“Siamo davvero sull’orlo di un conflitto armato”. Con queste parole, pronunciate lo scorso 21 dicembre, la premier serba Ana Brnabić ha gettato nel panico i media internazionali e preoccupato ancor di più le cancellerie europee, già da tempo impegnate a cercare una mediazione tra Serbia e Kosovo. Le recenti tensioni, le più gravi e prolungate dell’ultimo decennio, sembrano aver riportato indietro le lancette della storia agli anni Novanta quando tra le parti (ai tempi il Kosovo era ancora una provincia autonoma serba) scoppiò un violento conflitto armato.
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Le parole di Brnabić sulle “torture subite dai serbi in Kosovo e Metohija” sembrano ricalcare quelle scritte nell’ormai tristemente celebre Memorandum pubblicato nel 1986 dall’Accademia serba delle scienze e delle arti. Un vero e proprio manifesto del nazionalismo serbo che contribuì ad alimentare le tensioni che di lì a poco avrebbero portato la Jugoslavia alla guerra.
Oggi come allora, le più importanti cariche istituzionali della Serbia denunciano un clima di costante persecuzione e discriminazione nei confronti dei loro concittadini che vivono nel nord del Kosovo. Una lettura sicuramente strumentale, esagerata, tipica di un vittimismo di cui i politici serbi hanno fatto spesso uso per giustificare le scelte più azzardate e pericolose.
Rispetto all’escalation degli anni Novanta però, il contesto in cui si inserisce questo nuovo scontro politico è completamente diverso. Innanzitutto perché il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dalla Serbia nel 2008 e da allora rappresenta una sorta di protettorato euro-atlantico con tanto di presenza delle truppe Nato sul proprio territorio. In secondo luogo, perché entrambi i paesi condividono, almeno formalmente, lo stesso orizzonte europeista rappresentato dal lungo e spesso contraddittorio processo di adesione all’Unione europea.
Dall’Accordo di Bruxelles al problema delle targhe
Nel 2013, cinque anni dopo la dichiarazione d’indipendenza kosovara, l’Unione europea si fece promotrice di un’importante intesa in quello che viene definito “processo di normalizzazione delle relazioni” tra Serbia e Kosovo. L’accordo, noto come Accordo di Bruxelles, prevedeva la creazione di un’Associazione delle municipalità a maggioranza serba nel nord del Kosovo (Mitrovica Nord, Zvecan, Zubin Potok e Leposavici). Le parti, soprattutto Belgrado, si impegnavano inoltre a non bloccare i relativi percorsi di adesione europea. L’Accordo sembrava rappresentare un ottimo punto di partenza per la definitiva risoluzione delle controversie: al Kosovo veniva riconosciuta una propria autonomia decisionale in campo internazionale, la Serbia poteva invece rivendicare la tutela dei serbo-kosovari presenti nel nord del paese senza per questo riconoscere definitivamente l’indipendenza del Kosovo.
Purtroppo nulla di tutto ciò si è mai concretizzato. Le autorità kosovare hanno sempre remato contro l’istituzione dell’Associazione per paura di veder limitata la propria sovranità, quelle serbe hanno continuato a porre paletti e ostacoli al riconoscimento internazionale del Kosovo.
Lo scorso agosto un nuovo caso, che potrebbe apparire secondario ma che ha mostrato di risvegliare forti sentimenti identitari, ha compromesso il già fragilissimo equilibrio. A inizio mese infatti, il governo di Pristina aveva deciso di applicare un divieto di circolazione nel paese alle auto con targa serba, imponendo ai cittadini serbo-kosovari di utilizzare nuove targhe riportanti l’indicazione “Repubblica del Kosovo”. Una decisione che aveva provocato la dura reazione dei serbi, sostenuti da Belgrado, con la costruzione di barricate vicino al confine. La situazione era poi rientrata grazie alla decisione di rinviare la contestata decisione seguendo tappe prestabilite: solo una multa dal mese di novembre e sequestro del mezzo a partire da aprile 2023.
Le tensioni delle ultime settimane
Il 5 novembre oltre 500 serbi impiegati nelle istituzioni kosovare, tra cui polizia e tribunali, hanno rassegnato le dimissioni dai propri incarichi come forma di protesta contro il governo di Pristina. Un’azione studiata a tavolino e sostenuta dalla Srpska Lista (Lista serba), il partito maggioritario tra i serbo-kosovari guidato da Goran Rakić e diretta espressione di Belgrado.
Di fronte a questa prova di forza l’Unione europea ha tentato una nuova mediazione. Il 23 novembre Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, twittava soddisfatto: “Abbiamo un accordo! […] Kosovo e Serbia hanno concordato misure per evitare un’ulteriore escalation”. Appena due settimane dopo però, l’arresto di un ex poliziotto serbo, Dejan Pantić, da parte della polizia kosovara scatenava una reazione ancora più violenta con barricate e blocchi stradali eretti lungo le strade che portano al confine tra i due paesi. Come se non bastasse, ad alimentare la tensione ha concorso la presentazione ufficiale da parte del Kosovo della domanda di adesione all’Unione europea. Una manovra vista come un’ennesima provocazione da Belgrado.
Non sono mancate inoltre in queste settimane sparatorie e atti violenti, anche contro la missione Kfor della Nato presente nel paese con circa tremila uomini, così come manifestazioni dal lato serbo del confine organizzate da gruppi di estrema destra come Narodne Patrole (Pattuglie nazionali). Dopo aver chiesto di poter inviare un contingente del proprio esercito per difendere e tutelare la minoranza serba, proposta rifiutata dalla Kfor, e dopo aver messo in stato di massima allerta le proprie truppe, la mattina del 29 dicembre il governo serbo ha comunicato lo smantellamento di tutte le barricate in seguito al rilascio di Pantić, ora agli arresti domiciliari.
Stando a quanto riportato da alcuni giornali serbi, la de-escalation è stata raggiunta grazie a un incontro segreto tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e i rappresentanti europei e statunitensi, nel quale si garantiva che nessuno dei serbi-kosovari impegnati nelle barricate di queste settimane sarebbe stato arrestato o messo sotto indagine.
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Il pericoloso gioco delle parti
Nonostante gli sforzi compiuti in questi anni dall’Unione europea, le relazioni tra Serbia e Kosovo sono ancora ben lontane dall’essere “normalizzate”. A beneficiare maggiormente di questo infinito stallo sembrerebbe proprio il presidente Vučić. Vero deus ex machina della politica serba, Vučić deve fare i conti con un’opposizione reazionaria e radicale che sul Kosovo non è disposta a fare sconti di nessun tipo. Continuare a minacciare l’intervento armato e, contemporaneamente, presentarsi in Europa come un leader lucido capace di comprendere la necessità del dialogo è la strategia adottata dal presidente serbo. In questo modo può dimostrare ai propri cittadini di essere disposto a tutto pur di difendere i propri compatrioti al di là del confine senza però dover cedere a un riconoscimento formale dell’indipendenza del Kosovo. A questo si aggiunge un dato che potrebbe far suonare più di un campanello d’allarme. Tra il 2015 e il 2021 il budget per la difesa della Serbia è aumentato di circa il 70%, fino a 1,4 miliardi di dollari all’anno. Un aumento che ha permesso di acquistare droni militari cinesi, elicotteri russi e il sistema missilistico terra-aria francese Mistral, con l’intenzione espressa di acquistare anche i famosi droni turchi Bayraktar.
Dall’altro lato, il premier Albin Kurti ha costruito la sua fortuna politica anche grazie all’intransigenza nei confronti di Belgrado. Certo del sostegno statunitense, Kurti in questi anni ha provato più volte a forzare la mano in direzione di una più compiuta e riconosciuta statualità kosovara. Una politica arrembante che ha creato qualche malumore anche con l’Europa. La presidente del Kosovo Vjosa Osmani ha espresso forti critiche contro Borrell accusandolo di non essere stato imparziale e di aver sostenuto la parte serba (definita “l’aggressore”) durante i negoziati.
Per il Kosovo l’unica trattativa possibile è quella che parte dalla cosiddetta “proposta franco-tedesca” presentata lo scorso 3 novembre durante il summit del processo di Berlino. La proposta prevede nove punti riguardanti il rispetto della giurisdizione e dell’integrità territoriale dei due paesi, relazioni di buon vicinato, la risoluzione delle controversie con mezzi pacifici e, aspetti ancora più importanti, la rinuncia a bloccare le reciproche aspirazioni di adesione all’Ue (già contenuta nell’Accordo di Bruxelles del 2013) e l’inviolabilità, presente e futura, della frontiera esistente tra i due paesi.
Lo scenario più probabile per l’immediato futuro resta, però, il mantenimento dello status quo.
Qualsiasi passo in direzione della proposta franco-tedesca potrebbe apparire agli occhi dei serbi come un tradimento, un riconoscimento de facto dell’indipendenza kosovara, senza tra l’altro ottenere adeguate garanzie né sulla tutela dei diritti dei serbi-kosovari né sul processo di adesione all’Unione, che rimane praticamente bloccato da anni.
Nonostante minacce, tensioni e provocazioni, l’ennesimo conflitto armato resta oggi improbabile. Il Kosovo non è ancora dotato di un proprio esercito e dovrebbe essere difeso dalla Nato e dall’Ue. Quest’ultima ha tutto l’interesse affinché non scoppi una nuova guerra proprio dentro casa, con un paese che, almeno a parole, vorrebbe integrare. Per Belgrado una guerra sarebbe un vero e proprio suicidio politico. Non solo per le conseguenze economiche che ne deriverebbero ma anche perché, nonostante gli investimenti in armamenti, non potrebbe materialmente sostenere uno sforzo bellico contro le truppe Nato già presenti in Kosovo. A rendere complicata una nuova escalation militare concorre anche l’impegno della Russia in Ucraina. Contrariamente a quanto ipotizzato da alcuni analisti, le difficoltà incontrate da Mosca nella guerra rendono particolarmente difficile la possibilità di sostenere militarmente il proprio alleato serbo. Questo non significa che Putin non abbia intenzione ad alimentare le tensioni, ma sicuramente un suo intervento diretto appare pressoché impossibile.
Questo articolo è frutto di una collaborazione con Rivista il Mulino