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Il 18 settembre 1938 Benito Mussolini, in visita ufficiale a Trieste, annunciava per la prima volta il contenuto delle leggi razziali che sarebbero state approvate nel novembre dello stesso anno. Pochi mesi dopo, nell’aprile 1939, l’Italia invadeva l’Albania. Con l’occupazione fascista arrivarono anche le leggi antiebraiche, solo formalmente meno stringenti rispetto all’Italia. Agli ebrei era infatti permesso di celebrare le feste e non erano costretti a indossare segni distintivi sugli abiti. Rimaneva comunque proibita l’immigrazione ebraica in Albania e quelli presenti nel paese vennero trasferiti nei campi di concentramento.
Dopo l’8 settembre 1943, con il cambio di governo italiano, l’Albania passò sotto il controllo tedesco fino al novembre 1944. Nonostante la doppia occupazione e lo sterminio degli ebrei in atto nel resto d’Europa, l’Albania fu l’unico paese dove l’Olocausto non si concretizzò: alla fine della guerra la presenza ebraica era più consistente rispetto al periodo prima del conflitto.
Nel 2003 nella città di Saranda, nota località turistica vicino al confine con la Grecia, degli scavi archeologici hanno riportato alla luce quella che sembra esser stata la prima sinagoga del paese risalente al III-IV secolo. Una più numerosa presenza ebraica in Albania si registrò a metà del 1400 quando l’Impero Ottomano sostenne l’insediamento di mercanti ebrei, provenienti soprattutto dalla Spagna e dai domini veneziani, nella città portuale di Valona. I censimenti della prima metà del XVI secolo registravano oltre 2.500 ebrei presenti in città. Altre comunità si formarono anche a Berat, Durazzo ed Elbasan. Proprio a Berat, un po’ più distante dalla costa, si rifugiarono molte famiglie in fuga da Valona durante la guerra turco-veneziana del 1685. A partire dal 1788, Ali Pasha, governatore ottomano della Rumelia, estese i suoi poteri all’Albania mostrando poca simpatia nei confronti della comunità ebraica.
L’occupazione ottomana continuò per un altro secolo fino allo scoppio, nel 1911-12, di una serie di rivolte. Tra le rivendicazioni politiche vi erano il riconoscimento dell’integrità territoriale albanese comprendente anche il Kosovo, una maggiore autonomia amministrativa e l’introduzione della lingua albanese nelle scuole. Proprio a Valona, il 28 novembre 1912, venne dichiarata l’indipendenza del paese dall’Impero Ottomano. Subito dopo, gli ebrei furono accusati di aver collaborato con le autorità turche e perseguitati.
Nel 1930, il censimento nazionale registrava la presenza di appena 204 ebrei in tutto il paese. In quel momento l’Albania era governata da Re Zog I, unico sovrano musulmano d’Europa sostenuto anche dall’Italia fascista con cui vennero stretti due trattati economico-militari nel 1926-27.
Pochi anni dopo, Herman Bernstein, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Albania, dichiarò di non aver visto traccia di discriminazione contro gli ebrei in Albania, “una delle rare terre in Europa oggi dove non esistono pregiudizi religiosi e odio, anche se gli albanesi sono divisi in tre fedi”. Un’impressione confermata dalla decisione di Re Zog del 1935 di concedere passaporti a tutti gli ebrei che volevano andare in Albania. Nonostante in numero fortemente ridotto rispetto al passato, la comunità ebraica ottenne nel 1937, poco prima dell’occupazione italiana, il riconoscimento ufficiale da parte del governo albanese.
Con le persecuzioni in Europa, specialmente in Germania e nei territori occupati, molte famiglie ebraiche abbandonarono i propri paesi attraversando e, in alcuni casi, stanziandosi in Albania. Si stima che il loro numero salì, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, di circa 600-1.800 individui. Tra i personaggi più illustri che beneficiarono di un passaporto rientra anche Albert Einstein, giunto in Albania nell’aprile 1931 grazie all’aiuto del dottore personale di Re Zog, il suo amico Jovan Basho.
L’occupazione nazi-fascista
L’occupazione italiana del 1939 rischiava però di cambiare rapidamente le cose. Nel giugno di quell’anno, Vittorio Emanuele III aveva concesso uno Statuto mentre assumeva il potere esecutivo e sopprimeva il parlamento sostituendolo con un Consiglio superiore fascista corporativo. Da paese sicuro, anche l’Albania rischiava di trasformarsi in una prigione a cielo aperto. In breve tempo circa cinquecento ebrei, un terzo del totale, vennero deportati nei campi di concentramento all’interno del paese (come quelli nelle città di Berat e Kavaja), o trasferiti in quelli in Italia. Si trattava perlopiù di ebrei “stranieri”, provenienti da altri paesi, mentre quelli già presenti sul territorio vennero tollerati in quanto importante risorsa del tessuto economico locale.
Nonostante le persecuzioni italiane molti ebrei continuarono ad arrivare in Albania ricevendo un atteggiamento di apertura e accoglienza da parte della popolazione. In tanti permisero loro di nascondersi nelle case dei piccoli paesi di montagna, travestiti da contadini con documenti falsi rilasciati spesso dagli stessi uffici amministrativi dello Stato albanese.
Il 20 gennaio 1942, i più alti funzionari della gerarchia nazista organizzarono una riunione segreta, conosciuta come la Conferenza di Wannsee, durante la quale discussero di come mettere in atto la “Soluzione Finale”, il piano per l’annientamento sistematico e totale della popolazione ebraica. Di lì a poco però, le sorti della guerra sarebbero cambiate. Al momento dell’annuncio della firma dell’armistizio con le truppe anglo-americane, l’8 settembre 1943, si trovavano in Albania oltre centomila italiani, tra soldati e personale civile. Con la capitolazione italiana i tedeschi occuparono il paese insediando un governo collaborazionista guidato dal movimento anticomunista Balli Kombetar. Con l’arrivo dei tedeschi la situazione per gli ebrei si fece ancora più complicata. Così come già successo durante l’occupazione italiana però, le autorità albanesi continuarono a mostrarsi solidali rifiutando di concedere ai nazisti gli elenchi contenenti i nomi degli ebrei presenti nel paese.
Nel maggio 1944 una divisione delle SS, soprannominata Skanderbeg in onore del condottiero albanese, raccolse gli ebrei di Pristina, in Kosovo, arrestandone circa trecento. Molti di questi furono poi trasferiti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. I tedeschi lasciarono il paese ormai in mano ai comunisti pochi mesi dopo, nel novembre 1944.
Persecuzioni, leggi razziali e campi di concentramento non scalfirono negli anni l’ospitalità e la protezione degli albanesi nei confronti degli ebrei. Alla fine della guerra, la comunità nel paese era passata da duecento, registrati nel censimento del 1930, ad oltre 2mila persone. Numeri che fanno dell’Albania l’unico paese europeo ad aver visto crescere la presenza ebraica nonostante l’occupazione nazi-fascista.
Ad oggi, si stima che siano circa duecento gli ebrei presenti in Albania. Dopo l’apertura dei confini nel 1991 quasi tutti quelli rimasti nel paese decisero di partire per Israele. Nel 2018 a Berat è stato inaugurato il museo “Solomon”, dedicato alla storia degli ebrei in Albania con raccolte di documenti, foto e oggetti appartenuti alla comunità. Finora 75 albanesi, di religione musulmana e cristiana, sono stati riconosciuti come Giusti tra le Nazioni. Nel 2020 il premier albanese Edi Rama ha inaugurato un monumento nella capitale Tirana, dedicato proprio alla difesa degli ebrei durante la guerra. L’iscrizione del memoriale recita in inglese, ebraico e albanese: “albanesi, cristiani e musulmani hanno messo in pericolo le loro vite per proteggere e salvare gli ebrei”. Un avveniristico centro culturale ebraico è in progetto nel 2025 a Valona.
La besa e il culto dell’ospitalità
Tra i motivi che hanno impedito lo sterminio totale degli ebrei in Albania durante la seconda guerra mondiale rientrano senza dubbi aspetti economici, politici ma anche e soprattutto aspetti culturali. Le aperture e l’accoglienza mostrata da Re Zog nel periodo immediatamente precedente l’occupazione italiana erano riuscite a integrare la comunità ebraica con il tessuto economico albanese, rendendo quindi difficile una loro rapida sostituzione da parte di una forza straniera.
Il sostegno offerto dagli apparati albanesi, però, non sarebbe stato sufficiente da solo a permettere il salvataggio di centinaia di vite. L’elemento principale che può spiegare il perché di questa resistenza passiva ma estremamente efficace va ricercato in ambito culturale. In molti, infatti, attribuiscono il comportamento avuto dalla popolazione albanese alla besa, uno dei principi del Kanun, il codice d’onore tradizionale albanese. La besa (traducibile con “mantenere la parola”) rappresenta non solo la promessa all’ospitalità data a un ospite ma soprattutto la garanzia che tale promessa verrà mantenuta anche a costo della vita. Besa indica dunque sia l’ospitalità che l’onore, il voler mantenere fede ai propri impegni. È anche grazie a questo spirito di accoglienza e di rispetto e difesa dell’ospite che è possibile spiegare quello che accadde durante la guerra. Per gli albanesi l’ospite è sacro e, in quel momento storico, gli ebrei erano come degli ospiti a cui bisognava garantire protezione e sostegno. La besa infatti obbliga a fornire riparo e passaggio sicuro a chiunque cerchi protezione. Un comportamento diverso sarebbe una perdita d’onore e di prestigio.
Perché, come recita il Kanun all’articolo 96: “la casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite”.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.