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Goran Vojnović: “Se non fai i conti con la tua storia, ti darà la caccia”

Dopo oltre dieci anni dalla pubblicazione di Cefuri raus! Feccia del Sud via da qui e Jugoslavia, terra mia, arriva finalmente in Italia anche il terzo romanzo dello scrittore, regista e sceneggiatore sloveno Goran Vojnović, grazie a Keller editore e alla traduttrice Patrizia Raveggi. Presentato in anteprima alla seconda edizione della fiera Testo di Firenze lo scorso 26 febbraio, All’ombra del fico è un romanzo che rimarca ancora una volta il talento narrativo e la profondità della scrittura dell'autore “cefuro”; una saga familiare che si estende per tre generazioni, dal secondo dopoguerra ai primi decenni del Duemila, dopo la fine delle guerre jugoslave.

Fare i conti con la propria identità, la grande Storia e quella della propria famiglia: questi sono i temi che danno linfa vitale a tutta l’opera scritta di Vojnović e di questi temi abbiamo parlato con lui in occasione della presentazione fiorentina.
Nello spazio ex-jugoslavo la pluralità di identità era un fenomeno interessante e positivo, di cui forse i suoi stessi abitanti non si rendevano conto al tempo. Dopo la disgregazione del paese siete stati lasciati soli con il vostro bagaglio identitario, e né la società né la politica vi hanno aiutato molto. Come hanno gestito questa eredità le generazioni nate a cavallo con la fine della federazione? È più un valore o un fardello?

Penso entrambi. Credo che l’identità jugoslava fosse un qualcosa in via di costruzione. Il nazionalismo è sempre stato forte nel corso degli anni e anche Tito ne era molto cosciente, perciò non ha mai imposto un’identità jugoslava. C’erano repubbliche separate, cittadinanze separate, anche la lingua si chiamava serbo-croato e non jugoslavo, perché Tito temeva il nazionalismo e, come abbiamo visto poi, ne aveva tutte le ragioni. Credo che la Jugoslavia abbia prodotto quest’identità jugoslava, che però era una minoranza al contrario di quanto si pensi. Nelle città in molti si dichiaravano jugoslavi, mentre nelle zone rurali c’erano serbi, croati, bosniaci, sloveni. Quindi sì, quest’identità era in via di costruzione, ma forse ci sarebbero voluti altri cinquant’anni per arrivare al punto in cui si trovano italiani, tedeschi, spagnoli – paesi che come tutti sappiamo erano composti da diverse nazionalità prima della creazione di un’identità più grande.

Dopo la disgregazione è sparito tutto, non ti era permesso essere jugoslavo, era impossibile, dovevi scegliere tra le le differenti identità a disposizione, che erano tutte troppo strette. Sì, io sono sloveno, ma non solo. Molti della mia generazione hanno avuto lo stesso problema: come comprimere loro stessi in queste nuove identità più piccole? C’è voluto molto tempo per arrivare al punto di dire: “Io ho la mia identità, so chi sono, non ho bisogno di una parola per definirla perché è per me, io spiego me stesso a me stesso e non ho bisogno di un nome”. Il mondo mi può chiamare come vuole, bosniaco, jugoslavo, cefur, ma non è importante perché io sono conscio di cosa sono, chi sono e da dove vengo.

È un processo e molta gente lo sta ancora attraversando. Tutti andiamo incontro a crisi di identità, e quando a queste si aggiunge la disintegrazione del paese che era il tuo e devi decidere chi sei diventa ancora più complicato. Per alcuni è stato più semplice, ma per chi come me veniva da una famiglia etnicamente mista, in cui non si teneva alcun conto della nazionalità, è stato molto più difficile arrivare al punto in cui puoi dire di sapere chi sei senza farti etichettare da nessuno. Quando sei giovane e dici che sei sloveno, ma anche bosniaco, ti rispondono che non è importante, e quindi smetti di specificarlo. Solo più avanti riesci a dire a te stesso: “Io so chi sono e come chiamarmi”.

Un tema ricorrente dei tuoi romanzi è il viaggio, spesso dettato da cause di forza maggiore e complicato dai confini che hanno iniziato a frapporsi tra le persone dopo la caduta della Jugoslavia. Il passaporto jugoslavo era però noto per essere molto più vantaggioso e dare maggiore possibilità di viaggiare rispetto agli altri paesi del cosiddetto blocco orientale. Come sono cambiati i motivi per cui la gente nei Balcani occidentali viaggia e si sposta dal secolo scorso a oggi? Spostarsi è diventato una necessità, una condanna?

Ritengo che nella storia non solo della Jugoslavia, ma di tutta la regione balcanica, ci sia voluto molto molto tempo prima di poter viaggiare per piacere, come fa la maggior parte dei giovani oggi. Prima di allora si viaggiava solo quando serviva, e in realtà nessuno voleva farlo perché non significava mai niente di buono, eri obbligato ad andartene.

Per esempio, nel lato materno della mia famiglia io sono il primo dopo cinque generazioni a vivere nel posto in cui è nato. Tutti si sono spostati per motivi diversi, nella maggior parte dei casi controvoglia. Mia madre si è trasferita per motivi di studio, ma i suoi genitori hanno traslocato perché gli era stato consigliato di farlo, per via della situazione politica in Bosnia al tempo. E i genitori dei suoi genitori si sono spostati perché non c’era abbastanza cibo nella parte occidentale dell’Ucraina, la Galizia.

È una storia lunga e penso che sì, per un breve periodo gli jugoslavi hanno scoperto che viaggiare era un piacere, ma per tragitti limitati, interni al paese, non c’era molta gente che andava all’estero, per paura e per motivi economici. I miei genitori non hanno mai viaggiato fuori dalla Jugoslavia a parte quando andavano a Trieste o Klagenfurt per comprare del cibo; ricordo che mia madre mi aveva portato a Praga nel 1987, una gita per fare compere. Era un periodo diverso per viaggiare, era molto difficile ma non impossibile, semplicemente la gente non era abituata a farlo. Nonostante ciò c’era la sensazione di non essere chiusi dietro la cortina di ferro come negli altri paesi del blocco orientale.

In All’ombra del fico si trovano diversi riferimenti all’italianità, per motivi storici e non solo. In Italia la memoria di quanto è successo nel secolo scorso in Jugoslavia è divisiva e scatena continuamente tensioni e discussioni. Come percepisci il rapporto tra Italia e Slovenia? Come vengono visti gli italiani dagli sloveni?

Trovo che sia una questione molto complessa. Una larga parte della Slovenia è sotto una forte influenza italiana, vi è molto legata, parecchia gente parla italiano. Ci sono storie terribili accadute da entrambi i lati, legate al fascismo, ci sono traumi e ricordi difficili. Le nuove generazioni, pur non essendo state testimoni, hanno i ricordi dei loro nonni. Per la parte di Slovenia dove abito, Lubiana, e la parte di Istria da dove viene mia madre, l’Italia ha sempre rappresentato il grande mondo, ricco, acculturato, dove puoi comprare di tutto. Poi però ovviamente crescendo e vedendo quanta influenza c’è e quanto gli stessi italiani non siano riusciti a risolvere i loro problemi, un irrisolto che influenza anche te, ogni volta che inizia un dialogo con l’altra parte emergono le questioni legate ai tuoi traumi e a quelli dei tuoi vicini. Questo rende tutto molto difficile.

Ad esempio, quando ho girato il mio primo film, una storia sugli italiani obbligati ad abbandonare l’Istria, ricordo che era stato accolto in modo molto diverso nella Slovenia costiera, dove tante persone sapendo ciò che era successo l’avevano apprezzato molto, mentre il resto del paese era rimasto interdetto perché non conosceva la vicenda, non capiva e non gli importava, era una cosa lontana. Anche in alcune parti d’Italia non erano a conoscenza di questa vicenda, ma a Trieste la gente mi ringraziava dicendo che era un film necessario, che raccontava le storie dei loro genitori. Quindi in un certo senso per molte persone è qualcosa di interessante, ma per la maggior parte del paese l’Italia è più una questione di turismo e viaggi, di guadagno, mentre per la gente a Trieste e lungo la costa slovena è una storia dolorosa e complicata.

Pur essendoci state molte critiche quando il presidente sloveno e italiano sono andati a commemorare le foibe insieme, io penso sia stato un fatto di enorme portata per una piccola parte dei due paesi. Per la prima volta ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: sappiamo di avere un problema. È un primo passo. Adesso possiamo iniziare a risolverlo, vogliamo parlarne. È una parte complessa della storia che non può essere annullata.

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Uno dei principali fili rossi che legano i tuoi libri sono i rapporti familiari, in particolar modo quello padre-figlio. C’è una qualche metafora racchiusa in questo legame? È un modo di fare i conti col passato?

Ci sono vari motivi per cui questi legami appaiono nei miei romanzi. Senza dubbio io scrivo di una società molto patriarcale, in cui il ruolo del padre è molto importante, e quando racconti la storia di una famiglia devi mettere il padre davanti, perché è così che la società lo vede, e descrivere come cerca di imporsi sul nucleo famigliare. Ogni padre aspira ad affermarsi come leader, anche quando è debole, indeciso, insicuro, incapace di prendere decisioni e spesso ha la moglie che lo aiuta. Ma è lui il padre. Questo è uno dei motivi. L’altro è che senza dubbio il padre simboleggia la storia, perché quando domandi ai tuoi genitori cos’hanno fatto non ti vengono in mente le madri, ma i padri, perché sai che sono stati loro a giocare i ruoli più importanti nella storia. Non mi riferisco a mio padre, ma in generale in ambito politico, militare, il 99% erano uomini.

Perciò questo legame è importante per me, ma di libro in libro sto spostando la mia attenzione sempre più sulla madre. Il mio secondo romanzo [Jugoslavia, terra mia, NdT] è ovviamente molto incentrato sul padre, che è stato un criminale di guerra, ma la madre è lo spirito del libro, è comunque uno dei personaggi principali. Ora sto cercando di inquadrare la famiglia in un modo diverso. L’anno scorso, quando ho scritto il seguito del mio primo libro [Cefuri raus!, NdT], mi sono concentrato molto di più sulla madre, la quale nella prima parte non ricopriva un ruolo vero e proprio. Nel seguito invece il padre si trova all’ospedale e lei ha più spazio per raccontare la sua storia con le sue parole, ed è stato molto interessante per me entrare di nuovo nella stessa famiglia usando un punto di vista differente.

Penso che ciò che mi interessa davvero sia la famiglia, com’è stata modellata dalle conseguenze della politica e della storia, e l’influenza della storia e della politica sulle relazioni dentro e fuori dalla famiglia – una cosa che accade un po’ dappertutto, ma nei Balcani nell’ultimo secolo è avvenuto in maniera davvero folle.

Qual è la lezione – o le lezioni – che l’Europa, il mondo non ha imparato dalla parabola jugoslava?

Penso che stiamo imparando di nuovo la stessa lezione adesso, con quello che sta succedendo in Ucraina – se non fai i conti la tua storia, la storia ti darà la caccia. Di sicuro è una delle lezioni che gli jugoslavi non hanno imparato, pensando che si potesse dimenticare o riscrivere la storia, che è anche peggio, e andare semplicemente avanti. Ma si torna sempre indietro. E poi sicuramente non abbiamo imparato che i nazionalismi tendono a essere molto problematici, anche se da un lato sembrano andar bene, creano unità, ad esempio quando c’è una calamità naturale e la gente da ogni parte del paese cerca di aiutare, o quando si esulta per una vittoria a calcio può essere davvero bello. Nel mondo complesso in cui viviamo, però, creano problemi molto più grandi.

Perciò ritengo logico quello che sta succedendo ora: quei populisti che sono stati molto nazionalisti in questi anni, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina sono tutti diventati un po’ più silenziosi, cauti e meno populisti. Perché hanno capito che se continuano a gridare la gente li vedrà urlare le stesse cose che urla Vladimir Putin, e avrà paura. Credo che questa sia la lezione che stiamo cercando di imparare di nuovo, ma io non sono molto ottimista. Questa guerra presto o tardi finirà, e poi il populismo in Europa risorgerà di nuovo, con tutti i suoi interessi nazionalisti. Penso che sia una costante battaglia, fin dai tempi dell’Impero austroungarico. È una lezione importante ma difficile da imparare.


All’ombra del fico, Goran Vojnović, traduzione di Patrizia Raveggi, Keller Editore, 2023.

Traduzione dall’inglese di Giorgia Spadoni

Foto di copertina: Gianni Galleri

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Giorgia Spadoni
Giorgia Spadoni

Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di letteratura, storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, dove ha conseguito la laurea in traduzione presso l'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot. Collabora con varie case editrici e viaggia a est con Kukushka tours.