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Mila Tešaeva è una fotografa ucraina che da anni vive a Berlino. I suoi lavori più importanti degli ultimi vent’anni hanno riguardato lo spazio postsovietico e lo scorso anno, quando il suo paese si è ritrovato invaso dalla Russia, ha deciso di tornare nella sua Kyiv a registrare quelli che lei definisce “documenti storici” su quanto sta avvenendo. Di recente è uscito il suo intenso e delicato documentario When Spring Came to Bucha, girato assieme a Marcus Lenz tra Kyiv e Buča. Invece dei classici reportage giornalistici, questo film riesce a comunicare nel profondo la sofferenza della guerra e la tenacia di risposta a questa situazione, senza cadere mai in facili scene strappalacrime o ciniche rappresentazioni di morte e devastazione.
Mila Tešaeva, ci può raccontare qualcosa di sé, dei lavori che l’hanno portata al film che sta presentando questi giorni?
Lavoro come fotografa da vent’anni, ho realizzato sia mostre che libri. Sono nata e cresciuta a Kyiv, ma nel 2010 mi sono trasferita a Berlino per ragioni sentimentali. Quando è iniziata l’invasione, ho deciso subito di tornare a Kyiv e così il primo marzo ero lì e tutto il mese sono stata occupata in varie attività. In primo luogo, tenevo un diario in cui trascrivevo alcuni pensieri corredati da fotografie; il lavoro è stato poi pubblicato sul portale Decoder in tedesco, inglese e russo. Si tratta di un diario molto personale, contiene sensazioni personali, quotidiane sui primi mesi di guerra.
Sulla base di questo diario ho anche realizzato una grande esposizione museale a Berlino al Museo delle culture europee (MuseumEuropäischer Kulturen), che poi ha viaggiato in vari paesi. Dopodiché ho scattato una serie di ritratti ad alcune persone, sono come dei frammenti di questa guerra: ci sono volontari, ci sono soldati, ci sono persone che fuggono, che combattono. Sempre in marzo ho girato un breve film con una collega fotografa per Arte: è un reportage di mezz’ora dove seguiamo tre personaggi che abbiamo incontrato a Kyiv.
La città era così vuota, una grande città sorpresa da tutto questo orrore, non si capiva cosa ne sarebbe stato, se sarebbe stata rasa al suolo, occupata. Quando si è saputo di [cosa era avvenuto a] Buča, ho iniziato a filmare non sapendo cosa ne sarebbe risultato, ma sentivo che si trattava di un documento storico che andava realizzato. Poi si è unito a me Marcus Lenz e abbiamo iniziato a lavorare insieme al film che viene proiettato ora.
In passato Lei ha lavorato molto nello spazio post-sovietico, ad esempio in Georgia e nella zona del Caspio. Cosa prova ora a lavorare nel suo paese?
Dopo il lavoro sul Mar Caspio, Promising Waters, che è durato quattro anni ed è risultato in una grande mostra e in un libro, ho realizzato un altro progetto in Ucraina tra il 2015 e il 2017 sulla memoria famigliare: cercavo di capire come funziona la memoria collettiva su base individuale.
Facciamo parte della storia generale e io volevo capire quanto conosciamo la nostra storia personale, famigliare. Il tema della memoria, della storia, della manipolazione dei fatti storici occupa i miei lavori degli ultimi venti anni: è il mio topos.
Ciò che è successo in Ucraina, ciò che è successo nel momento in cui carri armati russi hanno superato il confine in direzione di Kyiv, nel momento in cui missili russi hanno iniziato a colpire Kyiv, è stato un momento storico incredibile che verrà studiato da tutte le scienze sociali nei prossimi cent’anni; dai sociologi agli storici, tutti cercheranno di analizzare quello che è successo, quali sono state le reazioni della gente, le loro sofferenze, perché qualcuno se ne è andato in posti lontani come il Portogallo o l’Irlanda, mentre qualcun altro non si è spostato da casa sua nonostante la morte e l’orrore.
Volevo essere testimone della storia, volevo poter dire un giorno “sì, io l’ho visto, io l’ho provato”. Se ci lavorerò sopra ancora in futuro, allora potrò dire di sapere di cosa parlo e che non l’ho soltanto letto, ma ne ho sentito l’odore.
Il passaggio dalla fotografia al cinema è stato naturale?
Non ho un linguaggio visivo predeterminato, per ogni progetto cerco il suo linguaggio. Alcune cose si possono mostrare attraverso paesaggi distanti e vuoti, mentre altre no. La fotografia a Buča per me non funzionava. La fotografia per me è frutto di una riflessione, è un atto ponderato, in uno scatto si possono far interagire molte cose. In questa situazione poteva funzionare il fotogiornalismo, un reportage, ma non è questo il mio genere. Ciò che volevo raccontare si poteva mostrare attraverso il video, attraverso un film.
Nel documentario si seguono vari personaggi, incluso un americano. Come li ha scelti?
Non li ho selezionati, sono persone che ho incontrato a Kyiv e che mi sembravano avere delle personalità peculiari. L’americano è protagonista di un frammento molto importante nel film. Se gli ucraini sono finiti loro malgrado in questa situazione, quella dell’americano è stata una scelta. Non si sa bene da dove sia arrivato, ma per tre mesi ha fatto il lavoro più sporco che ci si possa immaginare: estraeva resti umani dai sacchi di plastica, resti di cadaveri di tre mesi, e li portava a esaminare. Io non capisco come si possa riuscire a fare una cosa del genere, onestamente. Lui invece riteneva questo un suo dovere, un suo obbligo.
Qual è stata la cosa la cosa più difficile nel realizzare questo film?
Mi faceva soffrire terribilmente la sofferenza umana, la domanda “perché, perché è successo tutto ciò”, una domanda che resta senza risposta. La sensazione di ingiustizia irreparabile.
In tutto il mondo ci si è purtroppo abituati a scene di guerra dall’Ucraina che passano alla televisione. A suo avviso, in cosa si distingue questo film agli occhi dello spettatore?
Forse a questa domanda dovrebbe rispondere il pubblico. Per me è evidente, io guardo nelle persone, cerco in loro che cosa la guerra ha portato nella loro anima, nei loro caratteri. Le rovine, le macerie, le mostro letteralmente solo per pochi secondi, non sono al centro. Al centro ci sono le storie personali. Non mostro persone che piangono sulle tombe, non mostro cadaveri, non forzo le scene. A Buča in aprile c’erano moltissimi reporter, correvano per le vie e succedeva che chiedessero alle persone che incontravano: “avete visto dei cadaveri? Li stiamo cercando e non li troviamo”.
Oppure mi è successo di essere in macchina con un famoso fotografo francese, stavamo andando sul luogo di una fossa comune che stava venendo dissotterrata ormai da una settimana. Lui era molto arrabbiato e si lamentava: “ieri ci hanno promesso 25 cadaveri, ma ce ne hanno dati soltanto otto!”.
E per non parlare della storia più terribile; era una giornalista della Rai, se non erro: a Vinnycja era caduto un missile e aveva ucciso una bambina down, mentre la mamma era rimasta senza conoscenza per diversi giorni; quando si è svegliata, non sapeva ancora nulla e vicino al letto c’era questa giornalista con una telecamera e un fixer che dal telefono le mostrava la foto della figlia morta e le chiedeva: “che cosa prova?”. Non sapeva ancora che la figlia fosse morta. Ma si può fare una cosa del genere?
I giornalisti dicono che il loro compito è raccontare la verità a qualunque costo, anche traumatizzando la gente. Nel girare il nostro film, se sentivamo che un momento era duro e pesante per le persone, noi fermavamo le riprese.
Il film sta già venendo proiettato in Ucraina?
Per il momento no, ma abbiamo mandato la candidatura a un festival e attendiamo una risposta.
Quali sono state le reazioni in Europa?
Intense, ovunque ci hanno ringraziato. Ci hanno detto che per la prima volta, grazie a questo film, hanno sentito che cos’è la guerra. A qualcuno è tornata in mente l’esperienza dei genitori nella Seconda guerra mondiale, qualcun altro ha pensato a questioni più globali. La reazione è stata molto profonda. Mi colpiscono gli ucraini che vengono a vederlo, mi ringraziano sempre.
E i russi vengono a vederlo?
I russi vengono, ma non mi è capitato che venissero a ringraziarmi.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.