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Doveva essere l’ennesimo trionfo dei partiti etnonazionalisti in Bosnia ed Erzegovina. E invece qualcosa è andato storto per loro. Corruzione, disoccupazione, povertà, retorica conflittuale sembrano aver pesato come non mai nelle elezioni di domenica scorsa.
La chiusura delle urne e l’inizio del conteggio dei voti ha portato una leggera brezza di novità nel paese. Niente di rivoluzionario, nessun cambio di rotta radicale e definitivo ma sicuramente un passo avanti verso il superamento di un sistema etnocentrico e nazionalista che solo negli ultimi anni, quasi tre decenni dopo la fine della guerra nel 1995, sembra mostrare le prime significative crepe. Sempre che la comunità internazionale sia d’accordo.
I veri sconfitti di queste elezioni sono senza dubbio il Partito d’Azione Democratica (SDA) dei bosniaci musulmani e il suo leader Bakir Izetbegović. Per la prima volta dal 1995 infatti, l’SDA è stato sconfitto alle elezioni presidenziali del membro bosgnacco della presidenza tripartita. Non era mai accaduto che un suo candidato, sempre un rappresentante della famiglia Izetbegović o del suo “cerchio magico”, venisse sconfitto da uno del Partito Social Democratico (SDP). A riuscire nell’impresa è stato Denis Bečirovič.
Forse non è un caso che il futuro membro bosgnacco della presidenza federale venga da Tuzla, considerata la città più a sinistra e meno nazionalista di tutta la Bosnia ed Erzegovina. Bečirovič, professore di Storia contemporanea dei paesi dell’Europa sudorientale, ha ottenuto il 57,2% dei voti contro il 37,6% del suo rivale Bakir Izetbegović e il 5,2% del terzo candidato, Mirsad Hadžikadić.
Bečirovič si è sempre contraddistinto per le sue posizioni unitarie, contrarie a qualsiasi forma di etnocentrismo e di separatismo. E in Bosnia, un paese diviso a livello istituzionale e sociale dove le spinte secessioniste e l’etnocrazia rischiano costantemente di ricreare una spirale di violenza, non è poco. Bečirovič è stato sostenuto da ben 11 partiti di opposizione, in una versione bosniaca di “campo largo” per liberarsi del dominio dell’SDA, partito nazionalista di ispirazione islamica sostenuto anche dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
…e quelli croati
Chi viene nuovamente sconfitto è il partito dell’Unione Democratica Croata di Bosnia (HDZ-BIH). Come già accaduto nel 2018 il candidato alla presidenza del partito nazionalista dei croato-bosniaci ha perso la competizione contro Zeljko Komšić, leader del Fronte Democratico, partito multietnico di ispirazione socialdemocratica. Komšić ha ottenuto il 53,6% dei voti contro il 46,4% di Borjana Krišto.
Proprio l’elezione del membro croato-bosniaco è stata in questi anni al centro di un duro scontro tra croati e bosgnacchi. Secondo il partito nazionalista croato infatti, ai bosgnacchi viene data la possibilità di incidere in maniera determinante nell’elezione del membro della presidenza influenzando così il voto e rendendo molto complicata una vittoria dell’HDZ-BIH, sostenitore di spinte secessioniste volte a una riunificazione con la Croazia delle aree abitate prevalentemente dai croati-bosniaci. E proprio questo tema è stato al centro dei contestati tentativi, falliti, di riforma elettorale dell’Alto Rappresentante Internazionale (OHR) Christian Schmidt.
Vittoria invece per i nazionalisti serbi
Chi può cantare vittoria è invece il Partito dei Social Democratici Indipendenti (SNSD) della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia. Di socialdemocratico però, il partito ha dimostrato di avere ben poco rappresentando la più forte forza secessionista del paese, sostenuta apertamente anche dal presidente russo Vladimir Putin. Il ruolo di membro serbo della presidenza sarà ricoperto Željka Cvijanović, prima donna in assoluto a essere eletta alla presidenza tripartita. Cvijanović è una fedele sostenitrice di Milorad Dodik, ex presidente federale e adesso eletto per la terza volta presidente della Republika Srpska.
Particolarmente critica la sua elezione. Subito dopo la chiusura delle urne infatti, la sua rivale, altrettanto nazionalista e filo-serba, Jelena Trivić del Partito del Progresso Democratico (PDP) si era autoproclamata vincitrice dando il via persino ai festeggiamenti di strada. Lo spoglio dei voti reali però ha capovolto il pronostico dando la vittoria a Dodik per oltre 28mila voti (48,3% vs 43,2%).
Particolarmente significativo il voto a Banja Luka, capitale della Republika Srpska, dove la Trivić ha battuto 52 a 42 Dodik.
La grave intromissione occidentale
La vera grande sorpresa di queste elezioni, però, è stata la più che discutibile decisione dell’Alto Rappresentante Christian Schmidt di imporre la riforma della legge elettorale subito dopo la chiusura delle urne. La figura dell’Alto Rappresentante è stata istituita dagli accordi di Dayton per supervisionare il rispetto degli accordi di pace. Ad esso sono riconosciuti i cosiddetti “Poteri di Bonn” che permettono di dare esecuzione a decisioni vincolanti qualora le amministrazioni locali si dimostrassero incapaci o restie ad agire. Questo è stato il caso della riforma elettorale, da decenni al centro di un acceso dibattito senza che le varie componenti del governo bosniaco sia riuscite mai a trovare una soluzione adeguata alle critiche e alle condanne sul carattere discriminatorio dell’attuale legge ricevute a partire dal 2009 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ieri sera, come detto, Schmidt ha deciso di imporre delle modifiche con effetto immediato per quanto riguarda l’elezione indiretta della Camera dei Popoli. Al di là del contenuto specifico delle modifiche, che andrebbero a favorire i nazionalisti croati, a creare polemiche sono stati soprattutto due elementi: la tempistica e l’opportunità di questa scelta. È evidente che modificare le regole del gioco, anche se “secondarie”, un momento dopo che il gioco si è concluso è qualcosa di inopportuno, fuori luogo e persino pericoloso per la tenuta stessa delle istituzioni. Imporre nuove regole di funzionamento delle istituzioni proprio mentre i popoli bosniaci esprimevano il loro voto sul rinnovo di quelle istituzioni è una scelta politica che scredita in maniera rilevante sia il meccanismo democratico del voto sia la legittimità delle stesse istituzioni. Il loro rinnovo inoltre, con i nuovi equilibri in campo, avrebbe potuto favorire, almeno sulla carta, il raggiungimento di un accordo. E invece l’Alto Rappresentante non ha neppure aspettato di vedere i risultati delle votazioni per imporre la propria volontà.
Un’invasione di campo considerata da molti analisti eccessiva e antidemocratica, come sostenuto ad esempio su Twitter da Florian Bieber, Direttore del Centro studi sull’Europa sudorientale dell’Università di Graz, secondo cui “decidere su tali cambiamenti in queste circostanze sarebbe liquidato come abuso autoritario in qualsiasi altro paese, non è diverso in Bosnia. Con questa decisione sembra che l’Alto Rappresentante voglia dimostrare quanto sia antidemocratica e illegittima l’istituzione”.
Persino la delegazione dell’Ue in Bosnia ha preso le distanze in un comunicato stampa in cui sottolinea che si è trattato di “una decisione del solo Alto rappresentante. I poteri esecutivi dovrebbero essere utilizzati esclusivamente come misura di ultima istanza contro atti illegittimi irreparabili”. Plauso è invece arrivato dall’ambasciata degli Stati Uniti che ha parlato di “azione urgente e necessaria” volta a “rafforzare la stabilità e la funzionalità della Bosnia-Erzegovina”.
In ogni caso, i nuovi rappresentanti dovranno fare i conti con il forte protagonismo dell’Alto Rappresentante che, al contrario di quanto ci si aspetterebbe, potrebbe anche rallentare il processo di democratizzazione e l’indipendenza politica del paese, imponendo le proprie scelte in caso di stallo.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.