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L’8 marzo e per tutto il mese di marzo del 1968, a poco meno di mille chilometri dalla primavera di Praga, si accendono le proteste al dipartimento di Sociologia dell’Università di Varsavia. Le contestazioni, animate dal carovita e dalla censura, si scontrano subito con la paranoia della classe dirigente della fine degli anni Sessanta; l’effetto – del tutto unico nella storia dello scorso dopoguerra – è l’inizio di una nuova, devastante ondata di antisemitismo istituzionale.
Lo scontro assume sin dall’inizio le dimensioni di un contrasto generazionale: da una parte, gli studenti con le proprie richieste di maggiori libertà civili, sostenuti da intellettuali e anche da una quota significativa di docenti, dall’altra, la fiacca dirigenza del Partito Comunista, guidata dal Segretario Władysław Gomułka.
Le proteste studentesche del marzo 1968
La ribellione inizia, curiosamente, da una rappresentazione del melodramma Dziady (Avi) di Adam Mickiewicz al Teatro Nazionale di Varsavia. Dopo una decina di messe in scena con un grande successo di pubblico, infatti, il melodramma è colpito dalla censura del regime per il suo afflato nazional-religioso e la sua rappresentazione del popolo russo, considerati incompatibili con la propaganda di stato. Le agitazioni contro la censura sono subito represse dalla polizia, eppure non si arrestano, anzi crescono di intensità con un progressivo aumento delle richieste: non solo maggiore libertà di stampa e pensiero, ma anche autonomia politico-decisionale da Mosca e l’immediata liberazione dei prigionieri politici del gruppo Komandosi, un’organizzazione di studenti di estrema sinistra dissidenti con il Partito. Alle marce, che il 15 marzo 1968 a Danzica arrivano a coinvolgere oltre 20mila persone, non partecipano solo universitari e intellettuali, ma anche giovani operai e studenti liceali.
Il fermento, che in questo periodo interessava non solo la Polonia ma anche gli stati confinanti, impone una risposta rapida ed efficace da parte dell’apparato politico. La necessità di dover affrontare le manifestazioni e le difficoltà di Gomułka nel gestire la situazione si rivelano l’occasione perfetta per la presa del potere dall’allora ministro dell’Interno Moczar e la sua fazione, caratterizzata dallo spiccato autoritarismo e forti sentimenti antisemiti.
L’inizio della campagna antisemita
La nuova classe dirigente, sull’onda della reazione internazionale alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 e l’inasprirsi del conflitto israelo-palestinese, dà quindi inizio a una vasta operazione propagandistica contro il sionismo e la comunità ebraica, accusata di complicità con l’imperialismo israeliano; già l’anno prima c’erano state le prime ostilità, sulla scia della decisione dell’Unione Sovietica di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele. Nessun altro paese del blocco sovietico, però, arriva ad adottare una persecuzione sistematica e istituzionale nei confronti degli ebrei pari a quella che coinvolge la Polonia popolare. Gli ebrei, che componevano una fetta significativa del ceto intellettuale che aveva aderito attivamente alle proteste, perdono improvvisamente il proprio lavoro e la posizione, talvolta anche di grande prestigio, nel Partito; viene quindi avviata una politica di larga concessione di visti per spingere gli ebrei polacchi all’emigrazione. Chi sceglie questa strada viene privato della cittadinanza e della possibilità di fare ritorno nel proprio paese; tra questi vi è anche il famoso sociologo Zygmund Bauman, teorico della “società liquida” e che proprio nel Sessantotto lascia il paese a causa delle discriminazioni antiebraiche. Il 19 giugno 1968, in un messaggio alla nazione in diretta televisiva, Gomułka si rivolge esplicitamente ai polacchi di origine ebraica, intimando agli ebrei di andarsene per sempre.
Gli effetti della campagna, ad ogni modo, non tardano ad arrivare: si stima che tra il 1968 e il 1970 25mila cittadini polacchi di origine ebraica abbiano lasciato il paese per cercare rifugio soprattutto in Israele e negli Stati Uniti. Con l’inizio degli anni Settanta in Polonia rimangono meno di 10.000 ebrei, un numero impressionante se si considera che solo trent’anni prima, all’alba dell’invasione nazista, il paese ospitava oltre 3 milioni di ebrei.
Come sia stato possibile arrivare, nella Polonia del secondo dopoguerra, a una simile ondata di antisemitismo, è un interrogativo che la purtroppo scarna riflessione storiografica non aiuta a risolvere. Da un lato, come si è già accennato, le accuse di infedeltà nei confronti degli ebrei rappresentavano il pretesto ideale per eliminare nemici politici interni come la fazione del Partito legata al ceto intellettuale, composta in percentuali significative da polacchi di origine ebraica; più in generale, la campagna antisemita era il terreno ideale per consentire alla fazione più autoritaria di Moczar, che si era distinto già all’interno del movimento di resistenza all’occupazione nazista per le proprie posizioni antisemite, di emergere e acquistare credibilità e fiducia tra la popolazione accusando gli ebrei di aver cospirato per mettere in cattiva luce il comunismo. Forse, più semplicemente, fare leva su un sentimento viscerale e ancora radicato come l’antisemitismo era una scusa per distogliere l’attenzione dalla crisi economica degli anni Sessanta. Quali ne siano le ragioni storiche, il marzo 1968 è stato, per la popolazione ebraica del paese, il momento più buio dopo l’occupazione nazista, con strascichi pesanti sulla difficoltà della Polonia di affrontare la “questione ebraica” e il tema del collaborazionismo al nazismo.
Gli echi del 1968 in letteratura: L’occhio di Dayan
Scritto a cavallo del 1970 dallo scrittore ebreo Jozef Hen, L’occhio di Dayan è stato pubblicato in Polonia solo nel 1989 a causa della tematica affrontata. L’autore, che ha vissuto personalmente il Sessantotto, descrive con grande efficacia il clima di paranoia e ossessione del periodo. Il topos dell’insidiosa ubiquità dell’ebreo, colpevole prima di tradimento nei confronti di Gesù poi di infedeltà nei confronti dello stato nel caso Dreyfuss, assume con il Sessantotto una dimensione grottesca, in cui il sentimento di odio rimane del tutto privo di spiegazioni, o quantomeno tentativi di elaborazione razionale.
In questo libro, strutturato in tre racconti autoconclusivi, il marzo 1968 non viene spiegato e, in realtà, nemmeno nominato: semplicemente pervade, con la propria cappa grottesca, lo sviluppo della narrazione e la segue nell’intensificarsi del dramma. Lo sguardo di Hen, che per il resto si avvale di una tecnica stilistica simile a Kafka, rimane però velato da un’ironia che accompagna con dolcezza il lettore alla fine del racconto; il libro, uscito solo con la fine del comunismo, è una preziosa testimonianza letteraria di questa fase storica ancora poco conosciuta.
Una sera d’estate, mentre sorseggiavo un bicchiere di vodka nei sotterranei di un pub semi nascosto di Poznań, mi è capitato di ascoltare questa canzone in una versione improvvisata da un avventore del locale. Del brano non mi avevano colpito solo le sonorità, ma soprattutto l’esplicito riferimento all’ebraismo nelle poche parole del testo che riuscivo a cogliere; mi fu spiegato che era un brano del periodo di Solidarność, ma solo dopo qualche tempo sono riuscita a scoprire che si trattava di una canzone di Jacek Kaczmarski.
Conosciuto come il “bardo di Solidarność”, Kaczmarski è stato autore di numerose liriche a tema politico diffuse clandestinamente negli anni Ottanta. Scritto nel 1987, il corpo centrale del testo di Opowieść pewnego emigranta (Storia di un immigrato) recita così:
Gomułka ci ha detto: La Polonia per i polacchi! Non più per gli estranei alla Casa Comune – Wiesław, come il Faraone, ci costrinse a scappar via di corsa. E c’erano professori, studiosi, scrittori, Impiegati d’ufficio e giornalisti.
A Tel Aviv proprio dietro l’angolo, senza fretta, Mi sono imbattuto in un ex collega dell’Ufficio, E mi vergognavo di andare al Muro del Pianto – Sono comunista, polacco o ebreo?
Non potrei adesso trarre gloria come lui, Dal fatto che un fallito diventa un eroe. Ho lasciato. Mi sono trasferito qui negli Stati Uniti. Mi dicono: insegna agli americani cos’è il comunismo. Digli quello che sai, quello che hai sulla coscienza, così riscatterai i tuoi peccati e riacquisterai il prestigio.
Larga parte degli ebrei polacchi rimasti nel dopoguerra erano assimilati, in parte per effetto dell’ostilità statale verso qualsiasi confessione religiosa. Tra di questi, molti avevano aderito al comunismo sia durante la resistenza all’occupazione nazista che nel periodo successivo. Costretto all’improvviso a lasciare la Polonia per poi scoprirsi di nuovo straniero anche in Israele, l’io narrante di Kaczmarski riesce a trasmettere con una capacità espressiva impressionante il senso di straniamento e il trauma degli ebrei polacchi che, all’indomani del Sessantotto, si scoprirono estranei al paese dove avevano sempre vissuto. Tutti i tentativi di costruire una nuova identità rimangono insoddisfacenti, artificiali o comunque limitanti: ovunque si volti, il protagonista è costretto a mettere in discussione un pezzo del proprio passato e giurare nuove fedeltà di cui non riesce a comprendere il significato e, anzi, di cui intuisce il sostanziale nonsenso, come nel caso del nazionalismo sionista (“trarre gloria del fatto che un fallito diventa un eroe”).
Alla fine del suo percorso, con un sentimento a metà tra orgoglio e rassegnazione, il protagonista rivendica il proprio legame con la Polonia come un rapporto che si regge sul “cordone ombelicale della disgrazia”: la connessione con la madrepatria, più che essere ricondotta a un elemento identitario, sembra radicarsi sulla percezione di un comune destino di polacchi ed ebrei. Idea che, curiosamente, traccia una sottile linea di congiunzione che riconduce ad Adam Mickiewicz, da cui tutto era partito: nel Pan Tadeusz, opera principale di Mickiewicz, l’ebreo Jankiel soffre assieme ai patrioti polacchi per la perdita dell’indipendenza nazionale e l’assenza delle libertà civili sotto il dominio russo. Se nel Pan Tadeusz il riconoscimento di un comune destino è il possibile inizio di un riscatto nazionale, dopo il Sessantotto questa speranza rimane molto più flebile: nessuno degli ebrei che hanno lasciato il paese ha fatto ritorno.
Laureata in giurisprudenza, nel 2016 ha trascorso un semestre all'Università di Cracovia. Si interessa in particolare di diritti delle minoranze, stato di diritto, cultura ebraica, femminismi e movimenti lgbt+ nell'Europa centro-orientale. Di questi e altri temi ha scritto per East Journal e Diritto Consenso.