Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Il 20 giugno 2003, con la firma della dichiarazione di Salonicco, l’Unione Europea dichiarava “il suo sostegno inequivocabile alla prospettiva europea dei paesi dei Balcani occidentali”, segnando così simbolicamente l’inizio del faticoso percorso di integrazione europea della regione. Ma se davvero “il futuro dei Balcani occidentali è nell’Unione Europea”, a distanza di vent’anni dalla firma dell’accordo sembra ragionevole porsi qualche domanda in merito all’andamento del processo di allargamento. Da allora, infatti, solo la Slovenia e la Croazia sono diventati paesi membri, rispettivamente nel 2004 e nel 2013, mentre tutti gli altri paesi della regione sono rimasti indietro.
La Serbia e il Montenegro hanno raggiunto da tempo la fase negoziale, che però procede a singhiozzi. La situazione è particolarmente complessa nel caso della Serbia, dove la spinta europeista si sta sempre più affievolendo, anche per via delle posizioni filorusse del presidente Aleksandar Vučić e del difficilissimo dialogo con il Kosovo, per il quale la prospettiva europea rimane poco più che un miraggio, data la recente indipendenza, non riconosciuta da cinque paesi europei (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia, Spagna).
Ultimamente, però, ci sono stati degli eventi apparentemente incoraggianti: nella seconda metà del 2022 sono iniziati, dopo anni di stallo, i negoziati con Albania e Macedonia del Nord ed è stato conferito lo status di paese candidato alla Bosnia Erzegovina. Non bisogna però dimenticare che queste decisioni, definite come momenti storici nell’entusiasmo generale, sono state prese subito dopo che le istituzioni europee hanno riconosciuto anche Moldova e Ucraina come paesi candidati, principalmente per rimarcare il posizionamento filoeuropeo dei due paesi. Diventa quindi facile intuire che si tratta di una serie di decisioni politiche, non di certo prese in base ad una valutazione dei progressi fatti dai paesi in questione. Non sembrano esserci, quindi, garanzie che il processo di adesione all’Ue di Albania, Bosnia Erzegovina e Macedonia del Nord abbia fatto dei solidi passi avanti e proseguirà in modo fluido in futuro.
Di fronte a questo scenario sconfortante, occorre però ricordare che, almeno sulla carta, la prospettiva d’integrazione europea dei Balcani occidentali è ancora un processo altamente desiderabile. L’Unione Europea resta infatti un attore che ha tutte le carte in regola per assicurare pace, stabilità politica e sviluppo economico ai paesi limitrofi. L’Ue ha il potenziale per guidare in modo positivo le necessarie riforme delle strutture statali, dell’economia di mercato e del sistema giudiziario, soprattutto nell’ottica della necessità di portare avanti la riconciliazione post-conflitto nella regione. L’allargamento dell’Ue ai Balcani occidentali era ed è un interesse strategico comune. Che cosa, allora, lo rende così complesso?
Una questione di credibilità
Dopo così tanti anni, quel sostegno inequivocabile dell’Ue sancito a Salonicco e ribadito con sempre meno convinzione ha perso quasi del tutto di credibilità. L’Unione, infatti, si basa ormai quasi esclusivamente sulla desiderabilità di un futuro europeo per i paesi di Balcani occidentali per incentivare l’attuazione delle riforme necessarie, presupponendo che questi seguano le sue indicazioni alla lettera. In altre parole, l’Ue sta mettendo a punto meccanismi sempre più complessi e stringenti per il processo di adesione senza però riuscire ad avere reale incisività sulla complicata situazione sociopolitica della regione.
La metodologia rivista, introdotta nel 2020, ha tra i suoi obiettivi quello di ridare credibilità al processo di allargamento, con insistenza sulle riforme politiche (stato di diritto, istituzioni governative, amministrazione pubblica). Nella pratica però, le novità introdotte si traducono in eccessive complicazioni burocratiche e procedurali che non hanno l’effetto sperato. Anche il sostanziale aumento dei fondi allocati per l’allargamento, aumentati da 11,5 miliardi di euro per il periodo 2007-2013 ai 14,2 miliardi stanziati nel 2021, sembra mancare dell’incisività sperata. Questo atteggiamento, visto nel complesso, tradisce un fare paternalistico: l’Ue si presenta come l’attore il cui intervento esterno può essere provvidenziale per risolvere i problemi interni della regione, se solo i paesi interessati mostrassero un adeguato livello di impegno.
Ancor più grave, tra gli atteggiamenti dell’Ue che ne minano la credibilità, è la sua tendenza a sostenere quelle che vengono definite stabilitocrazie, ovvero governi con tendenze visibilmente illiberali che però sanno assicurare un certo livello di stabilità. Il caso più evidente è quello del Montenegro, dove Đukanović occupa le posizioni di potere più importanti del paese (alternando tra il ruolo di presidente e primo ministro) da più di trent’anni. In questo lasso di tempo, ha creato uno stato caratterizzato da corruzione endemica e scarso rispetto dello stato di diritto. L’altro esempio degno di nota è quello di Vučić in Serbia, leader nazionalista indiscusso e molto popolare, molto criticato, tra le altre cose, per le limitazioni della libertà di stampa ed il controllo dei media. Sembra qui superfluo menzionare che tollerare l’esistenza di questo tipo di regimi nei Balcani occidentali è un comportamento che, pur avendo la sua validità strategica, risulta incoerente se consideriamo che l’Unione europea ha tra i suoi principi fondamentali la difesa dei valori democratici e delle libertà fondamentali.
Il problema dell’Euroscetticismo
Secondo i dati dell’Eurobarometro del 2022, ormai soltanto due terzi della popolazione dei Balcani occidentali guarda con favore alla prospettiva europea della regione. Se accostiamo questo dato al fatto che quasi il 30% ha perso del tutto le speranze nel fatto che i paesi dei Balcani occidentali saranno mai parte dell’Unione Europea, notiamo che l’euroscetticismo è diventato un problema rilevante. Forti segnali di opposizione vengono non solo dalla popolazione, ma anche dai partiti e dai governi della regione, che stanno assumendo posizioni sempre più antieuropee.
La posizione più problematica è probabilmente quella della Bosnia, dove Milorad Dodik, leader della Republika Srpska, non nasconde le posizioni filorusse o le ambizioni secessioniste, e ha contrastato apertamente in più occasioni il cammino europeo del paese, contestando l’eccessiva ingerenza dell’Ue negli affari interni della Bosnia. Un altro paese dove le posizioni antieuropee si sono recentemente inasprite è la Macedonia del Nord, dove l’inizio dei negoziati ha creato una profonda frattura all’interno del paese. I partiti nazionalisti di opposizione hanno contestato che l’inizio dei negoziati, avvenuto in seguito ad un accordo con la Bulgaria, ha un prezzo troppo elevato: se, da un lato, l’accordo permette di superare il veto bulgaro che ha bloccato per due anni il percorso di Skopje verso l’Ue, dall’altro, obbliga la Macedonia a mantenere buone relazioni bilaterali, cosa inaccettabile per le posizioni più nazionaliste. I crescenti sentimenti antieuropei dei partiti di opposizione fanno sì che, almeno fino ad una ridefinizione della maggioranza parlamentare, risulterà difficile votare le riforme richieste affinché la Macedonia prosegua il suo percorso europeo.
Un ultimo caso evidente è quello della Serbia, dal momento che il presidente Vučić, pur confermando la prospettiva europeista del paese, ha mantenuto stretti legami anche con Cina, Emirati e Russia. Recentemente, però, si è trovato costretto ad accettare senza convinzione alcuna un accordo in cui garantiva il suo impegno per normalizzare le relazioni tra i due paesi. L’accordo è stato apertamente definito un ultimatum, in quanto il rifiuto avrebbe significato il definitivo deterioramento delle relazioni con Bruxelles.
Meno gesti simbolici, più concretezza
Il quadro fin qui descritto non è senz’altro roseo: la mancanza d’incisività e di coerenza dell’Unione Europea e il sempre più evidente allontanamento rispetto alla prospettiva europea dei governi locali mettono seriamente a rischio la possibilità di un allargamento europeo. Risulta quindi evidente la necessità di un cambio di rotta da entrambi i fronti: serve un’Unione più credibile e un maggiore impegno degli stati della regione.
La speranza è che l’inizio dei negoziati in Macedonia del Nord e Albania, insieme con il conferimento dello status di paese candidato alla Bosnia, pur essendo gesti più che altro simbolici, possano dare una nuova spinta al processo di allargamento in tutta la regione. Va tenuto a mente, però, che in questo contesto a fare la differenza non sono una serie di accordi definiti alternativamente come storici, o imposti e accettati controvoglia, o ancora difficili da applicare nella pratica per via di controversie interne.
La differenza si fa maturando gradualmente la consapevolezza che, se il futuro dei Balcani è davvero in Europa, allora il percorso di integrazione è da portare avanti come un impegno comune, scaturito da una comprensione effettiva della realtà sociopolitica dei Balcani occidentali da parte dell’Unione Europea. Con un’Ue più attenta e vicina, allora forse si può pensare davvero a disinnescare le dinamiche nazionaliste che hanno portato a un sempre crescente euroscetticismo e a promuovere un’integrazione sentita.
Laureata in Studi Interdisciplinari e Ricerca sull’Europa Orientale, ha vissuto un po’ ovunque nei Balcani occidentali. Si interessa di tutto quello che è successo e succede al di là del muro di Berlino. Lentamente, sta imparando il serbo-croato.