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Se Dachau, Auschwitz, Mauthausen, Treblinka sono nomi che popolano ormai il nostro immaginario come simbolo dell’orrore nazista, il massacro di Zmiëvskaja balka è quasi completamente omesso dalla memoria collettiva.
Molto spesso – e per motivi comprensibili – la narrazione globale attorno alla Shoah si focalizza, in occasione del Giorno della Memoria, sulla descrizione del sistema di campi di concentramento e di sterminio strutturato dai nazisti prima e durante la Seconda guerra mondiale. Dachau, Auschwitz, Mauthausen, Treblinka sono nomi che popolano ormai il nostro immaginario come simbolo dell’orrore nazista e dello sterminio di ebrei, oppositori politici, omosessuali, rom e sinti.
Tuttavia questa narrazione spesso tralascia o fatica a includere in modo organico i massacri che le SS naziste compirono – spesso con l’aiuto di altri reparti dell’esercito tedesco, di paramilitari collaborazionisti o della stessa popolazione civile locale – durante la loro avanzata nell’Europa orientale fin nel cuore dello stato sovietico, dove importanti comunità di ebrei vivevano da secoli – fra alterne fortune – in una terra in cui oggi il passato ebraico è soltanto un pallido ricordo.
La Zona di residenza
Buona parte dei massacri di ebrei – e non solo – perpetrati dall’esercito nazista e dai suoi alleati durante l’avanzata nell’Europa orientale avvennero infatti nella Zona di residenza, un’area che fin dal Settecento si estendeva sui territori delle attuali Polonia orientale, Lituania, Ucraina e Russia occidentale. In queste zone, fino al 1917 occupate dall’Impero zarista, Caterina II aveva permesso l’insediamento delle famiglie ebraiche che risiedevano nei territori dell’Impero, dopo che i suoi predecessori – da Pietro il Grande a Elisabetta – avevano tentato a più riprese, ma inutilmente, di espellere completamente dalla Russia gli ebrei che non si fossero convertiti alla religione ortodossa.
Dunque, per tutto l’Ottocento, milioni di ebrei si trasferirono in queste aree che corrispondevano a circa il 20% del territorio dell’Impero, fondando i propri shetl (parola yiddish che deriva dal termine tedesco dialettale Städtel, cittadella), delle vere e proprie cittadine ebraiche dove si svilupparono forme di autorganizzazione e perfino partiti dei lavoratori ebrei di ispirazione socialista, fra i quali il Bund, che ebbe poi un ruolo estremamente rilevante nello sviluppo del movimento socialdemocratico russo.
Fino al 1891 pochissimi ebrei ebbero il diritto di vivere fuori dalla Zona di residenza, fra questi soprattutto chi aveva acquistato nel tempo un titolo nobiliare, o ancora chi – in possesso di un’istruzione superiore o appartenente alla potente gilda degli artigiani – veniva considerato fondamentale per lo sviluppo della Russia zarista. Così all’alba della Prima guerra mondiale circa cinque milioni di ebrei (su 170 milioni di abitanti dell’Impero) vivevano nella Zona di residenza, e lì rimasero anche quando nel 1917, a seguito della rivoluzione, le limitazioni di residenza per ebrei vennero abolite.
Nel 1941, quando la Germania nazista lanciò l’Operazione Barbarossa e invase l’Unione Sovietica, buona parte degli ebrei dell’Europa orientale vivevano, oltre che in Polonia, nei territori della vecchia Zona di residenza, formalmente abolita dal governo sovietico ma ancora esistente in termini geografici.
L’irresistibile avanzata dell’esercito tedesco e dei suoi alleati vide l’occupazione di ampie porzioni dell’attuale Ucraina e della Russia occidentale. In queste zone i nazisti misero in atto numerosi pogrom ai danni della popolazione ebraica, spesso fiancheggiati dalle formazioni collaborazioniste ucraine: in queste azioni solo un numero minimo di ebrei veniva deportato verso i campi di concentramento e sterminio in Polonia, mentre la maggioranza veniva ucciso sul posto e seppellito in fosse comuni.
In questo contesto si colloca il massacro di Zmiëvskaja balka, una località nella città di Rostov sul Don, a pochi chilometri dall’attuale confine fra Ucraina e Federazione Russa. La città di Rostov venne occupata due volte dall’esercito tedesco. Durante la prima occupazione, durata solo undici giorni – dal 17 al 28 novembre 1941 – l’esercito tedesco sotto il comando del generale Paul Ludwig Ewald von Kleist mise in atto una sommaria pulizia etnica che provocò circa un migliaio di vittime, in stragrande maggioranza di religione ebraica.
Il grande massacro per cui ancora oggi la località è famosa in tutta l’Europa orientale avvenne invece durante la seconda occupazione tedesca della città. Nell’estate del 1942 – la città venne occupata dai nazisti il 24 luglio – le autorità tedesche emanarono prima l’ordinanza di segregazione della popolazione ebraica, i cui membri venivano obbligati a registrarsi presso il comando delle SS e a portare cucita sugli abiti la stella gialla.
Poi venne pianificato il massacro vero e proprio sotto la direzione di Kurt Christman, Obersturmbannführer (Tenente colonnello, lo stesso grado assunto da Adolf Eichmann e da Herbert Kappler in Italia) del locale Sonderkommando delle SS, il 10-a. Infatti il Sonderkommando 10-a era una componente del corpo delle Einsatzgruppen, il settore delle SS deputato nello specifico al rastrellamento di ebrei e oppositori politici nelle zone occupate.
Il 5 e il 6 agosto i prigionieri sovietici caduti in mano nazista – alcune migliaia solo nella zona di Rostov – vennero condotti nella località di Zmiëvskaja balka. Costretti a scavare delle enormi fosse comuni, vennero poi fucilati in massa sull’orlo delle stesse.
Il giorno 9 agosto le autorità naziste ordinarono al consiglio ebraico della città di Rostov di condurre nell’area gli ebrei della città a gruppi di circa duecento-trecento persone. Una volta giunti sul posto gli ebrei vennero fucilati e gettati nelle fosse comuni. I bambini coinvolti nel massacro e probabilmente molti gruppi di donne e anziani non vennero fucilati, ma furono costretti a salire sui famigerati gaswagen, vere e proprie camere a gas mobili ricavate da camion militari, e vennero uccisi tramite avvelenamento da monossido di carbonio. Tra le vittime vi fu certamente anche Sabina Nikolaevna Špil’rejn, una delle prime psicanaliste del mondo, collaboratrice di Freud e Piaget, fucilata insieme alle due figlie più giovani.
In tutto, fra i prigionieri sovietici, i membri del partito comunista e gli ebrei uccisi nel massacro di Rostov si stima un numero di vittime complessive di almeno 28mila persone. Si tratta del più grande massacro nazista perpetrato sul territorio della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, superato per numero di vittime solo dalla strage di Babii Jar, nei sobborghi di Kyiv, dove i nazisti massacrarono oltre 30mila persone.
Il memoriale
I sovietici riconquistarono la città solo nella primavera del 1943. A seguito dell’Armata Rossa tornarono a Rostov anche le poche centinaia di ebrei che dopo la prima occupazione della città erano fuggite nelle zone più interne dell’Unione Sovietica, temendo – a ragione – una seconda occupazione della città da parte dei nazisti. Tuttavia molti dei sopravvissuti si trasferirono poi, subito dopo la fine della guerra, nel neonato Stato di Israele, in questo incoraggiati dallo stesso Stato sovietico.
La sostanziale scomparsa della comunità ebraica di Rostov – che già nel 1914 aveva contato quasi trentamila persone, buona parte delle quali vennero uccise dai nazisti nel massacro – e il parziale disinteresse dei sovietici causò un forte ritardo nella costruzione di luoghi della memoria che ricordassero il massacro di Zmiëvskaja balka: un memoriale in questa località venne eretto solo nel 1975, e poco lontano venne costruito un museo che ricorda più in generale il periodo dell’occupazione nazista della città. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica il memoriale venne lasciato in stato di grave decadimento e abbandono dalle nuove autorità russe, e soltanto nel 2009 sono iniziati i lavori per riportare il monumento a uno stato accettabile.
Nato nel 1992, vive e lavora a Varese. Laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Milano, ha studiato lingua e cultura cinese e trascorso un periodo di studio all’Università di HangZhou, Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese. Oggi è docente di lettere nella scuola secondaria. Appassionato di storia e politica sia dell’Estremo Oriente, sia dei Paesi dell’ex blocco orientale, ha scritto per The Vision e Il Caffé Geopolitico ed è autore di due romanzi noir: Il corpo del gatto (Leucotea, 2017) e Un nido di vespe (Fratelli Frilli, 2019). È redattore di Scacchiere Storico, associazione di ricerca e divulgazione storica nata nel 2020.