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Sin dal 2000, anno che segna l’inizio del primo mandato presidenziale di Vladimir Putin, le 22 Repubbliche autonome della Federazione Russa – ovvero i soggetti federali che godono di una maggiore autonomia, perlopiù abitati da gruppi etnici maggioritari non russi – sono diventate la spina dorsale del processo di centralizzazione del potere, tanto che vengono spesso definite “sultanati elettorali”: a partire dal nuovo millennio, queste repubbliche sono infatti state tra le prime a essere inserite nella cosiddetta verticale politica e sono diventate una base affidabile di sostegno elettorale controllato per Putin, il suo partito Russia Unita e i candidati alle amministrative nelle elezioni, a tutti i livelli. Se, tuttavia, perlomeno sul piano strettamente politico, la loro lealtà è stata nel corso di due decenni comprata attraverso sussidi e aiuti di vario tipo ed è frutto di legami non proprio trasparenti, sul piano sociale e a livello individuale e quotidiano, le relazioni inter-etniche nella società russa hanno mantenuto un sapore coloniale.
Della questione parla Cholod nell’approfondimento Il non-russkij mir(Nerusskij mir – il mondo non russo), dove calmucchi, tatari, baschiri, buriati, laki e jacuti raccontano le proprie esperienze di discriminazione nella ricerca di un alloggio, nell’accesso all’istruzione scolastica e universitaria, nell’interazione con le autorità a livello di base e molto altro. Eppure, come emerge da questo studio, sebbene le repubbliche etniche continuino a svolgere un ruolo importante in Russia nella costruzione di un efficace sistema di controllo politico, la loro enfatizzata fedeltà al Cremlino non ha del tutto eliminato il problema del loro “status secondario” coloniale, lo ha al contrario inasprito.
C’è motivo di credere che oggi, in seguito alla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, l’equilibrio politico nelle relazioni delle repubbliche con Mosca sia quindi piuttosto precario, sebbene si differenzi da regione a regione. Un sondaggio effettuato dal Levada Center mostra come, all’interno della Buriazia e del Tatarstan, i cittadini buriati e tatari abbiano una posizione molto diversa nei confronti della guerra in Ucraina rispetto ai cittadini di etnia russa delle due repubbliche. Entrambe le regioni, ciascuna a suo modo, hanno da tempo dimostrato la loro fedeltà al Cremlino, eppure è proprio in Buriazia che si sono svolte le prime e più significative proteste civili contro la mobilitazione e persino contro la guerra dopo il 24 febbraio 2022. Nel Tatarstan, invece, le élite locali riescono tuttora a mantenere un equilibrio favorevole tra la fedeltà a Mosca, la tutela degli interessi del gruppo etnico di appartenenza e la propria relativa autonomia.
Ciò non toglie che il 24 febbraio 2022 abbia cambiato le carte in tavola per quanto riguarda la situazione delle minoranze etniche in Russia, minando il sistema politico e la verticale di potere dettata da Mosca all’interno della Federazione. Secondo molti osservatori, poiché non si intravede una fine di questa guerra, le forze centrifughe stanno crescendo in questo paese altamente centralizzato e tali forze acquisiranno sempre maggiore incisività man mano che le pressioni causate dalla guerra e dalle sanzioni economiche indeboliranno l’influenza di Mosca sulle regioni russe, dal Mar Baltico al Mar Nero, dal Caspio al Pacifico.
Eppure, come afferma l’analista Nikolaj Petrov (che mette a confronto la situazione attuale con il crollo dell’Unione Sovietica, quando in quindici repubbliche i leader locali salirono in prima linea nella lotta per l’indipendenza), “a differenza della fine degli anni Ottanta e dell’inizio degli anni Novanta, non vediamo forze politiche in grado di fare affidamento sulle tendenze centrifughe”. Alcuni analisti sottolineano infatti la debolezza delle élite regionali all’interno della Russia, osservando che il sistema di Putin ha reso i governatori locali molto più dipendenti da Mosca rispetto a quanto possa sembrare data la loro “autonomia” sulla carta. Inoltre, in molti casi, i “veri” leader delle minoranze etniche russe sono fuggiti dal paese e sono stati perseguitati come “estremisti” a seguito della dura repressione del dissenso attuata dal presidente russo negli ultimi anni, ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina, la quale ha solo approfondito e accelerato questo fenomeno. Alcuni di questi leader, già attivisti nazionalisti, fanno parte del Forum dei popoli liberi post-Russia.
La “Russia dopo Putin” proposta dal Forum dei popoli liberi
Fondato nel 2022, poco dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, e riunitosi già sei volte, il Forum dei popoli liberi della post-Russia è una piattaforma di discussione i cui partecipanti mirano alla disgregazione della Russia in diversi Stati indipendenti. Tra gli obiettivi principali dell’organizzazione ci sono il decentramento e la decolonizzazione della Russia. Il Forum è frequentato da rappresentanti dell’opposizione politica russa (perlopiù emigrati all’estero) e stranieri, che si schierano contro Putin e contro la guerra. L’obiettivo, secondo quanto evidenziato nel sito, è la decolonizzazione completa e irreversibile della Russia, scopi che saranno raggiunti solo quando la Federazione Russa cesserà di esistere come soggetto di diritto internazionale e al suo posto nasceranno 25-35 paesi indipendenti, liberi e democratici.
Nel dicembre 2022 nella città svedese di Helsingborg dove si è tenuto l’ultimo incontro del Forum, i rappresentanti di tatari, ceceni, baschiri, circassi, careli e numerose altre minoranze etniche hanno firmato una dichiarazione che dichiara la Russia uno “Stato in bancarotta” e chiede di “porre fine all’esistenza della Federazione Russa”; sono state adottate anche le dichiarazioni di indipendenza della Carelia e degli Stati Uniti della Siberia (Soedinennye štaty Sibiri), una regione separatista che coprirebbe gran parte della Russia orientale ricca di petrolio e gas.
A differenza di alcuni leader dell’opposizione russa che sognano solo di sostituire lo “zar cattivo” del Cremlino con uno “buono”, il Forum dei popoli liberi sostiene una trasformazione strutturale radicale della Russia a favore delle sue numerose regioni e repubbliche autonome. “Trent’anni fa abbiamo già osservato la formazione di ‘una Russia libera’, ma ora ci rendiamo conto che si tratta di un’impasse storica. Se in quegli anni si parlava dell’emergere di paesi ‘post-sovietici’, oggi forse è tempo di parlare di paesi ‘post-russi’, no?” scriveva in merito all’incontro del Forum tenutosi a Praga nel luglio 2022 Res Publica, un’organizzazione non governativa senza scopo di lucro fondata da un gruppo di volontari di resilienza digitale basata a Vilnius, in Lituania.
Seppure registrato fuori dai confini russi, in Polonia, la procura generale della Russia ha dichiarato il Forum “organizzazione non grata”, in quanto le sue attività rappresentano una minaccia all’ordine costituzionale e alla sicurezza della Federazione: i suoi membri sarebbero “rappresentanti di movimenti etnici separatisti” e militanti stranieri che esprimono “sentimenti anti-russi, organizzano attività di propaganda anti-russa”.
Il caso di Rafis Kašapov e lo status del Tatarstan
Tra i fondatori del Forum – oltre al più noto ex deputato della Duma di Stato, esponente del partito Russia Giusta, Il’ja Ponomarev (dall’ottobre 2022 “agente straniero”) e all’ex ministro della Cultura ceceno Achmed Zakaev, attualmente in esilio e sostenitore di una repubblica cecena (Ichkeria) indipendente – c’è il politico tataro Rafis Kašapov, che è stato aggiunto alla lista degli “agenti stranieri” nel gennaio 2023. Rafis è un difensore dei diritti umani e nazionalista di etnia tatara che nel 2009 è stato accusato dalle autorità russe di incitamento all’odio e messo in libertà vigilata. Nel dicembre 2014 è stato arrestato e trasferito nel carcere di Kazan’ (capitale del Tatarstan) a causa di alcuni post e contenuti capaci di compromettere l’integrità territoriale della Federazione Russa (“Crimea e Ucraina saranno libere dagli occupanti”, “Ieri Hitler e Danzica, oggi Putin e Donec’k”, “Dove c’è Russia, ci sono morte e lacrime”). In cella ha iniziato uno sciopero della fame in segno di protesta contro la repressione politica in Russia, l’illegalità della procura generale e dei tribunali russi, le violazioni dei diritti delle popolazioni indigene in Russia e il coinvolgimento della Russia nel conflitto militare in Ucraina. Segnalato come prigioniero politico dall’associazione Memorial, nel gennaio 2016 Rafis si è appellato alla Corte europea dei diritti dell’uomo in merito al suo caso. Rilasciato il 27 dicembre 2017, dopo aver scontato la sua pena, ha lasciato il paese per Kyiv; nel 2018 le autorità britanniche gli hanno concesso asilo politico per cinque anni.
“Il popolo tataro sta costituendo un proprio Stato, noi possiamo creare il nostro Stato. E dobbiamo farlo, ne abbiamo il diritto”, dichiarava Kašapov in un’intervista a Ukraiinskyj interes nel 2018, sottolineando come nel 1994 i diritti del popolo tataro e delle minoranze etniche in Russia fossero ancora tutelati dal trattato “sulla delimitazione delle competenze e sulla delega reciproca dei poteri” siglato dal presidente russo di allora, Boris Elc’in, e dal suo omologo tataro, Mintimer Šajmiev. Ma le cose, con l’arrivo di Vladimir Putin al potere, sono cambiate in favore di una nuova centralizzazione e i principi riconosciuti da Elc’in sono svaniti nel nulla.
Il Tatarstan, come le altre entità federali russe, ha da sempre un rapporto complicato con Mosca. Poco dopo la nascita dell’Urss, il governo centrale firmò trattati di autonomia con molte delle repubbliche e regioni etniche sorte all’interno della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, la prima delle quali fu la Baschiria nel 1919. La Repubblica Autonoma Sovietica Socialista Tatara venne fondata subito dopo, il 27 maggio 1920.
Questi trattati, stipulati in tempi e modi diversi fra le varie repubbliche, conferirono alle regioni ampi poteri in materia di governo locale, istruzione, cultura e agricoltura. Tutti poteri che, però, vennero annullati sotto la dittatura staliniana, che non mancò di sopprimere lingue e culture locali in favore della russificazione e di sottoporre questi popoli (accusati di potenziali tendenze secessioniste) a politiche discriminatorie. Tra il 1941 e il 1944 i tedeschi del Volga, i calmucchi, i ceceni, gli ingusci, i turchi mescheti (se ne parla in un capitolo di Mosaico Ucraina, di Olesja Jaremčuk) e i tatari di Crimea furono definiti come dei traditori e deportati dalle loro terre.
Con il declino e poi la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’indebolimento del potere centrale alimentò il desiderio di autodeterminazione non solo tra i popoli delle repubbliche sovietiche, ma anche tra le minoranze etniche non russe della Russia stessa. Un periodo che viene ricordato per le parole di Boris El’cin, che si rivolse ai popoli indigeni dicendo:
Una sovranità venuta a mancare sotto Putin, come Kašapov non smette di ribadire dal 2018: “Sotto Elc’in, dopo la sigla del trattato, il 50% delle entrate in Tatarstan andava a Mosca. Ma da quando Putin è diventato presidente, a noi rimane solo il 10-15%. Alla fine, ci siamo trasformati in una colonia. Se dobbiamo costruire un centro culturale o un complesso sportivo da qualche parte, dobbiamo chiedere il permesso alle autorità centrali. Se ci fosse data l’opportunità di costruire il nostro Stato, vivremmo come negli Emirati Arabi, abbiamo tutte le possibilità per farlo”.
Il Tatarstan è l’unica repubblica autonoma in Russia ad aver firmato nel 1994 un accordo specifico con il centro federale, che le ha sempre conferito poteri più ampi (leggi, tasse, risorse naturali). L’ultimo trattato sulla divisione dei poteri è stato approvato dal Consiglio di Stato del Tatarstan nell’ottobre 2005. Il documento definiva due lingue di Stato, il russo e il tataro, nonché il diritto di emettere passaporti con un inserto in lingua tatara e con l’immagine dello stemma della repubblica etnica. Tuttavia, la durata del documento era di dieci anni: non essendo stato prorogato, è scaduto nel luglio 2017.
Dall’inizio degli anni Duemila, le leggi di tutti i soggetti della federazione hanno però iniziato a essere allineate a quelle federali e, di conseguenza, l’autonomia delle regioni è gradualmente diminuita, compresa quella del Tatarstan che proprio lo scorso dicembre ha dovuto rinunciare a chiamare ”presidente” il rappresentante della propria repubblica (un valore significativo per il popolo tataro e la storia della sua ’indipendenza): secondo la legge sui principi generali dell’organizzazione del potere pubblico nelle entità costitutive della Federazione Russa del giugno 2022, infatti, i leader regionali possono essere chiamati solo ‘capi’ perché la Russia deve avere un solo presidente. A inizio 2023 la Costituzione del Tatarstan è stata modificata in modo sostanziale per eliminare le disposizioni in materia di sovranità, il trattato tra il Tatarstan e la Russia, la distribuzione dei passaporti russi per i tatari etnici all’interno della Repubblica, la Corte costituzionale del Tatarstan e il cambio della denominazione di presidente del Tatarstan in capo o rais.
“Noi tatari siamo la seconda popolazione della Russia, dopo i russi. Siamo più di sette milioni. Abbiamo una storia millenaria, ma non abbiamo diritto ad avere un nostro presidente? È un nostro diritto decidere se vogliamo avere un khan, un presidente o un re. Questa è una questione che riguarda i tatari. Mosca non dovrebbe decidere per noi”, commenta Rafis Kašapov.
Le reazioni del Cremlino e l’opera di mobilitazione delle minoranze
Mosca sembra aver preso sul serio la minaccia di questi movimenti separatisti, reprimendo le organizzazioni politiche e sociali delle minoranze e perseguitando gli attivisti. L’estate scorsa le autorità statali hanno fatto chiudere il Vsetatarskij obščestvennyj centr (il centro pubblico pan-tataro) con l’accusa di estremismo e dichiarato “organizzazione non grata” lo Svobodnyj Idel’-Ural(Idel’-Ural libero), un movimento sociale dei popoli della regione del Volga che vorrebbe riunire Mordovia, Ciuvascia, Mari El, Tatarstan (fa parte del collettivo anche Rafis Kašapov), Udmurtia e Baschiria in un’unica unione con un confine, uno spazio economico e un sistema di sicurezza comuni, garantendo al contempo l’indipendenza di ognuna di esse.
Il risentimento delle minoranze etniche russe è stato evidente fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, ma si è intensificato quando Mosca, non essendo riuscita a prendere Kyiv e a sottomettere il paese occupato in tempi lampo, ha iniziato a reclutare sempre più uomini nell’esercito della Federazione e le minoranze hanno notato che un numero sproporzionato di questi veniva prelevato dalle loro comunità per andare a combattere e morire per le ambizioni (peraltro non del tutto condivise) di Mosca.
Anatolij Nogovicyn, a capo del partito liberale Jablokonella Repubblica di Sacha (Jacuzia), a settembre 2022 ha pubblicato un video contro la mobilitazione, affermando che ciò che le autorità stavano facendo poteva essere definito un genocidio:
“Noi jacuti siamo oltre 400mila, ma molti sono anziani e bambini. Se si contano solo gli uomini che possono lavorare, avere una famiglia e crescere figli, si arriva al massimo a centomila. Stanno sterminando i piccoli popoli”.
Nell’ottobre scorso la BBC ha effettuato uno studio per accertare questa politica deliberata di discriminazione nei confronti delle minoranze etniche, il cui rischio di morire in guerra è superiore a quello dei russi. Si può notare questa discrepanza nella Repubblica di Tuva, dove un soldato ogni 3.300 adulti rimane ucciso, mentre a Mosca ce n’è uno ogni 480mila adulti. Una differenza di oltre 100 volte. Nel caso di Buriazia, Tuva, Altaj o Birobidžan (la regione autonoma ebraica), soggetti federali che sono socialmente ed economicamente meno sviluppati, il tasso di mortalità più elevato è probabilmente dovuto a un maggiore reclutamento militare sotto contratto; mentre nelle repubbliche etniche economicamente più sviluppate (Jacuzia, Tatarstan), il servizio militare è un percorso professionale meno attraente e, di conseguenza, il numero di morti pro-capite è molto più basso. “È più probabile che la disuguaglianza etnica in questo caso sia una conseguenza della disuguaglianza territoriale piuttosto che il risultato di una politica deliberata di discriminazione”, concludono gli esperti.
Gli attivisti delle comunità etniche russe hanno scritto una lettera aperta facendo appello alla solidarietà internazionale e chiedendo che qualsiasi conversazione pubblica sul futuro dei popoli indigeni e delle repubbliche autonome si svolga solo ed esclusivamente con la partecipazione di propri rappresentanti. Il loro appello sorge dalle discriminazioni e dalla repressioni sistemiche osservate in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, che ha fatto emergere – secondo quanto scritto nel manifesto – “la natura coloniale e imperiale di questa guerra” e “il rafforzamento dell’ideologia del russkij mir (il mondo russo)”.
Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.