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Storia del Kosovo: il peso di una parola

A quindici anni di distanza dalla proclamazione di indipendenza del Kosovo, i rapporti tra Belgrado e Pristina rimangono ancora tesi e molte questioni ancora prive di soluzione. Christian Costamagna*, ricercatore presso l'Università di Rijeka, ci propone qui alcune riflessioni sul tema, analizzando l’importanza della storia recente e facendo chiarezza su come si sia giunti alla situazione attuale.

L’importanza delle parole

Tra le problematicità evidenti che pesano nel parlare del Kosovo, non si può ignorare l’utilizzo dei termini per definire il Kosovo. In questa sede non si ritiene necessario sviscerare tale aspetto, tuttavia è bene ricordare che, al di là del termine italiano Cossovo, scarsamente utilizzato in generale, si tende ad utilizzare Kosovo in un contesto di natura anglofona e non solo, oppure Kosovo e Metohija in un contesto di lingua serba, soprattutto se di natura istituzionale, oppure Kosova in un contesto di lingua albanese. L’adozione delle terminologia contiene in sé, in maniera più o meno esplicita (o consapevole), la determinazione di una scelta non solo linguistica ma spesso anche di natura ideologica. Infatti, utilizzare il termine Kosovo e Metohija sottintende il riconoscimento del Kosovo come parte della Serbia. Viceversa, Kosova indica l’esatto contrario, ovvero il Kosovo come repubblica sovrana e indipendente dalla Serbia. Il problema terminologico non è certo l’unico.

Un possibile punto di partenza

Il Kosovo, ormai da alcuni decenni, viene considerato un punto problematico nei Balcani. Stabilirne, sotto il profilo storico, una presunta data di inizio, non è semplice. Non lo è per un motivo in apparenza banale e noto a chi si occupa di storiografia.

Un ragionevole punto di inizio delle vicende che hanno influenzato il successivo sviluppo degli eventi, senza voler necessariamente risalire alla ben nota battaglia di Kosovo Polje avvenuta nel 1389, potrebbe essere individuato nell’ultimo decennio di esistenza della Jugoslavia socialista, ovvero gli anni Ottanta del secolo scorso. Con ciò non si vuole ignorare la storia del Novecento e quanto avvenuto in Kosovo a partire dal 1912 sino al 1980, ma varie dinamiche che in parte sono ancora in atto oggi prendono avvio tra gli anni Ottanta e Novanta.

Quadro di Adam Stefanović raffigurante la battaglia di Kosovo Polje (Piana dei Merli) del 28 giugno 1389 (Wikipedia)

Dopo la morte del maresciallo Josip Broz Tito nel 1980, la Jugoslavia ha iniziato ad affrontare una serie di problemi di natura economica, finanziaria, sociale, politica e, naturalmente, delicate questioni legate ai nazionalismi interni. In quella fase storica, la costituzione vigente in Jugoslavia (in vigore dal 1974) fu adottata dopo alcuni anni di intensi dibattiti e opposte visioni, e diede al paese una forma estremamente ampia di autonomia amministrativa alle otto unità federali, ovvero le sei repubbliche e le due province della Serbia, la Vojvodina e il Kosovo. Le ampie prerogative delle unità federali, che hanno condotto a una sistematica disfunzionalità dello stato jugoslavo e tra la Serbia e le sue province, erano ricondotte all’unità e disciplinate essenzialmente da tre elementi, ovvero Tito, il partito unico e l’esercito.

Venuto meno Tito iniziarono i problemi. Nel 1981 la popolazione albanese del Kosovo iniziò a protestare, ritenendo non adeguato il livello di autonomia vigente. Si giunse quindi a chiedere lo status di repubblica anche per il Kosovo. Tutto ciò venne ritenuto inaccettabile, le manifestazioni vennero represse con l’uso della forza. Da lì in poi, in Kosovo si venne a creare l’equivalente di uno stato di polizia a scapito della popolazione albanese, ed in particolar modo verso quegli elementi sospettati di essere irredentisti o separatisti. Occorre inoltre tenere a mente che il Kosovo era il territorio meno sviluppato, più povero e con il maggior tasso di crescita demografica di tutta la Jugoslavia.

Prima dell’arrivo di Slobodan Milošević, divenuto presidente della Lega dei comunisti della Serbia nel 1986, cooptato al potere dal suo mentore politico Ivan Stambolić, la situazione in Kosovo era divenuta complessa anche per altre ragioni. Infatti, la popolazione serba e montenegrina (minoranza in Kosovo), da anni lamentava di essere vessata, di essere attaccata dalla maggioranza albanese. Più in concreto, la popolazione slava-ortodossa sosteneva che, ad esempio, i fienili venissero incendiati, che le donne o ragazze della loro comunità fossero vittima di stupri da parte di uomini albanesi oppure si sosteneva che i cimiteri ortodossi venissero profanati e così via in un elenco interminabile di atti violenti. Non solo, intorno alla metà degli anni Ottanta, si giunse a sostenere apertamente che la popolazione serba e montenegrina fosse vittima di un genocidio, perpetrato a loro danno da parte della maggioranza albanese, il cui fine era la pulizia etnica. Tali termini, molto forti, vennero ripresi anche dai politici comunisti serbi dell’epoca durante discorsi pubblici, ancora prima di Milošević.

I comunisti albanesi del Kosovo, dal canto loro, cercavano di gettare acqua sul fuoco, di minimizzare, sostenendo che in fondo il flusso migratorio dei serbi e montenegrini dal Kosovo, che molto spesso vendevano le loro case ad albanesi, era sostanzialmente in linea con un analogo forte flusso migratorio di albanesi che cercavano fortuna altrove, magari in Slovenia oppure in Svizzera o Germania. I comunisti serbi erano scettici verso tali motivazioni, e non di rado sostenevano che il denaro utilizzato dagli albanesi per acquistare gli immobili dei serbi kosovari provenisse dalla criminalità organizzata albanese kosovara dedita al traffico di stupefacenti.

Ora, all’inizio della seconda metà degli anni Ottanta, il Kosovo divenne ben presto uno dei maggiori problemi, di difficile gestione, da parte di una classe politica jugoslava sempre più delegittimata a causa della grave crisi economica in cui era piombato il paese. Chiunque avesse dovuto affrontare la gestione del problema del Kosovo, non avrebbe di certo potuto risolvere facilmente i problemi, anzi. Inoltre, da alcuni anni gli intellettuali di orientamento nazionalista, in Serbia, avevano iniziato a diffondere, con un notevole successo editoriale e di pubblico, numerosi testi, come ad esempio romanzi storici, in cui di norma si lamentava il fatto che i serbi fossero vittime nella Jugoslavia socialista.

Sono concetti che verranno ripresi dal famoso Memorandum dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Belgrado, risalente al 1986. Ma, al di là dello scandalo sorto all’epoca attorno ad esso, è bene ribadirlo, la diffusione di testi o prodotti culturali di matrice nazionalista serba – nel periodo antecedente all’ascesa al potere di Milošević – era decisamente ampia. Per inciso, Milošević è stato “eletto” presidente della presidenza della Lega dei comunisti della Serbia nel 1986, ma all’epoca era un personaggio sconosciuto. Per “ascesa al potere” si intende la grande popolarità ottenuta presso la popolazione serba nel periodo compreso tra il 1987 ed il 1989.

Tuttavia Milošević, ex direttore d’azienda nonché ex banchiere, dunque un membro a pieno titolo dell’establishment comunista jugoslavo, a partire dal 1987 inizia un nuovo corso per il Kosovo, la Serbia e la Jugoslavia. Nelle sue intenzioni dichiarate intendeva proteggere i serbi e i montenegrini del Kosovo, fare in modo che si sentissero sicuri e protetti nella loro terra. Questa politica è iniziata con purghe all’interno del partito contro tutti coloro che manifestavano dissenso verso questa nuova linea (e lo stesso mentore di Milošević, Stambolić, rientrò in tali estromissioni dalla politica attiva mentre ricopriva la carica di Presidente della presidenza della repubblica socialista di Serbia) e con una aggressiva propaganda mediatica, dove il Kosovo divenne l’alfa e l’omega del flusso informativo, sempre in prima pagina. Milošević divenne agli occhi della popolazione, grazie a un’abile strategia mediatica, il nuovo paladino che avrebbe riscattato le sorti della Serbia. Colui che avrebbe impedito l’esodo dei serbi dal Kosovo. Milošević parlava un linguaggio chiaro, diretto, almeno per i parametri dell’epoca, imbevuti di cervellotici e spesso incomprensibili riferimenti al socialismo autogestito. Fu l’inizio di una fase politica, in Serbia, demagogica, populista, nazionalista e aggressiva. Il tutto accompagnato da uno sbandierato senso di rivalsa nei confronti del Kosovo.

Le celebrazioni per il seicentesimo anniversario della Battaglia di Kosovo Polje, nel 1989, furono l’occasione non solo per il famoso discorso di Milošević (quello tenuto a Gazimestan il 28 giugno, in cui afferma che non si sarebbero potuti escludere conflitti armati in futuro, retrospettivamente letto come un dichiarazione di guerra per quanto sarebbe avvenuto dal 1991), dove si suppone abbiano preso parte circa un milione di serbi. Al contrario, furono il pretesto per diffondere nella popolazione serba tutta una serie di prodotti culturali, come libri, film e altro, aventi per oggetto, appunto, la Battaglia di Kosovo Polje (o Piana dei merli, in italiano).

Comizio di Slobodan Milošević a Gazimestan, 1989 (Radio Slobodna Evropa)

Non fece eccezione il noto poeta Matija Bećković, con il suo ciclo di lezioni, tenuto nel 1989 in Jugoslavia, Europa e Australia, dal titolo Kosovo – najskuplja srpska reč (Kosovo – la parola serba più costosa). Ed è proprio all’interno dell’omonima poesia in quel ciclo di lezioni che Bećković, riferendosi alla parola Kosovo, scrive che è una parola che è costata molto sangue al popolo serbo nel passato e che “senza sangue non si può neppure vendere”. Palesemente alludendo al fatto che così come nei secoli precedenti, ancora nel 1989 il Kosovo doveva essere difeso con il sangue dei serbi. Bećković non era affatto un’eccezione, in quel momento storico in Serbia, e Milošević ne era consapevole. Il rinascimento culturale nazionalista serbo negli anni Ottanta ha fornito un’opportunità politica a Milošević, con catastrofiche conseguenze negli anni immediatamente successivi per milioni di, ormai ex, jugoslavi. Oltre agli intellettuali e ai comunisti serbi, anche la Chiesa ortodossa serba ha avuto un ruolo estremamente importante nel revival nazionalista serbo.

Milošević e l’establishment serbo, si posero l’obiettivo di emendare la costituzione della Serbia e di reintegrare le due province all’interno di essa. Inutile dirlo, entrambe le province non erano intenzionate a rinunciare alle proprie prerogative. Dunque, attraverso una serie protratta di “spontanee” manifestazioni popolari (in realtà organizzate e controllate da Belgrado), in cui si denunciava la grave situazione in cui versavano i serbi del Kosovo, si giunse ad attuare, attraverso i moti delle piazze, forzate e illegittime dimissioni da parte dei politici al vertice delle province. Peraltro, nonostante alcune aspre polemiche con i politici della Slovenia, con il consenso fattuale da parte delle altre repubbliche jugoslave e dell’esercito. Tra il 1988 e il 1989, attraverso la cosiddetta “Rivoluzione antiburocratica”, la Serbia è giunta a controllare la metà delle unità federali, ovvero la Serbia, la Vojvodina, il Kosovo e il Montenegro. Con un equivalente peso in seno alle istituzioni federali, sia dello stato che del partito (federato su scala repubblicana – e provinciale – ma unico).

Ora, partendo da tali presupposti, è piuttosto evidente che la popolazione albanese del Kosovo non potesse gradire una simile evoluzione. Coloro che si opposero a simili azioni, come Azem Vllasi, allora a capo dei comunisti del Kosovo, un fedele titoista e probabilmente uno dei membri dell’elite politica kosovara maggiormente simpatetici verso l’ideale jugoslavo, venne fatto arrestare da Milošević. Gli emendamenti alla costituzione serba avvennero nel marzo del 1989 e furono celebrati in pompa magna da Belgrado. Nel settembre del 1990, venne invece adottata la nuova costituzione della Serbia.

I vari diritti di cui avrebbero goduto le minoranze in Serbia stando al testo costituzionale, in realtà rimasero lettera morta. Nella fase di dissoluzione della Jugoslavia, nel 1991 gli albanesi del Kosovo indissero un referendum clandestino e proclamarono, a loro volta, l’indipendenza dalla Serbia, sebbene, a differenza di quanto avvenne in Slovenia o Croazia, non vi fu un seguito. Il Kosovo successivamente si dotò anche di un governo ombra e di un presidente della repubblica, ovvero Ibrahim Rugova. Rugova cercò di portare avanti la causa dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia attraverso mezzi pacifici. Nel frattempo, la frattura con Belgrado si ampliò, perché a partire dalle prime libere elezioni in Serbia, nel dicembre 1990, gli albanesi kosovari non presero parte al voto, ovviamente come forma di protesta, e si vennero a creare delle istituzioni parallele, come scuole o ospedali. Questo avvenne anche perché in larga misura gli albanesi che lavoravano per le istituzioni vennero estromessi dalla pubblica amministrazione.

Nel corso degli anni Novanta, le denunce di violazione dei diritti umani da parte degli albanesi in Kosovo divennero sistematiche. Solitamente si trattava di arresti, torture, anche uccisioni, piuttosto che sequestri di beni materiali, intimidazioni, e ben presto si parlò di uno stato di apartheid generato e alimentato dal furente nazionalismo serbo di Belgrado. Il termine spregiativo serbo “šiptar”, usato per indicare in termini offensivi gli albanesi del Kosovo, era largamente utilizzato sui media così come da vari politici, e lo si poteva riscontrare anche in documenti della pubblica amministrazione della Serbia.

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Come radicalizzare un conflitto

Alla luce di quanto sopra, per quanto possa essere una ricostruzione inevitabilmente incompleta, si può quantomeno intuire sia la complessità delle vicende, sia la delicatezza delle tematiche toccate, ma anche come la questione del Kosovo, durante gli ultimi anni di esistenza della Jugoslavia, venne trattato con arroganza e unilateralismo. Le soluzioni vennero imposte con la forza, ad una parte, e negate all’altra. Ancora nel 1989, in maniera assolutamente arbitraria e apparentemente ignorando i cambiamenti epocali che stavano avvenendo nel resto dell’Europa orientale, moltissimi albanesi del Kosovo venivano arrestati con l’accusa di essere dei controrivoluzionari, ovvero di andare contro la rivoluzione socialista. Mentre la Serbia inneggiava al mito di Kosovo Polje e sottolineava l’importanza dei monasteri serbi ortodossi in Kosovo e Metohija, la popolazione albanese era sempre più estraniata, dando vita ad una sorta di intifada.

Ora, provando a ripercorrere rapidamente alcuni passaggi, e senza ignorare il fatto che già alla fine degli anni Sessanta del Novecento furono molte le voci in Serbia contrarie a quella che poi divenne nel 1974 la nuova (e ultima) costituzione della Jugoslavia, così come l’importanza delle manifestazioni albanesi del 1981 in favore della trasformazione del Kosovo in una repubblica jugoslava, la gestione delle questioni più scottanti da parte di Milošević, a partire dal 1987, fu una calamità, per il Kosovo, per la Serbia e per la Jugoslavia. Perché pur essendoci dei problemi tra le due comunità, quella albanese e quella serba, la scelta politica di Milošević di ignorare completamente la controparte e di procedere con una politica oltranzista dello scontro e del fatto compiuto, ha portato ad alienare del tutto la già scarsa fiducia e la legittimità della popolazione albanese nei confronti della Serbia e di Belgrado. Questo è stato, senza dubbio, un grave errore, una mancanza di strategia politica, che è costato molto alla Serbia, e gli effetti di tali scelte incidono ancora oggi sulla vita della regione, sia in Serbia che in Kosovo.

Come rendere inevitabile un conflitto

Negli anni Novanta due visioni massimaliste si sono affrontate e scontrate, quella di Milošević, che considerava il Kosovo una questione interna della Serbia, e quella di Rugova, che, seppur pacificamente, intendeva raggiungere la piena indipendenza dalla Serbia. Il Kosovo è stato controllato in quel decennio con la forza e la repressione. Quando, con l’intervento dell’amministrazione della presidenza di Bill Clinton, al termine del 1995, si giunse agli accordi di pace di Dayton che posero fine al conflitto in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, per gli albanesi del Kosovo il messaggio fu chiaro. Senza la violenza armata, così come dimostrato da alcune ex repubbliche jugoslave (ad esempio la Croazia) non avrebbero potuto raggiungere il loro obiettivo indipendentista. Fu allora che il metodo pacifista di Rugova perse terreno e credibilità all’interno dei suoi sostenitori tra gli albanesi del Kosovo, in favore del nascente Esercito di liberazione del Kosovo. Quest’ultimo iniziò una serie di attività di natura terroristica ai danni soprattutto della polizia serba e dell’esercito jugoslavo (ma anche a scapito di civili), proprio negli anni successivi agli Accordi di pace di Dayton.

Soldati dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), 1998 (Reddit)

La risposta di Belgrado, dopo aver temporaneamente perso il controllo di circa la metà del territorio del Kosovo nella prima metà del 1998, fu molto dura. Nelle azioni di eliminazione, da parte di Belgrado, delle forze dell’Esercito di liberazione del Kosovo, persero la vita anche molti civili, e un massiccio numero di rifugiati albanesi kosovari, nell’ordine delle decine di migliaia e poi delle centinaia di migliaia nel corso del 1998. Paradossalmente, le azioni brutali delle forze di sicurezza di Belgrado compiute anche a scapito dei civili kosovari, nonché la crescente massa di rifugiati interni che si stava spostando anche verso i paesi confinanti, come l’Albania e la Macedonia (con possibili e temuti effetti interni destabilizzanti), in qualche modo aiutarono la causa degli indipendentisti albanesi del Kosovo. Perché i paesi Nato, sino ad allora, furono estremamente riluttanti a supportare la causa dell’indipendentismo albanese, (di fatto, nessun paese occidentale era in favore di tale opzione) consapevoli delle ripercussioni che ne sarebbero sorte.

Conseguentemente, a differenza di quanto avvenne per la Croazia e per la Bosnia ed Erzegovina, dietro spinta degli Stati Uniti (così come per Dayton), si decise di minacciare un intervento militare direttamente rivolto verso la Jugoslavia (composta da Serbia e Montenegro), anche in assenza di una risoluzione ad hoc delle Nazioni Unite (perché si reputava che vi fossero elementi sufficienti per giustificare, sul piano del diritto internazionale, per scopi umanitari, una simile azione). Azione Nato che, in effetti, prese avvio il 24 marzo 1999 e terminò 78 giorni dopo, dopo mesi di ammonimenti e tentativi di soluzioni diplomatiche, falliti miseramente.

In Kosovo, sin dal 1998 il numero dei rifugiati interni, così come dei profughi, a causa degli scontri tra le forze di sicurezza della Serbia e i ribelli dell’Esercito di Liberazione del Kosovo, stava crescendo, generando molta apprensione in Europa. Sulla scorta dell’esperienza, allora recente, del genocidio di Srebrenica, nel 1995, si temeva che un episodio drammatico potesse nuovamente ripetersi sotto gli occhi della comunità internazionale. Madeleine Albright, allora Segretario di Stato dell’amministrazione Clinton, fu senza dubbio uno dei politici di alto livello che cercò di perorare, con maggior forza, la causa dei diritti umani degli albanesi del Kosovo, mentre invece il regime di Milošević fu paragonato ad una forma contemporanea di fascismo (anche il regime, durante i bombardamenti della Nato nel 1999, paragonò l’amministrazione Clinton al fascismo e al nazismo). Ci si trovò di fronte a una situazione umanitaria potenzialmente esplosiva, e si reputava che la minaccia dell’uso della Nato contro la Jugoslavia potesse condurre Milošević a più miti consigli (strategia peraltro già testata in Bosnia e che ha condotto alla pace di Dayton). Tant’è vero che nell’ottobre del 1998, con la mediazione del diplomatico statunitense Richard Holbrooke, in effetti si giunse ad un accordo che però, ben presto, venne contraddetto dagli eventi sul terreno.

Sin dal termine della presidenza di George Bush “padre”, passando per le due successive amministrazioni di Clinton, la Serbia venne direttamente ammonita da Washington, per anni, per via del Kosovo. Infatti, gli Usa temevano, in sostanza, che una guerra nel Kosovo avrebbe potuto avere un grave effetto destabilizzante nel sud dei Balcani, con gravissime conseguenze per la sicurezza e la stabilità in Europa e, di conseguenza, per gli interessi americani. Questa fu una delle ragioni che Clinton utilizzò nel marzo 1999 per giustificare, di fronte ai cittadini americani, l’intervento della Nato contro la Jugoslavia.

A margine, si può solamente constatare che la guerra in Bosnia ed Erzegovina, iniziata nell’aprile del 1992 e primariamente a causa dei secessionisti serbi di Pale supportati da Belgrado, non rappresentava agli occhi delle amministrazioni americane (e, apparentemente, per le cancellerie europee stesse) un interesse primario per la sicurezza in Europa, almeno non sino all’intervento Nato (sotto mandato Onu) contro l’Esercito della repubblica serba di Bosnia che condusse poi agli accordi di Dayton nel 1995.Nel giugno del 1999 si giunse infine agli accordi tecnico-militari di Kumanovo (attuale Macedonia del Nord), che a loro volta condussero alla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, frutto della mediazione che ha visto coinvolte l’Unione Europea e la Russia, oltre ovviamente agli Stati Uniti e alla Jugoslavia. Da allora sono mutati molti aspetti, non da ultima la dichiarazione di indipendenza da parte dell’Assemblea di Pristina nel febbraio 2008.

Una conclusione?

Da un certo punto di vista, è possibile sostenere che la storia recente del Kosovo (e non solo) è un cumulo di numerose problematiche che non sono state gestite in maniera opportuna quando la situazione probabilmente avrebbe permesso soluzioni non violente. Gli attori politici dell’epoca, a partire da Milošević stesso, erano consapevoli della situazione, dei rischi e delle ripercussioni che vi sarebbero state, perché gli apparati dello stato, sia all’interno della diplomazia, sia all’interno dell’esercito, avevano avvisato infinite volte il presidente serbo degli scenari possibili a seconda delle scelte. La comunità internazionale ha avvisato, ammonito e mediato altrettante infinite volte con Belgrado. Inoltre, a partire dai primi anni Novanta, in ambito internazionale, le conferenze, i convegni, i dibattiti, di carattere accademico, diplomatico e quant’altro, aventi per oggetto il nodo del Kosovo e di come instaurare un clima di fiducia con Belgrado sono state altrettanto infinite, così come del resto lo sono state in Serbia, coinvolgendo alcuni tra i massimi esponenti intellettuali del paese.

Invariabilmente le proposte spaziavano tra il dare la massima autonomia all’interno dei confini della Serbia oppure, in alternativa, una spartizione del territorio, in cui la Serbia avrebbe trattenuto per sé il 30-40% circa della provincia. Immancabilmente, i politici, a Belgrado, rigettavano la proposta, così come del resto a Pristina, dove Rugova, con grande determinazione, non voleva null’altro che l’indipendenza del Kosovo, a volte causando peraltro malumori tra alcuni diplomatici europei.

Ibrahim Rugova e Slobodan Milošević durante un colloquio nell’aprile 1999

Negli anni Novanta, quando oggettivamente molti problemi inerenti il Kosovo erano ormai sulla soglia di un punto di non ritorno, nonostante gli sforzi della comunità internazionale, i moniti, gli avvisi, le opportunità totalmente mancate di poter risolvere pacificamente i problemi – perché è chiaro che tutte le guerre jugoslave erano evitabili e tutti i problemi avrebbero potuto essere risolti con il dialogo – in maniera ostinata e cocciuta si è scelta sistematicamente la strada peggiore, i problemi non sono stati affrontati, sono stati posticipati, nel frattempo le relazioni sono ulteriormente deteriorate tra le comunità. La Guerra del Kosovo, tra il 1998-1999, ha lasciato, se mai ce ne fosse stato il bisogno, così come accaduto negli anni precedenti in Croazia ed in Bosnia ed Erzegovina, profonde tracce di sofferenza, paura e odio.

In effetti, la storia del Kosovo è anche, se non forse soprattutto, una storia delle emozioni, una storia del dolore e delle sofferenze di due popoli. Le esperienze soggettive differenti (le vittime delle forze di polizia, dei militari e dei paramilitari serbi – inclusi i volontari russi – le vittime dell’Esercito di liberazione del Kosovo, le vittime della Nato), così come gli interessi di parte delle élite politiche della regione, hanno contribuito alla costruzione di narrazioni storiche differenti tra loro, in contrasto, scarsamente sovrapponibili, non dialoganti, che tendono a mettere in secondo piano, o direttamente a non prendere in considerazione, gli errori commessi dalla propria fazione o comunità, senza spirito autocritico insomma. Chi lo ha fatto, viene accusato di essere un traditore della patria, un venduto al soldo straniero e così via. È evidente che la riconciliazione è ancora un obiettivo decisamente distante.

Dunque, a distanza di quindici anni dalla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, ancora moltissimi problemi restano irrisolti. A partire dal fatto che secondo la Costituzione della Serbia il Kosovo è una provincia della Serbia (e non v’è ad oggi la volontà politica, a Belgrado, di riconoscere pienamente l’indipendenza del Kosovo), così come secondo la risoluzione 1244 che conferma l’appartenenza del Kosovo alla Serbia (e la Russia, assieme alla Cina, sostiene la Serbia su questa posizione), oltre al fatto che vi è una ulteriore spaccatura, anche all’interno dei paesi membri dell’Ue e della Nato, sul riconoscimento del Kosovo in quanto stato sovrano (e la Serbia sta attivamente conducendo una politica volta a far cambiare idea sul riconoscimento ad alcuni paesi – stando al Ministro degli esteri della Serbia, Ivica Dačić, sarebbero 27 – che già lo hanno fatto). Ad oggi sono poco meno della metà dei paesi del mondo che hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Infine, non va scordata la presenza di varie organizzazioni internazionali con le loro rispettive missioni, tra cui le Nazioni Unite (Unmik), l’Ue (Eulex) e la Nato (K-For), assieme ad una moltitudine di organizzazioni non governative. Aspetti questi che mettono in evidenza (come in Bosnia ed Erzegovina) la presenza forte, senza una effettiva data di scadenza al termine delle missioni, della comunità internazionale e dell’Occidente, ma che restituisce anche un’immagine di statualità e di sovranità ancora incomplete.

Il dialogo tra Belgrado e Pristina, ancora una volta, oggi, dopo la crisi dello scorso dicembre, è sotto i riflettori. Le autorità politiche sono chiamate a delle scelte non facili, sicuramente richiederanno (molto) coraggio. Inoltre, il Presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ai tempi della Guerra del Kosovo era il ministro dell’informazione in Serbia, mentre l’attuale premier del Kosovo, Albin Kurti, era stato arrestato con l’accusa di terrorismo, condannato a 15 anni, per poi essere rilasciato successivamente, dopo la rimozione di Milošević nel 2000. Dunque, anche nella biografia degli attuali attori politici vi sono evidenti tracce del passato, sui due versanti del conflitto.

Alla luce di quanto sopra esposto, nella consapevolezza della difficoltà riscontrate in passato, degli errori che sono stati commessi, del dolore così come del rancore nutrito ancora oggi da parte delle comunità, del mancato processo di riconciliazione, delle tensioni locali (si pensi a quanto avvenuto nei mesi precedenti), e tenendo conto dell’aggressione russa dell’Ucraina e del conseguente conflitto in corso da quasi un anno, gli attori politici locali, così come la comunità internazionale, riusciranno a superare le vecchie dispute e affrontare con un nuovo approccio i problemi? Si giungerà ad accettare la proposta franco-tedesca? Si riuscirà a garantire alle generazioni future prospettive migliori, pensando anche a quanti giovani hanno abbandonato i Balcani in cerca di un futuro migliore altrove (o di quanti vorrebbero migrare, come in Kosovo, ma non possono entrare facilmente nell’Ue per via del visto). La proclamazione di indipendenza del Kosovo non risale dunque solamente al 2008 e, da un certo punto di vista, neppure al 1991. La dichiarazione di indipendenza del Kosovo, a ben vedere, non è solamente un punto di partenza e neppure un punto di arrivo. Rappresenta simbolicamente la rottura della fiducia verso le istituzioni di Belgrado, che a sua volta risale quantomeno al 1989 e alla antecedente Rivoluzione antiburocratica. Riusciranno i leader politici a compiere scelte difficili, sicuramente impopolari, nel tentativo di costruire un metodo di soluzione dei conflitti politici senza dover necessariamente minacciare il ricorso alla forza armata e gettando le basi per un’Europa sud orientale pacifica, democratica e prospera? Forse, i prossimi mesi, potranno offrire delle risposte, a meno che non si voglia nuovamente rimandare i problemi guadagnando tempo, e se le potenze straniere non andranno ad alimentare, se mai ce ne fosse il bisogno, le forze più conservatrici, nazionaliste ed estremiste.

* Nato nel 1979, ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Storiche presso l’Università del Piemonte Orientale nel 2013 con una tesi sull’ascesa al potere di Milošević nella seconda metà degli anni Ottanta. Insignito della Visegrad Fund Scholarship, attualmente conduce attività di ricerca sulla Guerra del Kosovo presso gli Open Society Archives – Central European University a Budapest, ed è fellow presso il Center for Advanced Studies – Southeast Europe, University of Rijeka.

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