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Nonostante il tempo si stia guastando, sotto i grandi tendoni blu che coprono i tavolini all’ingresso del Caffè Venera si continua a patire il caldo umido che ha accompagnato tutta la giornata. Entro nel locale piccolo e buio e chiedo un caffè che il ragazzo al banco mi prepara cercando di non staccare gli occhi dallo schermo del televisore appeso ad un angolo appena sopra l’ingresso: danno Slovenia-Serbia di basket, domando se la partita sia in diretta e lui risponde di no con il tono sorpreso di uno che non è molto abituato a fare conversazione, tanto meno con clienti sconosciuti. Con la tazzina in mano esco e mi siedo a un paio di metri da una coppia che, in silenzio, beve una bibita fresca. Sembrano forestieri, probabilmente nord-europei: tedeschi, forse olandesi. Ci scambiamo un piccolo cenno di saluto con lo stesso goffo movimento della testa e sono certo che sono attraversati dal mio stesso pensiero: cosa diavolo ci fate qui, a Srebrenica?
Non saprei dire con precisione come e quando Srebrenica mi si è impressa nella testa come un’impronta fossile, con la forza che hanno le ossessioni; so solo che è successo. Libri, documentari, film, registrazioni audio, atti processuali, tesi di laurea, molti di questi due e tre volte e di seguito, uno dietro l’altro. Delle sue vicende degli anni Novanta, e in particolare di quei cinque giorni durante i quali la cittadina venne uccisa insieme a otto, nove, diecimila maschi che ne abitavano il centro e il circondario, so abbastanza da sostenere un esame universitario se mai ve ne fosse uno al riguardo. L’ho vista per la prima volta da dietro i finestrini di una Dacia impolverata, guidata da un ragazzo bosniaco che faceva senza entusiasmo la guida turistica in mancanza di alternative professionali, in compagnia di una donna svedese e di un uomo olandese, limitandomi ad attraversarla dopo aver sentito l’anima sgonfiarsi di fronte alle migliaia di tombe del cimitero di Potočari e alle indecenti scritte lasciate dai soldati olandesi sui muri della base militare che doveva essere il rifugio di salvezza di una popolazione terrorizzata e stremata e che invece ne diventò la prigione prima e il patibolo poi. Da quel giorno ho pensato più spesso di quanto mi piaccia ammettere a tornarci, a quando farlo, e come.
L’ho fatto alzandomi prima dell’alba in un’altra nazione e un’altra città che dalla guerra è stata ridotta in fin di vita e da allora sembra non essersi più ripresa. Nel giro di qualche ora sono passato dall’alba gialla e tiepida di Vukovar alla colazione placida nella zona pedonale della sfuggente Brčko e da lì alla vita normale e allegra di Tuzla con le bancarelle dei libri, la piazza elegante con la bella fontana al suo centro, le centinaia di bagnanti in riva ai tre laghi salati che d’estate diventano un’enorme riviera urbana popolata di pance, salvagenti, creme solari, frigoriferi portatili e parcheggi inaccessibili.
Dalla collinetta che sovrasta il piccolo e commovente stadio del Proletar è partito un altro viaggio che grosso modo ha seguito, in senso inverso, il percorso che molte migliaia di musulmani in fuga dalla regione di Srebrenica fecero in direzione di Tuzla e della salvezza garantita dall’Armija bosgnacca.
Ho letto troppo di quella marcia a tappe forzate per non guardare alle colline che attraverso sotto un caldo feroce come a una trappola lunga un centinaio di chilometri, nella quale persero la vita migliaia di persone uccise dalle pattuglie serbo-bosniache, dalle mine, dallo sfinimento: forse, invece, dovrei semplicemente godermi il panorama e l’aria condizionata dell’automobile ma, nelle lunghe ore solitarie e silenziose che trascorro muovendomi lungo la carta geografica, mi sorprendo a chiedermi se commetto un’ingiustizia più grande nel guardare le meravigliose sponde della Drina senza pensare alle dighe sul suo corso che si bloccavano per eccesso di cadaveri o nel fermarmi sulle stesse sponde e vedere in quelle acque una tomba liquida al posto di un fiume, se c’è un modo per tenere insieme tutto questo, se quel modo vale per me come per chi vive a Zvornik, a Vlasenica, a Perućac, se io ho il diritto di oziare dentro questi pensieri che brancolano sul limitare del ridicolo struggimento da classico francese dell’Ottocento: e mentre provo a darmi una risposta, senza peraltro riuscirci, arrivo a Bratunac.
Giocare a pallone nello stadio del massacro
A Bratunac faccio tutto quello che devo fare, vedo tutto quello che devo vedere. Passo nella via dove una volta stava l’Hotel Fontana, base operativa del colonnello Ljubiša Beara, condannato dal Tribunale dell’Aja nel 2002 come responsabile operativo del genocidio di Srebrenica, il decrepito monumento commemorativo di fronte al quale fa bella mostra di sé un bar che porta lo stesso nome del locale di spogliarelli dove Tony Soprano passa il suo tempo libero e chissà se l’attività è la stessa, fotografo un desolato palo sul quale si appoggiano una stanca bandiera serba e un cartello che dice anche noi abbiamo avuto i nostri morti, uccisi dai soldati di Naser Olić, sono 3.267, non dimenticateli.
Entro nello stadio del FK Brastvo, un campo di calcio gibboso e sconsolante circondato da una giostra su un lato e una tribuna in legno, prossima a crollare sotto il peso dell’incuria, sull’altro.
Nei pressi della porta più lontana gioca, da solo, un ragazzino. Ha il corpo un po’ goffo dei maschi in sovrappeso per troppa cura materna, di quelli che non riesci a immaginarti come saranno a vent’anni, se sbocceranno o resteranno il caratterista da film di seconda categoria. Tira il pallone verso la porta angolando il giusto per non farlo cadere nelle mani del portiere immaginario, si rilancia trotterellando verso il centro del campo, ogni tanto si ferma per qualche secondo come se si stesse chiedendo cosa sta facendo, perché è lì, soprattutto perché è da solo. Alza la testa nella mia direzione, faccio il gesto del pollice in segno di saluto ma non risponde. Resto diversi minuti a guardarlo. Avrà undici, dodici anni.
Mi chiedo se sa che su questo campo vennero giustiziati 1.600 prigionieri musulmani poco dopo la visita di Ratko Mladić, se ha mai sentito fare questo nome – magari da suo padre, che potrebbe essere uno degli uomini che bevevano birra e caffè nel bar del piccolo viale pedonale dove mi sono fermato poco prima, non perché avessi veramente sete ma perché ogni cronaca che leggo dice che le strade di questi paesi sono piene di uomini che furono parte attiva del massacro e chissà che faccia hanno.
Mi chiedo se qualcuno gli ha mai parlato di quello che è successo qui, nel paese dove vive, nel campo dove gioca, dato che i libri di scuola della Republika Srpska evitano l’argomento.
Mi chiedo cosa e quanto dovrebbe sapere e se c’è modo di mettere insieme la necessità della conoscenza con il diritto alla spensieratezza e a un futuro nel quale le colpe dei padri non ricadano sui figli: se non avessimo fra noi la barriera della lingua a dividerci forse correrei il rischio di passare per un vecchio disgustoso maniaco e proverei a parlarci per sapere cosa vuol dire essere un adolescente nel 2022 a Bratunac, o a Srebrenica e abbandono del tutto la fantasia quando vedo una donna all’ingresso dello stadio fargli dei cenni come per chiamarlo a casa.
Non so ancora che poche ore dopo sarò abbastanza fortunato da soddisfare la curiosità in un modo inatteso, e a suo modo romantico, e chissà quanto affidabile.
Meri mi accoglie sulla porta della casa di Srebrenica dove ho prenotato una camera. È insieme ai genitori, una coppia di quarantenni sorridenti che mi dirottano subito sulla figlia: “Meri parla bene inglese, ti spiegherà tutto lei” mi dicono rassicuranti. In effetti la ragazza parla un inglese splendido, con il quale mi accompagna al secondo piano dell’abitazione illustrandomi le regole della casa (quando imparerò che per prima cosa devo togliermi le scarpe?). Parla precisa, sicura, nella voce e in una certa sorprendente secchezza dei movimenti mi sembra di scorgere quella specie di aggressività che hanno i ragazzi molto dotati, ma ancora abbastanza timidi e insicuri, che non possono né vogliono soffocare la loro capacità di stare alla pari di un adulto ma non possiedono ancora le piccole e preziose arti della diplomazia: ne sono consapevoli, ma non riescono a evitare di parlare a voce un filo troppo alta, o appena troppo velocemente, compensando ciò di cui credono di mancare.
“Mi dispiace, l’acqua è razionata dalle quattro del pomeriggio alle sei del mattino” mi fa sapere con una formalità da receptionist che mi farebbe sorridere se non fossi ben consapevole del mio stato al termine di questa giornata e del conseguente bisogno di una doccia: bisogno che rimarrà insoddisfatto a meno di non trovare il modo di usare parte dei cinquanta litri di acqua raccolti in un enorme bidone di plastica che occupa metà del piccolo bagno nel quale speravo di trovare ristoro. Mi spiega dove potrò provare a cenare (“da Bato, ma devi fare in fretta perché chiude fra meno di un’ora”) e comprare una bottiglia d’acqua, che dovrò usare sia per dissetarmi che per altri scopi igienici. “Se ti serve qualcosa bussa pure, noi siamo in casa” mi congeda con il suo fare professionale mentre mi affretto a risalire in macchina per andare da Bato.
A Srebrenica, poco prima della pioggia
Sono passate da poco le sei del pomeriggio e Srebrenica sembra un paese fantasma intristito dalla pioggia in arrivo (con il sole, qualunque posto sembra bello o almeno passabile: persino Mauthausen, mi sono trovato a pensare non senza imbarazzo), del quale questa volta riesco a osservare i particolari che non potei notare nella visita precedente.
L’illuminazione è poca e scarsa, Bato è davvero il solo posto dove si può mangiare (anche se, nonostante al muro sia appeso un menù così lungo da assomigliare a una lista dei desideri, l’unico piatto ordinabile è una porzione di ćevapčići), la stazione dei pullman è un edificio lungo e basso che in buona parte dei locali porta i segni di incendi, spari e devastazioni assortite, le uniche persone che incontro sono due poliziotti che mi indirizzano al supermercato, due clienti e la cassiera del supermercato stesso.
Alle otto, in mancanza di valide alternative, sono sdraiato a letto mentre fuori sembra essere entrato in vigore un coprifuoco non dichiarato e, per non far mancare nulla, inizia un diluvio biblico che il giorno dopo mi offrirà qualche centinaio di chilometri di strade coperte di fango rosso, sassi, rami e altri pericoli assortiti.
Un’ora dopo decido di scendere dai padroni di casa per saldare la camera, dato che la mattina dopo partirò come al solito all’alba. Meri mi apre la porta: mi invita a entrare per bere un caffè con la famiglia e lo fa con il suo tono, che suona secco e assertivo; accetto, un po’ per la curiosità a doppio fondo di passare qualche minuto in una casa musulmana di Srebrenica e un po’ per una sorta di bisogno di calore umano dopo una giornata di cimiteri, fosse comuni e precipitazioni torrenziali.
Entro così in questa bella casa dove evidentemente la gran parte della vita è trascorsa nel grande locale che ospita la cucina, un tavolo alto e uno basso, un divano, una poltrona, il televisore e un camino. Izmeta, la mamma, mi accoglie come se fossi uno di famiglia e forse è per questo che non faccio subito caso alla mancanza di Mersudin, il padre: sembra tutto normale, e ancora una volta – anche se con il ritardo che viene dall’apparente irrilevanza della situazione – registro come gran parte dell’Islam bosniaco, anche quello che vive fuori dalle città, è lontanissimo dall’immagine tetra e chiusa che me ne sono fatto e alla quale sono abituato: c’è qualcosa di strano e sbagliato nell’avere un uomo estraneo, per quanto cliente pagante, ospite in compagnia di due donne senza tutela maschile? No, certamente non in questa casa.
La vita normale di Merjam
Mi fanno accomodare in poltrona nel posto d’onore, e mentre Izmeta mi porta il caffè bosniaco inizio a chiacchierare con Meri. Le chiedo dove ha imparato un inglese così buono, pensando alla scuola e già fantasticando su un professore alla Robin Williams capace di incendiare i cuori dei suoi studenti: “ho studiato tedesco,” risponde come se mi stesse snocciolando il curriculum vitae “ma volevo imparare un’altra lingua e così sono passata all’inglese. L’ho imparato guardando i film, gli anime, le serie tv”. Mi dice che le piacciono “Euphoria” e “La regina degli scacchi” e penso che in fondo non tutta la globalizzazione viene per nuocere, nemmeno quella dell’intrattenimento: “ma non sono tanto brava con l’ortografia” aggiunge con un tono che suona più intriso di fastidio nei confronti di una sua mancanza che di constatazione di un processo in divenire. Sbarro gli occhi: hai imparato tutto a orecchio? Dice di sì, i sottotitoli aiutano parecchio, e poi c’è la musica: Billie Eilish, Ariana Grande, Dua Lipa, Taylor Swift. Nessuna sorpresa, e d’altra parte perché mai ce ne dovrebbe essere una?
Centellino il caffè cercando di ripetere i movimenti aggraziati che servono per non renderlo una fanghiglia imbevibile e le faccio le domande che la gente della mia età chiede ai ragazzi della sua: se le piace la scuola, com’è la giornata e in generale la vita a Srebrenica per una ragazza come lei, cose così. Meri, il cui nome completo è l’infinitamente più bello Merjam (“sai che anche mia mamma si chiama come te? In italiano si dice Maria”. Sorride) sembra via via più rilassata e meno ingessata nel ruolo della studentessa modello che deve sempre essere preparata alla perfezione: si sveglia molto presto, frequenta il liceo, studia il tedesco e prende lezioni di piano.
“La vita a Srebrenica è la stessa di ogni altra città” dice come se questa fosse un’ovvietà della quale non dovrebbe valer la pena parlare. “Non hai tutto questo odio qui, e i ragazzi stanno bene: abbiamo dei posti bellissimi per passare il tempo all’aperto, lezioni di musica e ballo gratuite, ci sono le band che suonano anche se fanno solo musica di altri”.
La sera dell’Ashura
Izmeta si è seduta ed è rimasta ad ascoltarci. Capisce alcune parti della nostra conversazione e ogni tanto interviene con il suo inglese smozzicato, sempre con un’espressione sorridente e rilassata. Si capisce che è orgogliosa della figlia, di quell’orgoglio vagamente preoccupato perché venato dalla consapevolezza che Meri non è una ragazza qualunque, perché ha delle doti che la distinguono dai suoi coetanei anche se fa in tutto e per tutto la loro stessa vita.
Incoraggiato dall’atmosfera semplice e tranquilla che si è creata, provo a stiracchiare i limiti della cortesia e chiedo a Meri se pensa che la sua vita sia e sia stata influenzata da quello che è successo qui e che non ha bisogno di essere chiamato per nome. “No,” mi dice convinta “sono nata dieci anni dopo, credo che sia passato abbastanza tempo perché la gente e l’intero paese guarissero (dice proprio così, usa il verbo to recover: riprendersi, guarire; chissà se lo ha scelto apposta o se è la migliore approssimazione che il suo vocabolario le consente di esprimere: mi piace pensare che la prima ipotesi sia quella giusta). Non vale per tutti, ma per il momento le cose vanno bene così”. “Hai amici serbi, Meri?” le chiedo, proprio come lo farei con mia figlia. “Certo che sì” risponde quasi sorpresa, come se la domanda fosse intrinsecamente immotivata e perciò sciocca: “alcuni di loro sono dei buoni amici mentre con altri non sono più in contatto” risponde senza enfasi, proprio come mia figlia farebbe con me.
Mentre parliamo, Izmeta si alza e si porta al piano di lavoro della cucina, dove la vedo trafficare con una caraffa. Poco dopo mi si avvicina e mi mette in mano una coppa piena di frutta e semi. Meri per un momento riprende i panni della secchiona e mi spiega che quella macedonia viene preparata una sola volta all’anno.
“Oggi è la festa dell’Ashura” mi dice e mi racconta la versione islamica della storia dell’arca di Nuha, il nostro Noè, sulla quale il corpo di Adamo calato da Allah divide gli uomini dalle donne e il cibo si esaurisce perché la navigazione sembra non finire mai: tutto ciò che rimane sono pochi e poveri resti delle provviste accumulate per il viaggio e con quelli, frutti e semi, viene preparato l’ultimo piatto che consente a Noè di arrivare fino al decimo giorno del mese sacro di Muharram, quando scende dall’arca fermatasi alle pendici di un monte vicino a Mosul. “Nello stesso giorno festeggiamo anche Mosè che attraversa il Mar Rosso: sei arrivato in un giorno speciale” mi dice e non posso che darle ragione: è la sera dell’Ashura, il giorno in cui i musulmani bosniaci preparano questa macedonia da dividere con parenti, vicini e amici e io sono qui, in una casa che non è mia ma che questa donna e questa ragazza mi fanno sentire come se lo fosse.
Sentiamo le chiavi girare nella serratura. È Mersudin, che di lavoro fa il poliziotto e che rientra a casa al termine del suo turno. Mi saluta con la stessa cordialità riservatami da Meri e Izmeta. Si siede mentre la moglie gli porta una tazza della stessa macedonia che ha offerto a me, mi chiede come sto, scambia quattro parole in bosniaco con la famiglia. Izmeta salta sulla sedia al boato di un tuono che accompagna il diluvio che sta facendo ruscellare la strada di fronte alla casa e che ci fa godere ancora di più del calore che sentiamo qui dentro.
Penso che la serata sia perfetta così, che non potrei chiedere nulla di più a queste persone e alla sera dell’Ashura che mi è stata data in sorte senza meritarla più di tanto e mi alzo, ringraziando e dando la buona notte, e quello che spero sia un arrivederci.
Ma Meri non è soddisfatta, ha dato tante risposte e ora qualche domanda vuole farla lei. Mi chiede che lavoro faccio. Cerco di spiegarglielo, le dico che lavoro nel marketing – che per lei dev’essere un rutilante mondo di manager, amministratori delegati, uffici al trentaseiesimo piano, first class perché le si illuminano gli occhi mentre si rivolge alla madre dicendole qualcosa come “piacerebbe tanto anche a me” – e che viaggio parecchio. Lei si stringe nelle spalle e dice, più a se stessa che a me: “Finirò la scuola fra due anni ma non ho ancora deciso cosa farò, ho tante possibilità diverse e devo sceglierne una. Però penso che andrò a studiare in qualche grande città, magari all’estero”. Le dico che mi sembra uno splendido programma, che sicuramente avrà successo in quello che farà – e lo penso davvero, anche se la conosco solo da qualche ora. Fa una faccia strana, è come se una crepa di incertezza le aprisse il volto per scoprire i tratti della ragazzina che per fortuna ancora è. “Mi piace viaggiare, sai” dice a voce più bassa “ma mi fa un po’ paura”. Le chiedo che cosa di preciso la intimorisce e lei fa un gesto con le mani come per dire questo e quello ma poi mi spiega, più precisa: “ti possono succedere delle brutte cose, ti possono derubare, o rapire”. Io la guardo e se non avesse sedici anni e non ci fossero qui i suoi genitori la abbraccerei per rassicurarla che no, davvero, andrà tutto bene.
E penso che forse il tempo non passa invano se per questa ragazza nata e cresciuta qui, a Srebrenica of all places, figlia di un uomo che nel 1995 aveva quindici anni e chissà per quale fortunato e ineffabile scarto del destino si è salvato, se per Merjam che ha sedici anni quelle sono le cose di cui aver paura.
Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.