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Nel 2004 in Italia venne istituito il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata, in riferimento ai tragici eventi che accompagnarono e seguirono la caduta del regime fascista e la Seconda guerra mondiale sul confine orientale. La solennità ha sollevato sin da subito aspre polemiche, dividendo l’opinione pubblica italiana riguardo al significato di questa decisione. In questo pezzo abbiamo indagato un aspetto che rimane colpevolmente fuori dal cono di luce sprigionato dal Giorno del ricordo, purtuttavia ricoprendo una parte fondamentale per una piena comprensione del fenomeno delle foibe e del successivo esodo: il ruolo criminale dell’Italia fascista lungo il confine orientale.
Fascismo di confine
Il 6 aprile 1941 le forze dell’Asse invadono la Jugoslavia, sbaragliandone l’esercito in una decina di giorni appena. Le forze occupanti si spartiscono il territorio. All’Italia spetta un’ampia fetta del litorale croato, la Slovenia e la provincia di Lubiana (istituita con l’occasione), parte dell’odierno Montenegro e del Kosovo, che viene annesso all’Albania (già parte dell’impero coloniale italiano) assieme alla Macedonia occidentale. Il neo-costituito Stato indipendente di Croazia non rappresenta altro che uno stato fantoccio all’interno del quale tanto le forze tedesche quanto quelle italiane sono libere di scorrazzare, nel vano tentativo di schiacciare le montanti forze partigiane.
L’annessione non è un avvenimento casuale: si tratta del punto culminante di una politica espansionista connaturata all’ideologia fascista stessa, nata dalle ceneri della Prima guerra mondiale, dai rancori per la “vittoria mutilata” e per le terre irredente. Ciò che si prospetta per il confine orientale è una replica in scala maggiore del grande banco di prova costituito dai territori annessi al Regno d’Italia dopo il 1918, Trieste in testa. Qui il punto di svolta fu determinato dal vero e proprio pogrom antislavo avvenuto il 13 luglio del 1919, nel corso del quale le attività gestite dalla minoranza vengono prese d’assalto e devastate, e l’iconico Narodni dom, luogo di riferimento della comunità slovena a Trieste, viene dato alle fiamme. Nella sua miopia reazionaria il fascismo non ammette differenze, non tollera minoranze interne: è l’inizio dell’italianizzazione forzata dei cognomi, della toponomastica lungo il confine orientale. Del razzismo di stato.
“Per realizzare il sogno mediterraneo”, afferma Benito Mussolini a Pola il 21 settembre 1920, “bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, io credo che si possano sacrificare 500mila slavi barbari a 50mila italiani” (Ventennio di sangue. Dallo squadrismo alla Repubblica sociale, CR edizioni, 2022). Questi messaggi, parte integrante dell’ideologia fascista e non mera appendice, non resteranno lettera morta: l’intera gerarchia ne fu pregna e si prodigherà attivamente per renderli realtà.
Annessioni e squadrismo
Nei territori del confine orientale annessi dopo il 1941 la violenza fascista si abbatte con rinnovato vigore. L’italiano diventa l’unica lingua ammessa, viene fatto divieto di esprimersi in sloveno e croato. Nelle scuole gli insegnanti autoctoni sono licenziati e sostituiti da italiani.
Lojze Bratuž, italianizzato in Luigi Bertossi, era un maestro di Gorizia. Insegnava sloveno e canti religiosi in lingua. Subito dopo la messa del 27 dicembre 1936, fu vittima di una brutale aggressione squadrista: dopo il terribile pestaggio, gli squadristi lo costrinsero a ingurgitare una miscela di olio di ricino e olio motore. Morirà tra atroci sofferenze meno di due mesi dopo, alla vigilia del suo trentacinquesimo compleanno. La sua colpa: utilizzare nei suoi insegnamenti una lingua non tollerata dal regime. Storie come queste marcano l’ascesa del fascismo in Italia e sono all’ordine del giorno nei territori occupati del confine orientale.
Ma diversamente che a Trieste e a Gorizia, gli italiani dei territori annessi sono una netta minoranza. Prendiamo ad esempio la provincia di Fiume, istituita nel 1924. Tra l’1 e il 6 giugno 1940 – dopo più di 15 anni di italianizzazione forzata – la Prefettura conduce un censimento riservato, i cui risultati sono incontrovertibili: su una popolazione complessiva di 116.062 abitanti, gli “allogeni” (termine con il quale ci si riferiva a sloveni e croati) erano 55.811 e gli italiani 50.014 (i restanti sono inclusi tra le voci “altri stranieri”, “apolidi” e “cittadinanza dubbia”). Meno della metà della popolazione (I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia, Giacomo Scotti, 2017). Dopo il 1941 alla Provincia di Fiume furono annesse ampie porzioni di territorio dell’entroterra, da Sušak alla Kupa, all’interno delle quali la popolazione italiana non raggiungeva il 10% del totale.
La situazione preoccupa le autorità fasciste, primo tra tutti il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, che già prima delle annessioni del 1941 chiedeva a Mussolini mano libera per “liberare almeno la città capoluogo da 5.452 slavi”, per stabilire un rapporto più favorevole agli occupanti. In risposta a questo sentimento di accerchiamento, il prefetto ricorre al pugno di ferro: intimidazioni, arresti e uccisioni sono all’ordine del giorno. Il podestà del comune di Jelenje, Krešimir Juretić, viene considerato troppo indulgente nei confronti dei suoi connazionali. Arrestato per “attività antitaliana”, il potestà subirà le torture dei suoi aguzzini per due mesi, al termine dei quali verrà prelevato e portato in un bosco, dove la sua testa verrà fracassata e decapitata. La relazione dei carabinieri afferma invece che morirà “raggiunto da scarica di mitraglia” tentando la fuga durante un trasferimento. Una dinamica molto diffusa all’epoca per riferirsi alle uccisioni sommarie compiute dai nostri uomini in divisa. Il paradosso è che tanta brutalità non fa altro che fomentare la ribellione: al momento dell’annessione, i comunisti operanti nel territorio del Grobniciano erano appena 17. A fine anno saranno già in 70.
Le richieste del ligio prefetto Testa, ad ogni modo, non tarderanno ad essere esaudite. Il 23 maggio Mussolini incontra nei pressi di Fiume il generale Mario Roatta, comandante della II armata operante in Slovenia e Dalmazia. “La situazione migliore si ha quando il nemico è morto”, gli confida il suo duce. “Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario”. Roatta espone il suo piano: chiudere la frontiera con la Croazia, sgomberare tutta la regione fino a 3-4 chilometri dal vecchio confine. Il capo del fascismo concorda. Bisogna “internare molta gente, anche 20-30mila persone”; si deve reprimere la popolazione “con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri”.
Roatta, dal canto suo, aveva già ampiamente dimostrato di aver appreso la lezione del suo superiore, quando nel marzo del 1942 emanò la tristemente nota circolare 3-C, nella quale, tra le altre cose, si sostiene la necessità di non ricorrere alla formula “dente per dente”, ma “testa per dente”. La circolare prevede l’internamento di tutti gli uomini tra i 16 e i 60 anni che vivono nelle zone delle operazioni anti-partigiane. Il suo sottoposto, generale Mario Robotti, sostenne a sua volta che “si ammazza troppo poco”.
Dalle parole ai fatti: i crimini di guerra italiani lungo il confine orientale
I risultati di queste politiche non tardano ad arrivare: nel 1942 il confine orientale è in fiamme. Nella sola “grande offensiva italiana” contro i partigiani nelle zone annesse – in realtà azioni di vero e proprio terrorismo contro la popolazione civile – dal 12 luglio al 22 agosto furono uccisi (almeno) 245 ostaggi, deportati 4.300 civili, bruciate 1.842 case (da qui l’epiteto con cui nell’ex Jugoslavia ci si riferisce ancora agli italiani: palikuće, incendiari di case). In uno dei tanti manifesti dello stesso tenore firmati dal prefetto Testa, si legge:
“Si informano le popolazioni dei Territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie [di sospetti partigiani, irreperibili], sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori.”
Fiume, 30 maggio 1942
Temistocle Testa (citazione tratta dal libro “I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia”, Giacomo Scotti).
Se si volesse circoscrivere un avvenimento specifico ad esemplificazione della brutalità fascista nei territori occupati, un buon candidato sarebbe sicuramente l’eccidio di Podhum, ordinato direttamente dal prefetto Testa per rappresaglia. Il 12 luglio 1942 i soldati italiani circondano l’abitato di Podhum e rastrellano il paese di 1329 anime casa per casa, prelevando tutti i maschi dai 15 ai 65 anni. Li condurranno fuori dall’abitato, dove saranno fucilati a piccoli gruppi nel corso di tutta la mattinata. Terminato il massacro, gli italiani razziarono le abitazioni e diedero alle fiamme l’intero villaggio, senza lesinarsi dal firmare le proprie malefatte con slogan fascisti scritti sui muri esterni delle case. I familiari delle vittime, circa 900 persone, verranno deportati nei campi di concentramento italiani. In circa due ore di incursione gli italiani avevano così fucilato un centinaio di civili, dato alle fiamme 370 abitazioni e 124 altri edifici, razziato 1300 capi di bestiame. La vittima più giovane di tanta follia omicida aveva 15 anni appena.
Dal giugno del 1942 il disegno di pulizia etnica degli sloveni dalla provincia di Lubiana, che prevede la deportazione e sostituzione degli stessi con cittadini di nazionalità italiana, procede incessantemente: circa 35mila “allogeni” subiscono questo destino, che si interrompe solo con l’armistizio italiano.
L’obiettivo di Roatta è lo “Sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all’interno del Regno, e di sostituirle in loco con popolazioni italiane”. Dalla Slovenia gli fa eco il generale Robotti: “Noi abbiamo provveduto a deportare tutti gli uomini adulti (…). Non ha importanza se, nel corso degli interrogatori, risulti che si ha a che fare con persone inoffensive. Ricordate che per varie ragioni, anche questi elementi possono diventare dei nemici. Di conseguenza, deportazione totale. E non ci si limiti al solo internamento. Io non mi opporrò a che tutti gli sloveni siano internati e sostituiti da italiani. In altri termini, fare in modo che le frontiere etniche e politiche coincidano”. L’ideazione e l’esecuzione di simili progetti oggi ha un nome preciso: pulizia etnica.
Campi di concentramento italiani
Per fare fronte a tutti questi trasferimenti forzati di popolazione il regime fascista allestisce diversi campi di concentramento: Chiesanuova, Gonars, Monigo, Renicci, Visco e ovviamente Arbe sono solo alcuni tra questi. Non c’è da stupirsi: la pratica di privare gli individui, italiani e non, delle proprie libertà fondamentali è intrinseca al fascismo, che nell’arco di un ventennio ricorrerà a una ramificazione capillare di campi, dalle funzioni più svariate. Se si sommano tutti, dai campi di concentramento a quelli di internamento, lavoro, per prigionieri di guerra eccetera, si contano 1.142 campi fascisti complessivi. Di questi, 45 furono allestiti in Croazia, 16 in Slovenia, uno in Montenegro e uno in Kosovo.
Il campo di Kampor è sicuramente una delle macchie peggiori dell’occupazione italiana nell’ex-Jugoslavia. Inaugurato nell’isola di Arbe il 26 giugno 1942, il campo verrà costruito nell’unica zona paludosa del territorio, soggetta a frequenti mareggiate. Diviso in tre settori rispettivamente per donne e bambini, uomini ed ebrei, sarà costituito prevalentemente da tende militari, poco adatte alle rigide temperature invernali e alle perturbazioni che spesso si abbattono sull’isola. Nelle giornate di pioggia gli escrementi fuoriuscivano dalle fosse appositamente scavate e invadevano il campo, entrando anche nelle tende degli internati. Fame, malattie, freddo falcidiavano la popolazione: come riportato da Scotti, il tasso di mortalità del campo superò il 19%. Per fare un paragone, nel lager nazista di Buchenwald il tasso di mortalità degli internati fu del 15%.
Il 17 dicembre 1942 Emilio Grazioli, commissario civile della provincia di Lubiana, informa il generale Gastone Gambara di aver ricevuto dal medico competente un rapporto allarmante sullo stato di salute di tutti gli internati dell’isola di Arbe. Si parla di “segni della più grave inazione da fame”, “dimagrimento patologico con assoluta scomparsa dell’adipene anche orbitario”, “ipotonia e ipotrofia grave dei muscoli”, “edemi da fame degli arti inferiori” e così via. La risposta, scritta direttamente dal destinatario, è lapidaria: “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”. Si stima che a Kampor trovarono la morte circa 1.400 persone, ivi inclusi un centinaio bambini.
Per un ricordo imparziale
Gli eventi fin qui descritti precedono cronologicamente e fungono da concausa alle violenze che, in particolare in seguito all’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 e dopo la liberazione dei territori occupati nel 1945, si sono rovesciate sulla comunità italiana dell’Istria, della Dalmazia e lungo tutto il cosiddetto confine orientale. Violenze che non hanno bersagliato gli italiani in quanto tali, ma in quanto fascisti: d’altronde, per un ventennio intero il regime stesso si era impegnato con tutte le sue forze a veicolare l’equazione italiano = fascista. Con la caduta del regime gli italiani sono stati vittime della sua stessa propaganda.
Questo approfondimento non vuole sminuire la sofferenza provata dai circa 300mila esuli istriani e dalmati che dal 1945 al 1956 hanno dovuto abbandonare le loro case, né negare l’esecuzione dei circa 3mila cittadini di nazionalità italiana o mista nel 1943 e nel 1945, molti dei quali collusi a vario titolo con il regime fascista. Si prefigge, invece, di inquadrare il contesto storico di riferimento di simili avvenimenti, le loro premesse e concause. L’esplosione di violenza anti-italiana nei territori annessi è stata la naturale risposta ad anni di italianizzazione forzata e crimini di guerra compiuti dal regio esercito. Crimini di guerra per i quali, per inciso, nessuno verrà punito dall’Italia repubblicana: dei 1.857 criminali di guerra perseguiti dalla giustizia alleata, jugoslava, albanese, greca, sovietica nel dopoguerra, nessuno verrà estradato. Per di più, il primo governo De Gasperi nel 1946 promulgherà la cosiddetta “amnistia Togliatti”, lasciando di fatto a piede libero o scarcerando l’intero apparato fascista e collaborazionista, che transiterà senza soluzione di continuità dal regime alla Repubblica.
Se si istituisce il Giorno del ricordo, quindi, oltre agli eventi luttuosi del 1943 e del post-1945 sarebbe bene ricordare anche il ventennio precedente, l’italianizzazione forzata delle nazionalità “allogene” lungo il confine orientale, la violenza squadrista esercitata in quei stessi territori e i crimini di guerra ivi perpetrati. Altrimenti si rischia di istituzionalizzare un ricordo a metà, dove si commemora la violenza subita ma si tace omertosamente su quella inferta. E si fanno passare gli aggressori per aggrediti.
Vogliamo concludere ricordando le carriere dei fautori dei crimini di guerra citati nel presente articolo:
Il prefetto Temistocle Testa, responsabile delle stragi sopra descritte, si distingue come fascista della prima ora, partecipando alla marcia su Roma. Dopo l’armistizio aderisce alla Repubblica sociale italiana e alla fine del conflitto viene arrestato. Dopo appena 3 anni di carcere viene definitivamente scarcerato. Muore suicida il 17 luglio 1949.
Comandante della II armata operante in Slovenia e Dalmazia, il generale Mario Roatta sarà accusato sia dei crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia che della mancata difesa di Roma dopo l’armistizio. Il 4 marzo 1945 evade dall’ospedale militare ove era in custodia, raggiungendo il Vaticano prima e la Spagna di Francisco Franco poi. Assolto da ogni accusa, rientra in Italia con la fedina penale pulita nel 1966. Morirà a Roma nel 1968.
Il generale Mario Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata sul confine orientale e sostituto di Roatta dal 1943, dopo l’armistizio si sottrae all’arresto e vivrà in libertà a Rapallo fino alla sua morte, nel 1955.
Il generale Gastone Gambara, incaricato dei campi di concentramento per gli slavi lungo il confine orientale, dopo l’armistizio aderisce alla Repubblica sociale italiana, ricoprendo per qualche tempo anche la carica di capo di stato maggiore. Alla fine della guerra si stabilisce a Madrid su invito di Francisco Franco. Assolto da ogni accusa, nel 1952 viene reintegrato a pieno titolo nell’esercito italiano.
Foto di copertina: incendio del Narodni dom, tratta da narodnidom.eu
Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.