerazione emotiva che sento, mi sembra inopportuno giustapporre l’aggettivo possessivo “mio”, considerando quanto il più grande rigetto da me provato al momento sia proprio quello verso una qualsiasi riduzione egotistica della vastità e complessità di “appartenenti” a questo altopiano.
Allo stesso tempo, vorrei poter affermare di essere fra coloro che vivono da sempre un Carso transfrontaliero, la cui vita è ed è stata segnata dalle esperienze di un continuum eco-linguistico-culturale al confine orientale, ma purtroppo non è così.
Le persone che hanno davvero potuto beneficiare appieno di tale “visione binoculare” di relazionalità a cavallo fra due mondi, sono in realtà ben poche in questa regione di confine, e soprattutto sono coloro che hanno sofferto ben più di me la sua separazione artificiale fra due entità statali, ovvero i membri della minoranza slovena in Italia e gli abitanti dei villaggi posti lungo la frontiera fra Jugoslavia e Italia in passato.
Eppure, non riesco a darmi pace e ad accettare come, in seguito all’ingresso della Slovenia in Unione europea nel 2004 e la sua successiva entrata nell’area Schengen nel 2007, a dispetto dell’omnipervasiva retorica buonista della fratellanza e dell’inclusione nella grande famiglia europea, lo stato-nazione si riveli ancora come l’unica, ineluttabile realtà con cui confrontarci per poter riuscire a gestire le emergenze ai nostri confini e non come un meccanismo adolescenziale che ci blocca nel suo anacronismo di relazioni troncate e di mancata intelligenza ecologica in senso lato.
Perché non siamo riusciti a creare una forma alternativa di coesistenza territoriale, di comunicazione e solidarietà basata sulla vera conoscenza reciproca? Perché la lingua e cultura slovene vengono ancora messe ai margini ed escluse dal sistema d’insegnamento nelle scuole italiane in questa regione autonoma che si dipinge come culla della multiculturalità storica, vendendosi abilmente ai turisti stranieri come fertile terra di passaggio?
Nostalgia di un passato imperiale sovranazionale mai vissuto e banalmente idealizzato? Non necessariamente.
Lo stato-nazione si serve di simboli e narrazioni ben distanti dalle vite e culture di ibridazioni di coloro che abitano le frontiere rese margini dalle capitali ed utilizzate solo come terreno per veicolare i propri simboli centralizzatori di fronte all’“Altro”. Questi incendi dimostrano l’inadeguatezza di un modello statale basato sugli elementi di omogeneità linguistica e culturale imposti dal concetto limitante di nazione che ci allontanano dal nostro vicino naturale ed umano più immediato, rendendoci parte di una logica del tutto estranea alla vita fluida della frontiera. Ed infatti scoppiano innumerevoli gli ordigni della Prima guerra mondiale, quasi un monito alla mancata elaborazione consapevole di tali ferite, che ci riporta proprio lì dove la follia dello stato-nazione è iniziata, dopo il collasso degli imperi multinazionali.
I quasi 5.000 ettari di Carso andati in fumo complessivamente fra Italia e Slovenia avrebbero potuto essere almeno in parte evitati attraverso l’applicazione di modelli di prevenzione “proattiva” derivati da una sapienza locale, trans-frontaliera e collaborativa in cui un ruolo fondamentale viene svolto proprio da attori privi della nozione di confine, ovvero animali da pascolo (soprattutto ovini ed equini). Queste pratiche, purtroppo, non vengono affatto ritenute valide o degne di sufficiente supporto dalle autorità statali, che preferiscono investire le loro risorse nel tentare di riparare i danni piuttosto che prevenirli.
Le conseguenze nefaste degli incendi e della persistenza dello stato-nazione nelle terre di confine sono davanti a noi: possiamo decidere di guardarle in faccia oppure no. Ma forse per me è più facile dissezionare l’entità politica astratta della capitale che affrontare materialmente con i sensi la mia più grande paura al momento: quella di trovarmi in preda alla solastalgia, – parola che tutti noi ormai purtroppo dovremmo imparare a pronunciare e abituarci a vivere – un termine coniato circa vent’anni fa per descrivere la sensazione di dolore e tristezza nel vedere il paesaggio naturale di appartenenza irrimediabilmente mutato da una devastazione ambientale, il sentimento di nostalgia verso la propria casa quando si è ancora a casa, ma quella casa è stata distrutta.
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