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Il conflitto scoppiato il 24 febbraio 2022, oltre agli ovvi aspetti di natura militare, risulta una guerra di logoramento economico tra Ucraina e Russia. Fino a quando l’Ucraina, che non ha un’economia strutturata per resistere a una guerra, e che in questi dodici mesi di conflitto è stata parzialmente distrutta, potrà reggere? E d’altronde, per quanto tempo la Russia, colpita fortemente dalle sanzioni, avrà un’economia forte a sufficienza per sostentare gli sforzi bellici? È dunque anche una guerra di logoramento economico nella quale vince chi saprà resistere di più.
L’economia di guerra in Ucraina
Partiamo da un numero: 30,4%. Questo è il dato che rappresenta il calo di prodotto interno lordo nel 2022 secondo le prime stime del ministero dell’Economia di Kyiv e che sintetizza bene, senza grandi necessità di commenti, l’impatto della guerra sull’economia ucraina. Se confrontato alla serie storica dell’andamento del PIL dall’indipendenza mai il dato era stato tanto negativo, con la possibilità di qualche piccolo paragone con il 2015 (-9,8%) ed il 2009 (-15,1%).
Si fa difficoltà a non trovare ambiti dell’economia dove la guerra non ha avuto effetti pesanti. Si pensi alla metallurgia, dove l’Ucraina ha sempre prodotto ottimi risultati ed il cui export ha trainato l’economia nazionale: un crollo di oltre il 60% di produzione rispetto al 2021 (dato Istituto di Statistica Ucraino). L’immagine delle acciaierie Illič e Azovstal’ di Mariupol’ (rispettivamente seconda e terza acciaierie del paese), teatro di aspri combattimenti nella primavera scorso non hanno certamente bisogno di descrizione.
Il settore dell’energia è diventato un bersaglio specifico dell’offensiva russa. La principale raffineria del Paese, sita a Kremenčuk, è stata distrutta da un missile a marzo 2022, e stessa sorte è toccata successivamente ai siti di produzione e stoccaggio di Kyiv, che hanno spinto l’Ucraina, dall’essere un paese esportatore, a doversi rivolgere all’estero. Nella stessa ottica si può comprendere l’occupazione della centrale nucleare di Zaporižžja, la più grande d’Europa, ed i ripetuti attacchi missilistici ai sistemi di approvvigionamento energetico delle altre tre centrali nucleari ancora sotto controllo ucraino (il 23 novembre 2022 sono rimaste inattive contemporaneamente tutte e tre, per esempio).
Il settore agricolo è calato del 29% nel 2022 sull’anno precedente (dati del ministero Politiche Agrarie e Alimentari ucraino). E non è difficile capire il perché: le zone contese hanno terreni diventati in buona parte campi minati, e dalle zone sotto controllo russo i raccolti, ove presenti, si dirigono in Russia. A tutto ciò si aggiunge la difficoltà, di poco migliorata dall’accordo mediato dalla Turchia dell’agosto ’22, di poter esportare i prodotti agricoli via mare.
A ciò si deve aggiungere che lo Stato deve far fronte in maniera massiccia alle spese militari (economia di guerra) che sono cresciute di oltre l’800% e che hanno rappresentato circa il 42% del budget complessivo (dati ministero delle Finanze ucraino).
L’Ucraina non è certamente in grado di far fronte autonomamente a questo quadro, e infatti ad oggi sono i supporti finanziari da parte di paesi stranieri a permettere all’Ucraina di rimanere a galla, garantendo circa il 23% di tutte le entrate, pari a circa 30 miliardi di dollari che, uniti all’assistenza umanitaria e militare ha portato il totale degli aiuti economici a circa 122 miliardi di dollari, pari a circa il 60% del suo PIL (dati del ministero delle Finanze ucraino).
Nel 2023 lo scenario non cambia molto: il supporto finanziario dall’estero è previsto essere di almeno 38 miliardi di dollari, e non sarà facile far quadrare i conti. Ma è qui che, forse con un po’ di fantasia, si vede la luce, facendo prevedere alle istituzioni finanziarie mondiali e alla Banca Nazionale Ucraina un PIL in crescita nel 2023, seppur di pochi punti percentuali (per la BNU tra +4% e +2% in base ad un eventuale termine del conflitto, per il FMI un +1%). Una magra consolazione pensando che la Kyiv School of Economics aveva stimato, a settembre dell’anno scorso, che per la ricostruzione sarebbero serviti almeno 350 miliardi di dollari, cifra di molto sottostimata e che andrebbe aggiornata ad oggi.
L’economia di guerra in Russia
Russia: una crisi controllata, che non si riesce a controllare
Che Putin avesse già abbastanza chiare le idee rispetto all’aggressione all’Ucraina molti mesi prima dell’attacco si può comprendere, col senno del poi, dall’aumento costante delle riserve della Banca Centrale russa, che hanno toccato un picco proprio alla vigilia della guerra (643 miliardi di dollari).
Il presidente russo, che presumibilmente credeva fortemente in una guerra veloce e circoscritta, credeva di potersi affidare alle riserve per affrontare sanzioni occidentali nello stesso modo in cui aveva fatto – con successo – con l’occupazione della Crimea nel 2014. Ma la storia è andata in modo differente.
Certo, tra chi sostiene che la Russia sia sull’orlo della bancarotta e chi dice che le sanzioni non stanno funzionando, la verità sta nel mezzo.
I dati non sono buoni, ma potevano essere molto peggio. Il PIL, nel 2022, è diminuito di una forchetta che va dal -2,2% al -3,9% (-2,2% FMI, -3,5% Banca Mondiale, – 3,9% OCSE – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), molto meglio di quanto previsto nei primi mesi del conflitto da alcuni analisti che parlavano di 10%-15% di calo. E il 2023, seppur sia prematuro fare stime, potrebbe addirittura vedere una risalita del PIL (il FMI prevede uno 0,3% di crescita, la Banca Mondiale un calo del 3,3% e l’OCSE un calo del 5,6%).
Si deve riconoscere a Elvira Nabiullina, governatrice della Banca Centrale russa, di esser stata in grado di gestire una situazione che sembrava senza ritorno. Basti pensare al valore del rublo, che schizzò da circa 85 contro l’euro nei giorni precedenti l’attacco a oltre 140, per poi tornare a valori pre-guerra (oggi il cambio è di circa 80 rubli per 1 euro), e al tasso di inflazione che parallelamente arrivò a toccare un aumento settimanale del 2%.
Nabiullina, tempestivamente, aumentò il tasso di interesse dal 9,5% al 20%, imponendo limitazioni ai prelievi e al cambio in valuta estera e contemporaneamente spinse Putin ad imporre pagamenti in rubli per il pagamento del gas. Forse proprio le competenze riconosciute le hanno permesso di rimanere in sella nonostante le dimissioni presentate a Putin – dimissioni rifiutate – e ancora di più di esternare opinioni pubbliche che in periodo di guerra a pochi vengono concesse, vedasi l’intervento alla Duma nel quale ha invitato a non sottovalutare le sanzioni occidentali.
Dopo i primi mesi la situazione sembra essersi stabilizzata e non c’è dubbio che la Russia ha cercato di aggirare le sanzioni occidentali sostituendo i precedenti partner commerciali occidentali con stati ed aziende di paesi non allineati alle politiche sanzionatorie, soprattutto Cina, India e Turchia. L’import, che nel secondo trimestre si era contratto di quasi il 30%, ha chiuso il 2022 con un meno 9%, e le esportazioni, trainate dagli idrocarburi che rappresentano circa i due terzi complessivi, sono cresciute. In particolare gli introiti da esportazioni di gas e petrolio sono paradossalmente aumentate del 28% nonostante un calo di materia prima esportata: questo è il risultato di prezzi di materie prime cresciute a dismisura, proprio per merito, verrebbe da dire, delle politiche di Putin.
Le sanzioni, rappresentate dal price cap sul petrolio greggio a 60 dollari al barile (100 per i prodotti raffinati e 45 per la nafta) e per il gas naturale a 180 euro Megawattora, oltre alla contemporanea decisione dei paesi dell’Ue di orientarsi a nuovi fornitori hanno completamente cambiato lo scenario.
Il petrolio greggio russo, oltre ad avere un prezzo massimo, è stato nei fatti “bandito” in Ue con alcune eccezioni. Per questo la Russia ora guarda a Oriente, in primis a Cina ed India. Tuttavia il costo di trasporto risulta più impegnativo ed il prezzo è sensibilmente più basso rispetto al Brent o al WTI, proprio a causa della difficoltà di piazzarlo: in questi giorni (23 febbraio, ndr), per fare un esempio il Brent è quotato ad 82$, il WTI a 75$ e l’Urals – il petrolio russo – a 53$. Considerando che nel budget annuale russo l’importo di riferimento inserito è stato di 70 dollari al barile, si capisce facilmente quanto questo dato tendenziale possa impattare.
Pre guerra la percentuale di gas europeo proveniente dalla Russia era circa il 40%, mentre oggi siamo a meno del 15% con un prezzo sul mercato di Amsterdam che si aggira attorno ai 50 euro al Megawatt/ora, contro i circa 300 di agosto. La Russia vuole diversificare i propri clienti ed ha annunciato di voler costruire i gasdotti verso est, ma servono anni per modificare lo scenario e il tempo non gioca a favore di Mosca.
Fino ad ottobre ’22 la Russia è riuscita a tenere il pallino del gioco, ma da novembre i cali consistenti delle importazioni verso l’Ue e dei prezzi sembrano aver invertito la tendenza.
Ma quindi?
Impossibile fare previsioni. Se di certo l’Ucraina ha una sfida per mantenere in piedi la sua economia e non può vincerla senza il supporto dei partner internazionali, per la Russia l’analisi è diversa e più complessa. Essa ha investito tutto su alcuni capisaldi: la scommessa sulla divisione dei paesi occidentali nell’imporre sanzioni, la convinzione che il mercato occidentale per gli idrocarburi russi non sarebbe mai venuto meno completamente, la tendenza ad avvicinarsi alla Cina.
Nei primi giorni del conflitto la Russia era realmente di fronte al rischio di crollare economicamente, ma ha reagito bene tornando a stabilizzarsi fino alla fine del 2022. Tuttavia la sensazione è che le sanzioni possano essere pienamente efficaci solamente ora e che lo diventino sempre più. L’Occidente sembra mantenere una certa compattezza nell’approccio sanzionatorio e ha in buona parte chiuso, limitato o comunque reso meno vantaggioso il mercato europeo per gli idrocarburi russi. La Cina, in tutto ciò, guarda e osserva approfittando del petrolio russo a bassi costi e in generale della situazione. Ma questa è un’altra storia.
* Amante del mondo post sovietico, dove ha studiato, lavorato e dove opera spesso quale osservatore internazionale in missioni di monitoraggio elettorale dell’Osce, Pietro Rizzi, dopo la laurea in relazioni internazionali e un dottorato di ricerca in diritto del lavoro, oggi è responsabile del personale per una multinazionale.