C’è uno sfondo rosso su cui si staglia una grossa scritta bianca dalla grafica inconfondibile. Il font utilizzato, la tonalità del colore, il posizionamento dello slogan: tutto ci è familiare. Se da lontano appare come un comunissimo poster pubblicitario della Coca-Cola, forse un po’ vintage, nell’attimo in cui ci avviciniamo ci rendiamo conto che c’è qualcosa che non torna. L’enorme scritta bianca non recita il nome nella bibita, bensì due parole insolite, Enjoy Sarajevo. In basso, una data: 1995.
Quasi un epitaffio.
Sarajevo 1980 – 1992
È il 5 aprile del 1992 quando Sarajevo viene messa sotto assedio. È ricordato come l’assedio più lungo che una capitale abbia mai dovuto sopportare nell’era contemporanea: durerà esattamente 1425 giorni, dal 5 aprile del 1992 al 29 febbraio 1996.
È in questo arco di tempo che avverranno le più grandi atrocità del conflitto in Bosnia ed Erzegovina, durato ufficialmente dal 1992 al 1995, parte di quelle che vengono definite come Guerre Jugoslave, ovvero quella serie di conflitti iniziati nel 1991 con la secessione della Slovenia e terminati nel 2001 con la definitiva dissoluzione della Federazione jugoslava. Non si intende in questa sede parlare direttamente e nei dettagli della guerra in Bosnia, argomento tra l’altro assai delicato per cui ci sono validissimi saggi di riferimento – tra i tanti segnaliamo Metodo Srebrenica, Ivica Đikić (Bottega Errante, 2020) e Maschere per un massacro, Paolo Rumiz (Feltrinelli, 2020) – ma è importante segnare alcuni passaggi in quanto è proprio il conflitto a fare da sfondo all’attività artistica del collettivo bosniaco Trio, protagonista di questo articolo.
È il 1995 e come già detto, Sarajevo è sotto assedio ma non ha perso la sua verve di città estremamente fertile e vivace dal punto di vista culturale. La rappresentazione, spesso distorta, dei paesi dell’est Europa fa sì che nell’immaginario collettivo questi vengano concepiti come luoghi di nessuno, barbari, economicamente e culturalmente arretrati rispetto all’Occidente. Non c’è niente di più falso, se si pensa al clima che si respirava a Sarajevo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.
Come recentemente testimoniato dalla seconda puntata del podcast Blokada, prodotto da Bottega Errante, a cura di Andrea Baudino e Giuseppe Modica, con l’obiettivo di ripercorrere gli anni dell’assedio, Sarajevo prima del 1992 era una città cosmopolita, prima in tutti i Balcani. Nel 1972 viene fondata l’Accademia delle Belle Arti di Sarajevo, che ha un ruolo chiave nel creare una nuova classe di artisti e attirarne di nuove in città. Nel 1984 la città ospita la quattordicesima edizione delle Olimpiadi Invernali: è la prima volta che una manifestazione sportiva di importanza internazionale approda nei Balcani e soprattutto in Bosnia, una delle aree più povere al tempo, tra i paesi costituenti della Jugoslavia.
In questo periodo i caffè cittadini pullulano di intellettuali intenti a scambiarsi le ultime novità in ambito culturale: c’è il café Zvono, gestito dallo scultore Bukvić, il Crvena Galeriija, caffè universitario. La grande quantità di grafiche e poster di spettacoli teatrali, concerti ed eventi culturali conservati nel volume Museum in Exile, a cura di Asim Đelilović (Buybook Sarajevo, 2022) non sono che la prova di tutto ciò che la capitale bosniaca è in questo periodo: una città viva, ricca di poeti, musicisti, artisti.
Emerge anche un desiderio di confrontarsi con quelle che erano le tendenze culturali estere del momento, non più esclusivamente provenienti da Belgrado e Zagabria, ma anche dagli Stati Uniti, da cui comincia a diffondersi la cultura hip-hop. Se tutto ciò può apparentemente sembrare superfluo da specificare, ha in realtà un peso enorme se si pensa a ciò che accadrà da lì a poco: a Sarajevo, contrariamente alle altri grandi città jugoslave, la vivacità culturale e soprattutto l’apertura al resto del mondo limiterà parecchio l’insorgere di moti populisti e nazionalisti che invece, presenti altrove, spingeranno alla guerra il resto del paese negli anni seguenti.
I media occidentali durante l’assedio
Quando nel 1991 cominciano le ostilità in Jugoslavia e quando l’anno seguente Sarajevo viene assediata, la sensazione prevalente è quella di incredulità. Nessuno sembra capacitarsi che la guerra sia arrivata. La popolazione deve ora fare i conti con la fame, la mancanza di elettricità e materie prime, con i cecchini e la morte dietro ogni angolo. È in questo momento che fa la comparsa il gruppo Trio, un collettivo di artisti attivo in città, inizialmente composto da Bojan Hadžihalilović, Dalila Duraković e Leila Mulabegović (durante gli anni del conflitto diventerà un duo, in quanto Mulabegović emigrerà in Svizzera).
L’arte, da sempre, ha avuto il compito di raccontare il proprio tempo e il contributo artistico di Trio è testimonianza fondamentale nel racconto dell’assedio e dell’eccessiva copertura mediatica che esso ebbe da parte dei media occidentali.
Ciò a cui si assiste in questi anni è infatti una morbosa attenzione alla città e agli eventi più sanguinosi del conflitto. Ciò che Paolo Rumiz, nel suo Maschere per un massacro (Feltrinelli, 2020) definisce come intossicazione da mass-media, dei riflettori costantemente puntati sulla città non per una reale volontà di documentare e quindi aiutare il popolo bosniaco, ma più per farne un comodo palcoscenico umanitario per la vanità dei nostri politici e per sfogare su di esso la nostra fame di immagini.
Sono parole dure, certamente, ma confermate dal costante bombardamento di immagini truculente sui media occidentali negli anni dell’assedio.
Sono celebri gli scatti della strage al mercato del pane Markale (1994) dove i cadaveri privati di ogni dignità furono trasmessi su ogni schermo televisivo, come fossero un qualsiasi altro bene di consumo. Lo confermano le foto dei bambini feriti in città, come Irma Hadimuratović, ferita mortalmente da un colpo di mortaio nell’agosto 1993, le cui fotografie fecero in giro del mondo e, soprattutto in Inghilterra, divennero un caso mediatico parecchio popolare nell’opinione pubblica. Lo confermano i numerosi e torbidi reportage sulle donne bosgnacche stuprate, i video del bombardamento del ponte di Mostar, tutti eventi tragici e terribili che monopolizzarono l’attenzione sulla parte più visibile del conflitto, lasciando in ombra tutte le altre.
Tra queste, Srebrenica, un vero e proprio genocidio che vide l’uccisione di più di 8mila uomini bosgnacchi, alla luce del sole e sotto gli occhi dell’Onu. Se l’uso dei media durante le guerre non è assolutamente da condannare, anzi, è da legittimare e difendere in quanto in grado di mettere in comunicazione i paesi colpiti con il resto del mondo e svelare ciò che realmente avviene, è vero anche che la sovraesposizione mediatica senza un corretto approccio critico può condurre a un banalizzazione del conflitto, in quanto lo riduce a un bene di consumo qualsiasi, un prodotto di intrattenimento senza alcun risvolto concreto.
Godetevi la città, godetevi Sarajevo
A Sarajevo il collettivo Trio capì bene tutto ciò e fu così che nacque Greetings from Sarajevo (1993-1995), una serie grafica di poster e cartoline satiriche, nate con un duplice obiettivo: attirare l’attenzione sia sulla scena artistica sarajevese, ancora fertile e attiva nonostante la guerra, sia su ciò che stava realmente accadendo in città, ironizzando sull’eccessiva romanticizzazione dell’assedio da parte della stampa estera.
Trio, che prima della guerra si era dedicato soprattutto a manifesti e copertine di album musicali, ha un’ottima dimestichezza con la grafica pubblicitaria, ne conosce bene i principi e sa come sfruttarla al meglio per lanciare un messaggio forte al resto del mondo.
Già dal titolo la componente cinica è evidente: la formula di saluto utilizzata, la stessa delle classiche cartoline turistiche, dona all’intero progetto un’aura festosa e vacanziera laddove di festoso e vacanziero non vi era proprio nulla. Vennero poi utilizzate come sfondo ai poster immagini iconiche, conosciute ovunque e di forte impatto visivo. Troviamo così un poster raffigurante una celebre vodka russa, che da Absolut Vodka diviene Absolut Sarajevo. Il disco dei Sex Pistols, gruppo punk britannico, God Save the Queen diviene God Save Sarajevo, così come non vengono risparmiate la Monnalisa di Da Vinci, l’Urlo di Munch e la famosa lattina di zuppa in scatola Campbell’s di Andy Warhol. Tutti simboli non a caso iconici al di là dell’Adriatico.
Infine, compare forse il simbolo più potente e rappresentativo della cultura occidentale: con una delle ultime cartoline della serie, Enjoy Sarajevo (1995), Trio utilizza non soltanto la grafica Coca-Cola come sfondo alla sua creazione ma ne scimmiotta anche lo slogan, che da Enjoy Coca-Cola diviene Enjoy Sarajevo, un invito, deliberato e beffardo, al resto del mondo a mettersi comodi e godersi la distruzione della città.
Trio riuscì nel suo intento: l’intera serie infatti ebbe forti riscontri da parte della critica d’arte estera, e le immagini dei poster comparvero in periodici famosi quali Flash Art, Art Press, Life, Newsweek. Addirittura, nel saggio Buring the Past and Exhuming Mass Graves di Nermina Zildžo, in East Art Map (Afterall Book, Londra 2006) vengono riportate le parole del celebre critico italiano Achille Bonito Oliva, che definí l’operato del gruppo come the demonstration of the fact that art does not yield to negative events but changes into remembrance, like Picasso and his Guernica. Il paragone con Picasso appare calzante: gli artisti del collettivo Trio, come il celebre pittore spagnolo, riusciranno a rendere iconico uno dei capitoli più tristi della storia del proprio paese.
Non furono i soli: nonostante la mancanza di materiali, strumenti e attrezzi del mestiere, molti tra gli artisti decisero che la guerra non avrebbe fermato la produzione culturale a Sarajevo. Tra i tanti, ricordiamo le dolorosissime installazioni di Edo Numankadić, che da pittore si reinventa bricoleur, dando vita ad assemblaggi creati con tutto ciò che restava a portata di mano: scarti e scatole di imballaggio degli aiuti umanitari, la perfetta sintesi di ciò che rimane ogni volta che una bomba cade su Sarajevo. Segnaliamo qui una bellissima intervista a cura di Osservatorio Balcani e Caucaso sui suoi interventi in quel periodo. Un approccio simile è insito nella scultura Kentauromahija, di Alma Suljević, un enorme creatura assemblata a partire da ciò che resta di un tram carbonizzato dopo un’esplosione.
Lo Spirito di Sarajevo
Se è vero che durante il corso nel Novecento l’arte sembra assumere sempre più spesso il ruolo di opporsi alla propria realtà, è anche vero che l’opera del collettivo Trio ha qualcosa in più, che va oltre alla componente cinica e al contesto bellico in cui il gruppo si trovò ad operare. Greetings from Sarajevo è infatti la perfetta definizione di ciò che oggi viene ancora ricordato come lo spirito di Sarajevo. Ne abbiamo già parlato a proposito de La linea dei mirtilli di Rumiz (Bottega Errante, 2022).
Sarajevo durante l’assedio fu molte cose, oltre morte e miseria. Fu la resilienza di una città che sopravvisse per millequattrocentoventicinque giorni alla fame, al freddo, ai cecchini. Fu la tempra di un popolo che nonostante le bombe si riuniva nelle bettole, la sera, a declamare poesie. Fu la forza di una cultura che durante la guerra non smise di generare arte. E non solo, sbeffeggiando il resto del mondo, ci si fece anche una bella risata sopra.