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di Maria Chiara Franceschelli*, pubblicato originariamente sulla rivista “Il Mulino”
Nel silenzio generale, domenica 11 settembre quasi 40 milioni di aventi diritto andranno al voto in Russia. Sarà infatti giorno di elezioni regionali: verranno eletti i governatori di quattordici soggetti federali (le Repubbliche di Buriazia, Carelia, Marij El, Udmurzia e le oblast’ di Jaroslavl’, Kaliningrad, Kirov, Novgorod, Rjazan’, Saratov, Sverdlovsk, Tambov, Tomsk e Vladimir), i deputati di sei Parlamenti regionali e le Assemblee legislative municipali di dodici capoluoghi di regione e della città metropolitana di Mosca.
La guerra in Ucraina ha naturalmente ridotto la risonanza mediatica dell’evento; e a dire il vero le elezioni regionali hanno un peso politico molto limitato dalla progressiva verticalizzazione della piramide del potere, che ha impedito alle tornate elettorali precedenti di diventare reale terreno di scontro democratico, di alterazione degli equilibri politici e di redistribuzione del potere.
L’irrigidimento nei confronti delle autonomie regionali iniziò nel 2000, con l’ascesa di Putin al potere. In nome dell’«unificazione» della giovane e ancora incerta Federazione russa sotto un comando stabile, dopo i turbolenti anni Novanta, il nuovo presidente incrementò il controllo sui governi regionali, in particolare nel secondo mandato 2004-2008. Nel 2005 venne revocata l’elezione popolare dei governatori regionali, e sostituita dalla nomina diretta da parte del presidente. Questa riforma venne legittimata davanti all’elettorato con una narrativa securitaria: dopo la strage di Beslan del settembre 2004, in cui persero la vita 334 persone e ne furono ferite almeno 730, il Cremlino insistette sulla necessità di un maggiore controllo centrale sulle regioni allo scopo di evitare la deriva terroristica. Nello stesso anno, i governatori vennero estromessi dal Consiglio federale, la Camera alta dell’Assemblea federale della Russia. Vennero infine aboliti i collegi uninominali a livello federale per le elezioni della Duma: la Russia passò a un sistema proporzionale «puro», che dipendeva totalmente dalle liste di partito, rafforzando il ruolo dei partiti tra il consenso della nuova élite e l’ascesa di Russia unita, in nome della «stabilità».
Nel 2012, Putin tornò alla presidenza dopo la breve «parentesi Medvedev», grazie anche a una tornata elettorale densa di brogli. Ad accoglierlo trovò un sensibile calo del favore dell’opinione pubblica. Per mesi, la Russia fu agitata da grandi manifestazioni di piazza che chiedevano elezioni libere e protestavano contro una manovra evidentemente antidemocratica. Le proteste furono irrimediabilmente represse. Per placare l’opinione pubblica, però, il presidente non ricorse solo alle forze dell’ordine: prese anche diversi provvedimenti legislativi, che in alcuni casi intendevano dare parvenza di una maggiore apertura. Tra questi vi furono la reintroduzione dei collegi uninominali (poi però sapientemente dominati dal clientelismo di Russia unita) e dell’elezione popolare diretta dei governatori regionali. Si tornò, dunque, a un sistema elettorale misto, con metà dei seggi allocati tramite sistema proporzionale a liste, e l’altra metà tramite sistema maggioritario e collegi uninominali.
A controbilanciare queste manovre, tuttavia, furono poste diverse limitazioni alle candidature alle regionali. La più significativa è il cosiddetto «filtro municipale», che impone a candidati e candidate il sostegno di almeno il 5-10% dei deputati presenti nelle varie municipalità, a seconda della municipalità di riferimento. Ogni deputato può sostenere un solo potenziale candidato. Per confermare le candidature indipendenti (quindi non appartenenti a un partito) al governatorato regionale sono inoltre necessarie le firme di almeno lo 0,5% degli aventi diritto nella circoscrizione di riferimento. Una percentuale ancora più difficile da raggiungere, se si considerano le frequenti intimidazioni da parte delle autorità a candidati e bacini di supporto. A ciò vanno aggiunte dinamiche informali, per cui in varie tornate elettorali diversi candidati di opposizione hanno ritirato la propria candidatura in seguito a pressioni. Si tratta, dunque, di una serie di misure formali e informali molto efficaci nel prevenire la comparsa di candidature indesiderate nella corsa alle elezioni.
A dicembre 2021, una nuova legge ha eliminato la parte proporzionale del sistema elettorale misto per le elezioni legislative regionali, che è diventato dunque un maggioritario uninominale secco. Ciò implica una serie di conseguenze. La più rilevante è la perdita del privilegio relativo alla nomina dei candidati da parte dei partiti, e di conseguenza molta della loro importanza nel sistema politico. Le regioni non sono più obbligate a eleggere parte dei loro Parlamenti sulla base delle liste dei partiti. Nel contesto delle elezioni regionali, però, ciò rappresenta un ulteriore, grande ostacolo ai candidati indipendenti e di opposizione, a cui diventa sostanzialmente impossibile presentarsi alle elezioni senza il supporto politico della maggioranza. Lo scopo di queste manovre è, nuovamente, proteggere le elezioni da potenziali candidature scomode. Nel panorama elettorale degli ultimi anni, a questa riforma va inoltre affiancato il voto elettronico, che nelle elezioni legislative, regionali e amministrative del 2021 ha consentito una nuova batteria di brogli elettorali a favore di Russia unita.
Nemmeno la strategia del «voto intelligente» lanciata da Aleksej Naval’nij per contrastare l’egemonia di Russia unita, che nelle varie elezioni degli ultimi anni aveva portato qualche buon risultato, sembra avere molte possibilità quest’anno. Naval’nij è in prigione, e il suo Fondo per la lotta contro la corruzione (Fbk) è rimasto atomizzato e fortemente indebolito in seguito all’arresto del leader, alla persecuzione politica di collaboratrici e collaboratori e all’assegnazione dello status legale di agente straniero: ben poco margine di azione è rimasto alle iniziative in supporto di candidati indipendenti e di opposizione. Al contrario, le autorità federali hanno avviato almeno nove procedimenti penali e cinquantuno indagini nei confronti di candidati indipendenti e di opposizione intenzionati a presentarsi alle elezioni del prossimo settembre.
Se, da un lato, questa ulteriore stretta sulle regioni è coerente con il progressivo inasprimento del regime di Putin, dall’altro, queste manovre acquisiscono un significato più specifico nel contesto della guerra della Russia in Ucraina. Le elezioni regionali, sia legislative sia governative, hanno ora scarso peso politico proprio per via delle limitazioni che le rendono facilmente manipolabili dal Cremlino: difficilmente l’opposizione riesce a raggiungere la competizione elettorale. Quest’anno, inoltre, le regioni al voto sono circoscrizioni «tranquille» per il Cremlino, che tradizionalmente, perlopiù, non hanno presentato grandi sfide allo status quo – eccezion fatta per il governatorato di Sverdlovsk, il cui margine di imprevedibilità è però limitato: alle elezioni legislative del 2021, Russia unita ha conquistato ben 33 seggi su 50, blindando così il processo decisionale anche qualora candidature inaspettate riuscissero a superare i numerosi ostacoli.
Nonostante queste garanzie, era stata avanzata la proposta di sospendere le elezioni dei governatori e di «adattare il processo elettorale» alle circostanze, al fine di assicurare maggiore stabilità, in un momento di potenziale crisi interna dovuta alle sanzioni occidentali alla Russia, alle ingenti spese militari e alle perdite. Questo «adattamento» alludeva alla nomina dei governatori da parte dell’esecutivo federale o a qualche analoga forma di cooptazione, che tuttavia non vi è stata: il sistema elettorale per i governatorati non è stato modificato. Ciò significa che il Cremlino percepisce questi processi elettorali come sostanzialmente ininfluenti sullo status quo.
I risultati delle elezioni di quest’anno avranno dunque un valore strumentale volto a riconfermare il supporto dell’elettorato al Cremlino, e quindi la sua legittimità. Inoltre, in un Paese in cui le relazioni centro-periferia sono estremamente controverse, la vittoria dei candidati pro-Cremlino nei territori periferici è essenziale per confermare il supporto delle regioni al governo centrale. Nell’attuale contesto bellico, dimostrare almeno formalmente il supporto all’unità nazionale davanti alla comunità internazionale è cruciale. Non si tratta però solo di parvenza: l’insediamento di governatori pro-Cremlino contribuirà concretamente a rinforzare il controllo del governo federale sulle regioni. Un maggiore controllo sociale è utile al contenimento del malcontento in vista dell’inasprimento delle conseguenze della guerra sul popolo russo, in particolare quelle economiche: aumento dei tassi di inflazione e disoccupazione, del costo della vita e dei servizi; sensibile diminuzione dell’offerta dei beni di consumo (e spesso anche dei beni di prima necessità, come i medicinali), serpeggiante preoccupazione relativa alla mobilitazione forzata verso il fronte ucraino. Un meccanismo della democrazia rappresentativa, dunque, spogliato ancora una volta del ruolo di rappresentanza popolare e del dovere di responsabilità davanti al popolo, per diventare strumento di controllo e fondamentale ingranaggio della macchina verticistica del Cremlino.
*Maria Chiara Franceschelli è dottoranda in Scienza politica e sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si occupa di movimenti sociali e società civile nello spazio post-sovietico. Fa parte della redazione de «Gli Asini» e delle Edizioni dell’Asino e collabora con diverse testate, riviste e istituti di ricerca.