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“E chi è?”. Con questa domanda lo scorso 9 dicembre, fingendo di cadere dalle nuvole, Vladimir Putin interrompe il giornalista che, durante la conferenza stampa a conclusione della visita del presidente russo a Biškek, in Kirghizistan, pochi minuti dopo la pronuncia del verdetto contro Il’ja Jašin a Mosca, gli chiede se condannarlo a otto anni e mezzo di reclusione solo per le sue parole non sia eccessivo. Al termine della domanda, Putin sospira sconsolato per poi aggiungere di ritenere inaccettabile intromettersi nell’attività dei tribunali, approvando, quindi, indirettamente la repressione e la condanna.
Da dietro le sbarre, invece, Il’ja Jašin sa benissimo chi è il mandante del suo arresto e, al termine del processo durato cinque mesi durante i quali è stato tutto il tempo in carcere, sul suo canale Telegram, scrive: “Ebbene, il tribunale mi ha condannato a otto anni e sei mesi di galera. Che dire, gli autori di questa condanna valutano ottimisticamente le prospettive di Putin. A mio avviso, troppo ottimisticamente”, alludendo al fatto che il regime putiniano cadrà prima del termine della sua condanna, e che la sua caduta porterà alla liberazione propria e di tutti i prigionieri politici attualmente detenuti nelle carceri russe.
Il’ja Jašin è stato riconosciuto colpevole di aver diffuso pubblicamente informazioni false sull’esercito, un crimine entrato nel Codice penale russo a inizio marzo, subito dopo l’invasione russa su larga scala dell’Ucraina. L’oppositore politico è stato accusato di aver dato per vera, durante una diretta di aprile sul suo canale YouTube, la versione dei crimini di guerra russi a Buča, nella regione di Kyiv, riportata da BBC Russia.
Nella diretta incriminata, Il’ja enuncia anche la versione ufficiale del ministero della Difesa russo che respinge le accuse e afferma che quella di Buča è stata tutta una messa in scena organizzata dall’esercito di Kyiv per screditare l’esercito russo agli occhi della comunità internazionale. Il’ja, nel corso della diretta, mette a nudo le incongruenze della versione del ministero della Difesa russo, analizzando la realtà dei fatti e i materiali a disposizione. Ma all’accusa la realtà non interessa. L’importante era trovare un pretesto, una scusa, una giustificazione per mettere a tacere Il’ja Jašin, l’ultimo esponente di rilievo dell’opposizione extraparlamentare russa ancora in patria e in libertà.
Chi è Il’ja Jašin?
39 anni, determinato ma modesto, Il’ja Jašin, reduce da un’esperienza di successo nell’amministrazione comunale di Mosca, era all’apice della carriera politica al momento del suo arresto. O perlomeno in patria. All’estero, invece, Jašin non è mai stato identificato come uno dei volti noti dell’opposizione russa, poiché la sua popolarità al di là dei confini nazionali ha sempre dovuto fare i conti con l’enorme copertura mediatica riservata in Occidente al collega Aleksej Naval’nyj.
Proprio il famoso blogger, principale oppositore di Putin, condannato a nove anni di carcere per frode e oltraggio alla corte, quando era ormai chiara la sorte, purtroppo scontata, di Jašin, si è subito espresso in sua solidarietà, affermando di essere fiero di lui. D’altronde, nella Russia di Putin è motivo d’onore poter vantare nel curriculum una condanna per ragioni politiche. “Lo conosco da quando aveva 18 anni. È forse il primo amico che ho acquisito in politica”, ha inoltre aggiunto Naval’nyj in un post pubblicato sul suo canale Telegram.
Le strade dei due politici, infatti, si sono incrociate all’inizio degli anni Duemila, nella sede del partito liberale Jabloko, quando entrambi erano agli albori della propria attività politica. Come racconta Il’ja nella lunga intervista rilasciata poche settimane prima dell’arresto al famoso canale YouTube VDud’, lui e Naval’nyj hanno lavorato insieme per sei anni nello stesso ufficio, uno di fianco all’altro. Però, non andavano sempre d’accordo. Anzi, le loro posizioni divergevano su diversi temi e spesso ciò era causa di scontro dialettico. Naval’nyj abbracciava idee più conservatrici, mentre Il’ja era un progressista.
Criticò fortemente Naval’nyj per le sue partecipazioni alla “Marcia russa”, il corteo a cadenza annuale in cui si riuniva l’estrema destra, intonando, tra l’altro, slogan razzisti e xenofobi contro i popoli del Caucaso. Il’ja, però, oggi, afferma di comprendere il tentativo di formare un movimento nazional-democratico nei ranghi della costituzione che abbracciasse tutta la destra russa che spingeva Aleksej in quelle piazze.
Anche sulla penisola di Crimea le opinioni degli oppositori politici non combaciano. All’indomani dell’annessione, Il’ja ha condannato apertamente l’operato del Cremlino, definendolo illegale, e ha auspicato che la Crimea possa tornare all’Ucraina in modo pacifico, consapevole che ciò potrà avvenire solo se verrà rispettata la sovranità dell’Ucraina, e quindi quando Putin non sarà più al potere.
Naval’nyj, invece, ha espresso posizioni più sfumate, e, in particolare, una sua intervista rilasciata alla radio indipendente Echo Moskvy, che sullo sfondo dell’inasprirsi delle repressioni ha interrotto le trasmissioni lo scorso 3 ottobre, ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto scalpore. Alla domanda “La Crimea è nostra?”, Navalny ha risposto affermando che la Crimea è di chi ci vive e che sarebbe sarebbe rimasta parte della Russia, per poi aggiungere che la penisola è de-facto russa ma che è stata conquistata in violazione alle norme del diritto internazionale.
Nonostante le divergenze, i due erano accomunati dalla volontà di voler ringiovanire e cambiare radicalmente l’opposizione politica in Russia, ed entrambi, a modo proprio, ci sono riusciti.
Jašin e Naval’nyj si incontrano successivamente nelle manifestazioni di piazza del grande movimento di protesta del 2011-2013 che pretendeva elezioni oneste contro la corruzione di Edinaja Rossija (Russia Unita), il partito dei ladri e dei farabutti, nonché del presidente Putin. L’annessione della Crimea, la proclamazione d’indipendenza delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e l’inizio del conflitto nel Donbas, portano Il’ja a lavorare al report di Boris Nemcov, suo grande amico e oppositore politico di scuola sovietica, Putin. Guerra che verrà pubblicato solo dopo l’omicidio di Boris, avvenuto nel febbraio 2015.
Il’ja figura anche come testimone nel processo sull’uccisione dell’amico, raccontando delle minacce a cui era sottoposto Boris, e ha anche pubblicato su Facebook una lettera aperta a Ramzan Kadyrov, secondo Il’ja il mandante dell’omicidio, chiedendogli un incontro di persona a Groznyj, capitale della Cecenia, per fargli qualche domanda.
Nel 2017 Il’ja viene eletto presidente del Consiglio dei deputati di una delle circoscrizioni municipali di Mosca. Si tratta della carica politica più prestigiosa da lui ricoperta, che gli ha permesso, tra le tante cose, di migliorare la vita dei cittadini del suo quartiere, organizzando, per esempio, un sistema di controllo dei deputati sui servizi municipali per migliorarne l’efficienza. L’esperienza nell’amministrazione municipale termina nel 2021, un anno prima della guerra che lo ha portato dietro le sbarre.
Il’ja sapeva che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato, ma, nonostante i segnali impliciti lanciatigli dai siloviki (nel gergo politico russo, i rappresentanti dello stato autorizzati all’uso della forza) per indurlo a lasciare la Russia, ha deciso di restare nel suo paese natio. Non avrebbe mai potuto tradire il suo popolo, i suoi elettori e i suoi sostenitori. Gli stessi che lo hanno supportato sin dal primo giorno di carcere, inviandogli una marea di lettere e cartoline, e che il 9 dicembre, quando è stato pronunciato il verdetto, hanno formato una lunga fila davanti alle porte del tribunale, al freddo, in attesa di entrare in aula per esprimergli vicinanza e solidarietà.
Quella di Il’ja Jašin sembrerebbe essere una storia tutto sommato triste, una delle tante a cui abbiamo assistito più volte nell’ultimo ventennio nella Russia di Putin, un paese in cui progressivamente e sistematicamente gli spazi democratici sono stati di fatto cancellati del tutto. Tuttavia, la fine di questa storia è ancora da scrivere, e la speranza che si concluda con un lieto fine non è svanita. Così come non è mai svanito il sorriso che è stato costantemente stampato sul volto di Il’ja durante tutte le fasi del processo. Un sorriso che potrebbe sembrare fuori luogo, ma la cui natura, in realtà, si comprende leggendo una parte del discorso pronunciato quando il giudice gli concede l’ultima parola:
Mettendo in galera persone innocenti, non solo fate il gioco dei politici e dei siloviki corrotti. Ma gli conferite, in primo luogo al presidente Putin, la sensazione di impunità e totale permissivismo. Proprio questa sensazione ha portato il nostro paese verso una guerra sanguinosa e decine di migliaia di morti. So che nessun argomento degli avvocati avrà effetto su di voi e che oggi tornerò in cella. Ma so anche che lì sono più libero di voi, persone che violentate la giustizia. Perché a differenza vostra la mia coscienza è pulita e la mia anima non è avvelenata dalla paura e dal cinismo. La prigione prima o poi terminerà, ma la mia sensazione di dignità personale resterà. Mentre voi, bravi signori, dovrete convivere con ciò.
È il sorriso di chi sa di stare dalla parte della ragione.