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Da Tuzla all’Italia: storie di adozione a distanza

di Andrea Caira*

Questo scritto trova origine nella chiacchierata svolta a Modena lo scorso marzo, presso la sede dell’Associazione Trame 2.0, con le attiviste bolognesi Elivia Segreto, Cristina Bughetti e Mara Tagliavini, di diversi anni impegnate nelle pratiche di adozione a distanza degli orfani di guerra del territorio di Tuzla (Bosnia-Erzegovina). La trascrizione dell’intervista vuole essere quanto più fedele alle parole delle intervistate. Riduttivo parlare di tagli: restituire l’incontro dialogico attraverso uno scritto rappresenta già di per sé una traduzione. In questi termini, l’utilizzo della punteggiatura si distacca leggermente dalla rigidità sintattica per cercare di ripercorrere i toni e le intensità del discorso.

Quali sono i regimi temporali a cui abbiamo l’obbligo di appartenere? In quale sede vengono individuati, organizzati e predisposti i cardini della Storia? E ancora, è forse possibile racchiudere la complessità di una moltitudine multiforme all’interno di un periodo preciso e puntuale come si trattasse della scadenza di un prodotto alimentare? Sebbene tali quesiti meritino una riflessione di maggior respiro, è incontrovertibile il fatto che le date, le celebrazioni e le ricorrenze acquisiscano la valenza di spazio simbolico – potremmo dire un luogo memoriale unico – solamente attraverso un processo di rievocazione personale. In altri termini il dibattito sembra stemperarsi ancora una volta sul crinale dove corrono Storia e Memoria. Sempre valido risulta essere quindi il suggerimento del geostorico Antonio Canovi, dal quale apprendiamo che alla seconda si chiede di “farsi voce o, meglio, per riprendere una parola-chiave di questi anni, testimonianza del passato” (Canovi, 2020).

Se un macro-evento, come ad esempio può essere un conflitto militare, traduce a livello memoriale un policentrismo diffuso (spazio), ad analoga conclusione potremmo giungere per quanto concerne la sua sistematizzazione cronologica (tempo). Sembrerebbe ora lecito domandarsi cosa si intenda per inizio e cosa per termine di una fase storica, prestando forse attenzione ai punti di convergenza e di trasferibilità tra i due significati.

Proviamo a scivolare nella concretezza. Situiamo questi dubbi all’interno di una macro-storia, di una data simbolica. Proiettiamoci a Dayton, nel novembre del 1995, quando i tre presidenti delle parti in conflitto (il serbo Slobodan Milošević, il croato Franjo Tuđman e il bosgnacco Alija Izetbegović) si apprestavano a siglare i trattati di pace del conflitto bosniaco, il tutto (sempre utile ricordarlo) sotto il coordinamento Usa. Il messaggio che venne restituito in quella data fu chiaro: il conflitto militare doveva considerarsi concluso. Le atrocità, le violenze e le sofferenze sarebbero dovute appartenere al passato. La guerra, insomma, era terminata per tutti, nessuno escluso; consci o meno che fossero del contesto a loro circostante.

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Si dovrebbe allora considerare il 1995 come una sorta di anno zero per la Bosnia-Erzegovina? Magari anche per la geopolitica internazionale? Qualcuno potrebbe dire di sì, altri negherebbero con assoluta potenza. Altrettanto, qualcuno potrebbe addirittura caricare questa data di una forte responsabilità sociale. Ma non è questo il punto, almeno non in questa sede. Lo spirito di questo scritto è proprio quello di partire dalla convinzione che le grandi celebrazioni istituzionali spesso si muovano in maniera asincrona rispetto alle elaborazioni personali del lutto e dei traumi sperimentati. E allora il dubbio si amalgama e diventa domanda: come ricondurre a una sola data la complessità che abita il Paese? È in questi termini che un lavoro di Storia con la Memoria non solo permette di connettere pratiche solo apparentemente sfilacciate, ma esprime anche dal punto di vista del metodo scientifico una potenza euristica assolutamente non trascurabile.

In conclusione, la domanda attorno alla quale questa riflessione vorrebbe articolarsi risulta essere la seguente: è possibile interrogarsi sul conflitto bosniaco narrando una storia che ha avuto inizio nel 2000? Cronologicamente nove anni dopo l’inizio della guerra e a cinque dalla firma della pace? E altresì, è possibile considerare il 2000 come un nuovo inizio, una sorta di anno zero, per una “associazione errante” e transnazionale?

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Insomma, una cosa risulta essere facilmente intuibile: non tutti sono stati colti e interrogati dal conflitto jugoslavo nel medesimo istante e nella medesima forma. Per alcuni si è trattato di un richiamo immediato, quasi naturale. Contiguo e obbligato per ragioni di prossimità geografica. Ma allo stesso tempo diversi sono stati i percorsi più lunghi e tortuosi, dove è stato il susseguirsi degli eventi a creare le condizioni soggettive e intersoggettive per concretizzare le forme di contatto con quel mondo – apparentemente – esplosivo.

In Italia è la rossa Emilia ad offrirci nuovamente un virtuoso esempio su cui ragionare nell’ambito dell’esperienza di cooperazione decentrata con la Bosnia-Erzegovina. Nello specifico, il pensiero odierno trova origine nella memoria di alcune donne bolognesi che hanno animato – e coordinato – l’associazione Adottando. Testimonianze preziose e utili che ci consentono di allargare ulteriormente la nostra visuale storica rispetto al complesso capitolo della guerra nella vecchia Jugoslavia. L’Onlus Adottando nasce precisamente con l’idea di sostenere le pratiche di adozione a distanza tra il cantone di Tuzla e l’Italia. Come consuetudine acquisita dal movimento di cooperazione decentrata nostrano, Adottando trova il suo interlocutore di riferimento in una realtà locale già impegnata nel settore della lotta per la tutela dei diritti dei minuti e degli orfani del conflitto. L’associazione in questione è, appunto, Tuzlanska Amica. Dai primi anni del Duemila Tuzlanska Amica e Adottando intraprendono un percorso di collaborazione, di sostegno e, soprattutto, di ascolto profondo e reciproco che tutt’oggi persiste.

Casa famiglia gestita da Tuzlanska Amica

Di seguito le interviste con le rappresentanti dell’associazione Adottando.

Andrea Caira: Come è nata l’associazione Adottando?

Elivia Segreto: È nata come Associazione per le adozioni, ma fondamentalmente anche per le iniziative di conoscenza in Italia. Quindi noi, come Associazione, oltre ad avere tanti bambini in adozione, perché eravamo ancora sull’onda della guerra, facevamo tante iniziative di diffusione e conoscenza […]. Questo rapporto con Tuzlanska Amica è rimasto sempre in piedi perché avevamo creato qualcosa di notevole: quella che io chiamo collaborazione vera. Non di colonialismo, della serie “io vado giù, porto i soldi e allora decido”, che molto spesso succede con le associazioni. Adottando aveva di bello questa cosa: invogliavamo la conoscenza dei bambini. Andare a conoscere i bambini in adozione voleva dire conoscere la realtà, conoscere le situazioni, talora con situazioni terribili. Io, ad esempio, quando sono arrivata nel 2000 mi sono guardata attorno e ho pensato “Cristo, qua posso esserci ancora cadaveri per strada…” perché la situazione era immutata. C’era un disastro… come adesso, che non c’è ripresa […]. Tra i vari progetti abbiamo curato quello della casa Pappagallo. Chiamata così perché esternamente, per spendere poco, avevamo usato gli avanzi delle vernici di tutti i colori. Qui arrivavano i ragazzini che erano costretti ad uscire dall’orfanotrofio. Quindi ha funzionato bene, certo, con un grande impegno collettivo. Ricordo la prima tornata dei ragazzi, quando ancora non sapevano il perché [di questo spostamento]. Ed erano tutti istituzionalizzati diciamo, non sapevano neanche accedere il gas o fare la lavatrice. Tuzlanska Amica si occupava anche di accompagnarli al supermercato per la spesa, per far capire loro come si facesse.

Cristina Bughetti: Sì, perché avendo 18 anni negli anni Duemila voleva dire che dalla fine della guerra erano sempre stati in orfanotrofio e non sapevano la differenza con la vita di tutti i giorni. […] Diciamo che nel momento massimo di affluenza le adozioni sono arrivate anche a 600, adesso sono circa 70.

E: All’inizio, sull’onda della guerra, c’era molta accoglienza. Poi, subito dopo la tregua, l’attenzione della gente si è spostata sul conflitto successivo. Non che mi stupisca. Però non se ne sa più nulla… perché non c’è più la guerra, perché non c’è l’onda dell’emotività. Bisognerebbe riprendere il filo per far capire che comunque se siamo andati avanti [rispetto alla ripresa sociale della Bosnia], siamo andati avanti di poco o niente. Siamo tornate in Bosnia lo scorso dicembre… ti rendi conto che dei nostri ragazzi non c’è nessuno che lavora in maniera continuativa: molti hanno famiglia e non riescono ad arrivare a fine mese. […] Poi c’è una grande riflessione sul passato e su come viene elaborato. A Srebrenica una cosa che ci dicevano era che la convivenza era possibile solo ignorando il passato. Perché la gente dice “noi ci vediamo, ci incontriamo anche al bar, basta non parlare del passato”. […]

Campo sportivo a Tuzla, costruito con il supporto dell’Associazione Adottando
A: Invece, facendo un passo indietro, vi domando: come ha avuto inizio il vostro attivismo in Bosnia-Erzegovina?

E: La guerra… la guerra era subito di là ma ti colpiva relativamente. Nel senso che era vicina ma non la sentivi, non arrivava. Sono approdata in Bosnia perché ho questo amico che andava a portare aiuti, anche durante il periodo del conflitto. E lui continuava a dirmi “adesso vado giù ad aiutare quelle donne”. E il mio approccio è stato, riprendendo il mio passato un po’ da femminista, “vado a vedere chi sono queste donne”. Quindi un Natale sono andata giù con lui e ho conosciuto Tuzlanska Amica: sono tornata a casa che ero basita. Cioè, nel senso che ho visto questa situazione e ho detto “adesso io cosa faccio?”.

A: In che anno…

E: 2000… no, 1999. Mi dico “adesso cosa faccio? Sono da sola, sono qui”… Io poi avevo il lavoro, figli… quindi non potevo fare avanti e indietro. Allora, poiché c’erano già quelli della Sip che avevano delle adozioni in Bosnia, ho pensato che avrei potuto chiedere agli amici di adottare qualche bambino per dare una mano. Nel giro di 2 mesi c’erano già 60 bambini in adozione! A quel punto è nata l’associazione e, dato che avevamo amici politicamente formati, ci siamo messi a fare anche un po’ di conoscenza pubblica di quello che era appena successo. E quindi iniziative, scambi e altro. Diciamo che il mio approccio è stato “geoturistico”, anche se non era proprio così. Insomma, sapevo che c’erano queste donne che durante la guerra avevano fatto cose, continuavano ad andare avanti, a sostenere… e io sono andata giù fondamentalmente per conoscerle e poi ho incontrato questa realtà.

C: Io, invece… una mia amica aveva già in adozione una bimba e mi parlava di questo progetto. Quindi questa amica mi ha inviato a Tuzla per conoscere la realtà con l’idea di fare un’adozione a distanza ravvicinata e di poter andare ogni volta che desideravo. La prima volta sono andata proprio durante una Pasqua e sono tornata il 25 aprile facendo subito l’adozione. Poi a quel tempo lavoravo a scuola e lì raccoglievo i fondi. Ne ho fatti adottare alle colleghe, alla Preside, alle segretarie. Poi a casa avevo la raccolta dei vestiti da portare ai bambini…

Mara Tagliavini: Una caratteristica di come abbiamo lavorato in questi anni è stata proprio quella di non cercare di circoscrivere il sostegno ai bambini o alla famiglia, ma di mantenere sempre una visione un pochino più allargata. Per cui, stimolare le persone ad andare… partivamo anche con 4/5 macchine. Poi, una volta a Tuzla si cercava di non ritagliare lo spazio e il tempo solo per il bambino in adozione ma, in collaborazione con Tuzlanska Amica, di coinvolgere chi voleva nella conoscenza anche di altre famiglie e di altre realtà. Per cui si partiva la mattina con le jeep dell’associazione e si stava fuori tutto il giorno: portavi la spesa, i vestiti e altre cose. Alla fine della giornata ognuno aveva la possibilità di dialogare con diverse persone e questo dava, forse, maggiormente il polso generale della situazione.

E: Il nostro lavoro in Italia era di informazione che sfociava in adozione. Non c’era una prassi particolare. C’era il passaparola, e poi queste iniziative di informazione pubbliche e politiche. Però c’era questo contatto diretto con Tuzlanska Amica ed erano loro che facevano molto del lavoro sul territorio segnalandoci i bisogni e le necessità [dei beneficiari]. Indicandoci i luoghi dove era possibile fare dei progetti, anche dei microprogetti. Tipo il progetto delle capre: sostanzialmente donavamo alle famiglie, che vivevano perlopiù nei campi quindi lontane dai centri urbani e in zone collinari, una capra. Avevamo capito che la capra poteva aiutare molto: poteva dare del latte, mettere in circolo un pochino di economia. Quindi per un periodo abbiamo fatto anche l’adozione delle capre, abbiamo finanziato il progetto agricoltura, dove donavamo i semi. Poi i progetti estivi, i soggiorni al mare.

C: Perché c’era molta gente di Bologna che aveva aderito al programma di adozione a distanza ma che non poteva andare a Tuzla. Per cui si organizzavano dei soggiorni settimanali tramite colonie a Riccione o a Cesenatico e poi si andava tutti quanti a salutare… a stare insieme […].

E: E comunque la nostra mano è sempre stata Tuzlanska Amica. Cioè, è questo quando prima dicevo che l’idea è nata lontana dalle pratiche colonialiste. Noi aspettavamo che ci fossero le richieste. Avevamo delle condivisioni, delle discussioni, ma fondamentalmente era la Bosnia che chiedeva quello di cui aveva bisogno, che per me è la grossa differenza. Perché non siamo mai state d’accordo nel dire “vengo lì e ti porto delle cose”. Così si è creata questa comunicazione vera, della quale sono ancora convinta. Per cui la nostra mano e la nostra mente erano in Bosnia. […]

A: Quale lingua utilizzavate per parlare con i bambini e le famiglie?

C: A me piacciono le lingue, e con il fatto che sono stata lì per un mese, e avevo preso tre lezioni da un ragazzo di Sarajevo, mi sono arrangiata… quel poco che basta con i bambini. Poi l’inglese…la lingua veicolare era l’inglese. Però lei [con riferimento ad Elvira] riusciva a farsi capire benissimo […].

A: Quindi voi partivate in macchina… Slovenia, Croazia… che itinerario?

E: Il giro era Trieste, Lubiana, Zagabria, poi la Slavonski Brod, si usciva dall’autostrada a Županja e poi la frontiera.

M: E dovevi vedere le nostre macchine, le caricavamo all’inverosimile. Amici e conoscenti ci rifornivano della roba di cui avevamo bisogno. Alla fine non ci stava più niente, neanche uno stuzzicadenti. Poi alle frontiere immagina, ci facevano aprire regolarmente tutto.

A: Come finanziavate le vostre azioni?

E: Le raccolte pubbliche, invece, le facevamo a livello economico. Principalmente quando facevamo le iniziative… cene di autofinanziamento, magari. Ma sempre inerenti a progetti specifici. Sì, erano raccolte mirate al finanziamento dei progetti.

C: Io, nel frattempo, mi ero sposata e la donazione per il progetto in Bosnia è stata inserita nella lista dei regali di nozze. In questo modo abbiamo finanziato il progetto della casa Pappagallo […].

A: Quindi i prodotti venivano domandati da Tuzla…

E: Fondamentalmente… ci informavano se determinate famiglie avevano problemi di salute, quindi magari le medicine […]. Ma non solo bisogni diciamo materiali. In diversi ci hanno chiesto di poter seguire i corsi per la patente in prospettiva lavorativa, e allora abbiamo pagato le rette ai ragazzi in età. Poi abbigliamento, tanto abbigliamento, soprattutto per bambini.

M: Poi tanto materiale scolastico, di cartoleria: penne, matite, colori, quaderni. La consuetudine era quella di fare la spesa alimentare prima di andare a trovare le famiglie. Avevamo una spesa “standard” da rispettare, che facevamo rigorosamente lì e che poi donavamo. Sempre sotto la guida di Tuzlanska Amica.

E: Anche perché per loro la farina equivaleva a pacchi da 10kg, dato che il pane lo facevano in casa. Poi l’olio di semi, 2kg di zucchero, pacchi di biscotti, due bottiglie di succo di frutta, uno di paté e altri prodotti. Insomma, era una spesa base consigliata da Tuzlanska Amica che poi si modificava leggermente in base alle famiglie.

*Ricercatore e giornalista, Andrea Caira è co-autore (assieme ad Arianna Cavigioli) del volume, edito da Mimesis, “La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996”, che i due autori hanno raccontato anche su Meridiano 13 in questo articolo dedicato in particolare alla vivacità teatrale nella Sarajevo assediata.

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Redazione
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