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La questione dei rapporti con Abcasia e Ossezia del Sud, due regioni separatiste in quello che è internazionalmente riconosciuto territorio georgiano, a settembre è diventata oggetto di discussione della campagna elettorale per le elezioni parlamentari previste in Georgia per il prossimo 26 ottobre. A (ri)portare in auge l’argomento, una serie di dichiarazioni di Bidzina Ivanisvhili, fondatore dell’attuale partito al governo del paese, “Sogno Georgiano”:
Dopo le elezioni, quando i promotori della guerra saranno processati, quando tutti i responsabili della distruzione della fratellanza e della convivenza georgiano-osseta riceveranno la più severa risposta legale, troveremo sicuramente la forza in noi stessi per chiedere scusa per il fatto che nel 2008 abbiamo consegnato le nostre sorelle e i nostri fratelli osseti alle fiamme.
Bidzina Ivanishvili, 14 settembre 2024
Le parole di Ivanishvili e le accuse, non nuove, ai predecessori di “Sogno Georgiano” al governo della Georgia – il “Movimento Nazionale Unito” di Mikheil Saakashvili – e a non meglio identificate forze esterne che avrebbero causato la guerra in Ossezia del Sud (2008), hanno suscitato reazioni negative in parte della società georgiana. La narrazione portata avanti da Tbilisi sul conflitto è sempre stata ben diversa e sintetizzata dalle dichiarazioni della presidente Georgia Salomé Zourabichvili il 7 agosto 2023, in occasione del quindicesimo anniversario della guerra:
La Russia è un aggressore e un occupante! Quindici anni dopo la guerra del 2008 continua a occupare il venti per cento del nostro territorio violando tutti i principi del diritto internazionale.
La Georgia resterà fedele al suo percorso europeo, reclamerà pacificamente la sua integrità territoriale e si dimostrerà risoluta contro qualsiasi tentativo di destabilizzazione.
Questo genere di concetti sono stati e vengono ripetuti in forma più o meno complessa da innumerevoli membri delle istituzioni georgiane, così come da semplici cittadini, nei contesti più disparati. Per fare un esempio, il 26 marzo 2024 durante i festeggiamenti in strada per la qualificazione della nazionale di calcio maschile georgiana a Euro 2024 a Tbilisi, i giocatori hanno lanciato l’inevitabile coro: apkhazeti saqartveloa! samachablosaqartveloa! (l’Abcasia è Georgia! Il Samachablo – ovvero l’Ossezia del Sud – è Georgia!).
E guardando alla situazione sul campo è impossibile in buona fede negare la veridicità di simili affermazioni. L’esercito russo è stanziato contro la volontà di Tbilisi nei territori dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud e, come vedremo, ci sono molti elementi – nonché sentenze di tribunali internazionali – che fanno parlare di un’occupazione da parte di Mosca del territorio georgiano.
È la seconda parte di quanto dichiarato da Zourabichvili, nonché la nonchalance con cui Ivanishvili usa la questione per fini elettorali, a portarci a uno dei nodi del problema. Da parte georgiana spesso si menziona la reintegrazione, pacifica e non, delle due repubbliche separatiste senza tendenzialmente considerare la volontà dei loro abitanti.
L’esempio dell’ormai defunta repubblica del Nagorno-Karabakh, internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaigian, ma indipendente de facto per trent’anni, dimostra però l’importanza di una riflessione sul rapporto tra lo stato di diritto titolare di un dato territorio e la sua popolazione. Quando Baku ha riconquistato militarmente la regione nel settembre 2023, la popolazione armena ha scelto la via dell’esilio piuttosto che vivere “legalmente” sotto la sovranità azera.
🇮🇹chiede a 🇦🇿 cessazione ogni azione militare. Prevalga diplomazia. Siamo pronti a offrire nostra mediazione e invitare a Roma rappresentanti 🇦🇲 e 🇦🇿. Proposta: modello Alto Adige.
Un tweet grottesco del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Nelle ore in cui gli armeni del Nagorno-Karabakh iniziavano a fuggire in massa per non finire sotto la sovranità azera, auspicava il modello dell’Alto Adige, dimostrando un totale straniamento dalla realtà del conflitto.
Al contempo, agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, Abcasia e Ossezia del Sud finiscono spesso in un unico calderone, quello delle repubbliche non riconosciute dello spazio post-sovietico, che include senza fare troppe distinzioni: il Nagorno-Karabakh (della cui storia abbiamo scritto qui), la Transinistria, la Crimea e persino le repubbliche del Donbas ucraino.
Se dal punto di vista giuridico questi esempi presentano delle somiglianze, ognuno dei territori ha una sua traiettoria differente dalle altre che è bene analizzare caso per caso. In questo articolo vi raccontiamo in parallelo la storia dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud.
All’origine della questione: Abcasia e Ossezia del Sud nel periodo sovietico
Per comprendere la situazione attuale in Abcasia e Ossezia del Sud è necessario fare un salto indietro agli inizi dell’esperienza sovietica. Infatti, proprio in quegli anni, si venne a creare il quadro istituzionale che favorì poi i movimenti separatisti nel momento in cui l’Unione Sovietica crollò.
Questo perché, fin dai suoi albori, e a gradi alterni nel corso della sua storia, lo stato sovietico investì grandi risorse nella politica della korenizacija, volta a limitare l’influenza politica e culturale russa nelle regioni abitate da gruppi etnici non russi. Tale ideologia si tradusse nella creazione di un complesso sistema di entità amministrative con diversi gradi di autonomia.
A loro volta, tali strutture burocratiche favorirono la nascita di élite politiche autoctone con più o meno risorse in base al livello di autonomia di un dato territorio. In Abcasia e Ossezia del Sud, proprio queste forze si rivelarono decisive per i movimenti separatisti tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento (spiegando anche l’assenza di simili movimenti nelle regioni della Georgia che ospitavano consistenti minoranze, ma non ricevettero nessun grado di autonomia dalle autorità sovietiche).
Nel 1918, nel tumulto della rivoluzione e della guerra civile in Russia, la Georgia (come l’Armenia e l’Azerbaigian) acquistò per un breve periodo l’indipendenza da Mosca. Già nel 1921 però l’Armata Rossa riconquistava il paese mettendo fine alla breve esperienza di quella che viene ricordata come la Prima Repubblica Democratica Georgiana (entità di cui l’attuale stato georgiano si considera diretto successore).
Una delle prime questioni che il governo sovietico dovette gestire era, appunto, come strutturare amministrativamente il Caucaso del Sud con la sua composizione etnica variegata. L’Abcasia, nel 1921, ottenne lo status di Repubblica Socialista Sovietica (RSS), solo nominalmente legata da un trattato alla Georgia. In Ossezia del Sud invece, nel 1922, venne invece istituita una oblast’ autonoma in territorio georgiano.
Le cose cambiarono nel 1931 quando l’Abcasia venne retrocessa a Repubblica Autonoma integrata nella Georgia. Negli anni Trenta, infatti, Iosif Stalin e il suo luogotenente, Lavrentij Berija, decimarono l’élite abcasa con arresti ed esecuzioni (che avrebbero lasciato uno strascico di astio nei confronti della Georgia in Abcasia). La vittima più illustre di questa politica fu il leader abcaso Nestor Lakoba – nell’Abcasia di oggi Lakoba è considerato come uno dei padri della patria – che venne personalmente avvelenato da Berija nel 1936 in un episodio molto cinematografico. Al contempo alla lingua abcasa venne imposto l’alfabeto georgiano e decine di migliaia di georgiani si trasferirono nella repubblica, cambiandone l’equilibrio demografico.
In base all’ultimo censimento sovietico nel 1989, gli abcasi costituivano solo il 18% dei circa 530mila abitanti dell’Abcasia. Tuttavia, continuavano a godere di alcuni privilegi in quanto nazione titolare nella loro repubblica. Gli osseti rimasero, invece, in maggioranza in Ossezia del Sud fino alla fine del periodo sovietico (erano circa il 66% della popolazione di poco sotto le 100mila unità della oblast’ nel 1989).
Molto diversa anche l’economia dei due territori sotto l’Unione Sovietica. Se l’Ossezia del Sud era una regione prevalentemente povera e agricola, l’Abcasia era una delle zone più ricche dell’Unione Sovietica e una destinazione di vacanza conosciuta e mitizzata in tutta l’impero.
Gli abcasi sono un etnia distinta dai georgiani e legata ai circassi del Caucaso del Nord. La lingua abcasa (denominazione autonoma: Aàpswa) fa parte della famiglia linguistica caucasica nord-occidentale, un gruppo autoctono di lingue che comprende quattro rami: abcaso, abaza, circasso e ubykh (oggi estinto). Per saperne di più, leggete questo articolo di Giustina Selvelli.
Gli osseti sono un popolo di origine iranica principalmente di religione cristiano ortodossa. Sono storicamente insediati sia a nord che a sud della catena del Caucaso Maggiore (l’Ossezia del Nord è una repubblica in seno alla Federazione russa). L’osseto è una lingua iranica che comprende due dialetti l’iron (il più diffuso) e il digor.
Indipendenza e problemi
Lo spazio più ampio lasciato alla libertà di discussione e associazione nell’ambito delle riforme del periodo di Michail Gorbačëv alla guida dell’Unione Sovietica, nel Caucaso si coniugarono, tra le altre cose, in un risorgere delle questioni etno-territoriali rimaste latenti durante i decenni del periodo sovietico.
Nella primavera del 1989 alcuni gruppi politici abcasi si mobilitarono chiedendo la separazione dell’Abcasia dalla Georgia. In reazione, a Tbilisi si svolsero una serie di contromanifestazioni contro il separatismo abcaso, ma anche contro il governo sovietico. Nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1989 l’Armata Rossa represse violentemente queste proteste, uccidendo venti persone. Così facendo, non fecero però che rafforzare lo spirito antisovietico dei movimenti nazionalisti georgiani.
Mentre l’Unione Sovietica andava a pezzi e la Georgia diventava indipendente nel 1991, le tensioni in Abcasia continuavano a crescere. Si arrivò al 1992 quando iniziò la guerra vera e propria scatenata dalla decisione del ministro della Difesa georgiano, Tengiz Kitovani, di attaccare militarmente la capitale dell’Abcasia, Sukhumi.
Il conflitto si protrasse a fasi alterne fino all’ottobre del 1994, quando le truppe abcase, supportate da elementi delle forze di sicurezza russe e da volontari provenienti dal Caucaso del Nord si affermarono sul campo. Sempre nel 1994 venne firmato un cessate il fuoco mediato da Mosca che stabilì una forza di peacekeeping a guida russa e una piccola missione di osservazione delle Nazioni Unite.
La guerra fu una catastrofe, i cui segni sono ancora evidenti: intorno al cinque per cento della popolazione abcasa perse la vita o rimase ferita. Inoltre, circa 240mila georgiani residenti in Abcasia nel 1989 dopo il conflitto furono costretti a lasciare le proprie case o fuggirono in condizioni drammatiche nel resto della Georgia. La vita che aspettava le vittime della pulizia etnica nei nuovi insediamenti sarebbe stata altrettanto dura, un problema che ancora oggi permane in Georgia.
Parallelamente al conflitto in Abcasia avveniva quella in Ossezia del Sud, che il ricercatore Christoph Zucker nel libro The Post-Soviet Wars: Rebellion, Ethnic Conflict, and Nationhood in the Caucasus (2009) descrive come “la guerra più inutile e senza senso della storia della Georgia”, in considerazione delle relazioni fino ad allora generalmente buone tra osseti e georgiani.
A partire dal 1989, in risposta alla retorica nazionalista delle élite georgiane guidate del primo presidente della Georgia indipendente, Zviad Gamsakhurdia (su tutti il riferimento a abcasi e osseti come “ospiti” in Georgia), anche gli osseti come gli abcasi iniziarono a chiedere maggiore autonomia da Tbilisi, in particolare aspirando a unirsi alla repubblica dell’Ossezia del Nord.
Il 23 novembre 1989, trentamila manifestanti georgiani furono mobilitati e trasportati in autobus per una manifestazione a Tskhinvali, capitale dell’Ossezia del Sud, per protestare contro la decisione unilaterale delle autorità ossete di fare del territorio una repubblica sovrana.
All’ingresso della città, i manifestanti furono ostacolati dalle forze di sicurezza sovietiche. Seguirono scontri, che andarono a beneficio principalmente di Gamsakhurdia, il quale cercava di salvare la sua presidenza con una vittoria contro i separatisti. Ma la guardia nazionale georgiana che avrebbe dovuto condurre le operazioni militari, aveva pochi incentivi a ingaggiare una guerra prolungata in una provincia priva di risorse saccheggiabili. Solo pochi distaccamenti georgiani attaccarono e furono respinti dalle milizie ossete, meglio organizzate.
Nel gennaio 1992, Gamsakhurdia fu deposto con un colpo di stato militare, creando un’opportunità per fermare il conflitto. Infatti, il nuovo leader della Georgia, Eduard Shevardnadze, avviò negoziati, cercando di attribuire la colpa della violenza interamente al predecessore.
Tuttavia, la guardia nazionale georgiana attaccò nuovamente Tskhinvali a giugno, bruciando e distruggendo quasi tutte le abitazioni della città. Lo scopo di questo “ultimo sforzo” non era forse quello di ottenere una vittoria decisiva, ma di affermare una posizione di forza nell’ultima tornata di negoziati, che portò a un accordo firmato il 24 giugno 1992 da Shevardnadze, il presidente russo Boris El’cin e i rappresentanti dell’Ossezia del Sud e del Nord.
L’accordo segnò la fine delle ostilità aperte e stabilì un cessate il fuoco, che doveva essere monitorato da una forza di pace congiunta, alla quale la Russia contribuì con un battaglione di settecento soldati leggermente armati. La pressione politica di Mosca e gesti minacciosi, come attacchi sporadici di elicotteri sui villaggi georgiani, costrinsero Shevardnadze ad accettare un cessate il fuoco. Nel luglio 1992, una forza di pace russo-georgiano-osseta sotto guida russa iniziò a monitorare il cessate il fuoco negoziato.
Questo secondo conflitto costò la vita a circa mille persone; più di quarantamila osseti furono costretti a lasciare le proprie case spostandosi in Ossezia del Nord, al contempo circa 23mila georgiani residenti nella regione dovettero reinsediarsi in altre regioni della Georgia.
La guerra dei cinque giorni in Ossezia del Sud
Seguì un periodo di relativa pace. Lo stato georgiano, indebolito dai conflitti interni, non aveva la forza di imporre alcun controllo sulle due regioni che sopravvivevano isolate e non riconosciute da nessun paese membro delle Nazioni Unite, basando le loro economie principalmente sul contrabbando.
Le cose iniziarono a cambiare da una parte con la salita di Vladimir Putin al potere in Russia, nel 2000, e dall’altra con quella di Mikhail Saakashvili dopo la Rivoluzione delle Rose in Georgia, nel 2003. Il primo, infatti, iniziò a sfruttare la debolezza della Georgia per influenzare maggiormente la politica interna (non sempre riuscendoci) delle due repubbliche separatiste; la presidenza del secondo, invece si caratterizzò da una serie di riforme per ridare forza alle istituzioni georgiane che non si erano ancora riprese dai conflitti degli anni Novanta. Tra le iniziative, quella di riprendere il controllo delle regioni separatiste.
In un crescere di tensioni e dopo un conflitto sfiorato nel 2004, si arrivò all’agosto del 2008. Tbilisi era ormai in rotta con Mosca a causa della sua politica atlantista e la situazione nella linea di demarcazione tra Georgia e Ossezia del Sud era sempre più instabile. Nella notte tra il 7 e l’8 agosto, dopo una serie di scambi di artiglieria e schermaglie, la Georgia lanciò un’offensiva militare verso Tskhinvali. L’esercito russo intervenne e, nel giro di cinque giorni, una volta sconfitte le truppe di Tbilisi in Ossezia del Sud, attaccò il resto della Georgia aprendo anche un secondo fronte in Abcasia e occupando temporaneamente le città di Gori, Poti e Senaki.
Il conflitto si concluse con un cessate il fuoco il 12 agosto. Circa trentamila georgiani dell’Ossezia del Sud furono costretti a lasciare le proprie case con poche possibilità di ritornarci un giorno.
La situazione dopo il conflitto del 2008
Il 26 agosto 2008, la Russia, seguita da altri paesi membri dell’Onu (attualmente: Nauru, Nicaragua, Siria e Venezuela) riconobbe l’indipendenza delle due repubbliche separatiste. Le forze di sicurezza russe si insediarono permanentemente nelle due regioni, costruendo basi militare giustificate da Mosca con la necessità di garantirne la sicurezza.
Mentre una serie di negoziati tra Tbilisi, Sukhumi e Tskhinvali non ha portato a quasi alcun risultato nel corso degli anni, in ambito internazionale la Georgia ha avviato una politica generalizzata per vedere riconosciuta l’occupazione russa del suo territorio nonché le violazioni compiute dalle forze di Mosca.
Tra le altre cose, Tbilisi presentò causa contro la Russia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) l’11 agosto 2008. Nell’appello, Tbilisi accusava Mosca della violazione, sia durante che dopo la guerra, di otto articoli della Convenzione: il diritto alla vita, la proibizione della tortura, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il diritto a un ricorso effettivo, la protezione della proprietà privata, il diritto all’istruzione e la libertà di movimento.
Nel 2021, la Corte riconobbe Mosca non responsabile delle violazioni avvenute durante i cinque giorni di guerra, considerando che il contesto rendeva impossibile il “controllo effettivo” russo sull’area colpita dal conflitto. Una volta che tale controllo era stato esercitato (a partire dal 12 agosto), il tribunale dimostrò che l’esercito russo aveva passivamente osservato la “sistematica campagna di incendi e saccheggi dei villaggi georgiani”, gli abusi contro i civili e, in particolare le esecuzioni sommarie perpetrate dalle milizie ossete. Tale passività, secondo la Corte, implica una “tolleranza ufficiale” delle violenze.
Allo stesso modo, l’esercito russo non intervenne per salvaguardare i diritti di 160 civili georgiani (per la maggior parte, donne e anziani) detenuti per circa quindici giorni (fino al 27 agosto 2008) dalle autorità ossete nei sotterranei del ministero degli Interni a Tskhinvali e quelli di una trentina di prigionieri di guerra georgiani vittime di tortura.
Il fatto che, negli anni dopo la guerra, Abcasia e Ossezia del Sud non abbiano autorizzato il rientro di migliaia di georgiani nelle proprie case, è stato considerato ugualmente una responsabilità della Russia, visto l’effettivo controllo del Cremlino sulle due regioni separatiste. Mosca è stata, infine, riconosciuta colpevole di non aver condotto indagini adeguate sugli eventi avvenuti durante e dopo la guerra e per essersi rifiutata di collaborare con la CEDU nel corso dell’inchiesta condotta dal tribunale di Strasburgo.
Sul campo intanto, la tensione rimaneva alta soprattutto sulla linea di demarcazione tra Georgia e Ossezia del Sud. Infatti, negli anni l’esercito russo di stanza nell’area ha iniziato a marcare il confine con recinzioni e filo spinato che spesso passano attraverso terreni agricoli e villaggi. Una volta erette queste installazioni, le forze di Mosca arrestano chi le attraversa (generalmente contadini residenti che tentano di raggiungere i propri terreni agricoli). In diversi casi, le forze di sicurezza hanno sparato sui civili causandone la morte.
Gli ultimi sviluppi
Concludendo questo breve riepilogo della storia di Abcasia e Ossezia del Sud, non si possono non menzionare gli effetti dell’invasione russa su larga scala in Ucraina.
Nelle settimane che hanno seguito il 24 febbraio 2022, truppe dell’Ossezia del Sud sono intervenute in supporto dell’esercito russo in Ucraina, salvo poi ritirarsi rapidamente, in virtù delle perdite subite.
Non si è registrata una presenza simile di soldati abcasi ma, alla fine del 2023, sono iniziati i lavori per la costruzione di una base navale russa a Ochamchire, località sulla costa dell’Abcasia, per proteggere la flotta di Mosca non più al sicuro dagli attacchi ucraini a Sebastopoli e Novorossijsk. Per il momento, la base non è stata aperta, ma la questione rimane, con Kyiv che ha già dichiarato che considererebbe l’Abcasia come un obiettivo di guerra nel caso ciò avvenisse.
Il futuro di Abcasia e Ossezia del Sud
Considerando la questione da un punto di vista puramente logico, una reintegrazione pacifica di Abcasia e Ossezia del Sud nella Georgia sarebbe un risultato probabilmente auspicabile, soprattutto dal punto di vista economico, per gli abitanti delle due repubbliche separatiste. Tuttavia, tale sviluppo è difficilmente immaginabile nel breve periodo, in considerazione dei decenni di divisioni, guerre e crimini che non hanno ancora visto giustizia. La presenza russa, poi, non fa che complicare il dialogo tra Tbilisi e le due regioni separatiste.
Quale sia il risultato delle elezioni del 26 ottobre è evidente che i rapporti con le repubbliche separatiste andranno risolti non con dichiarazioni alternativamente vittimistiche o bellicisitche a Tbilisi, ma con una onesta politica di riconciliazione. L’attuale scenario internazionale rende però difficile credere che tutto ciò sia possibile.
Nato a Milano, attualmente abita a Vienna, dopo aver vissuto ad Astana, Bruxelles e Tbilisi, lavorando per l’Osce e il Parlamento Europeo. Ha risieduto due anni nella capitale della Georgia, specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell’area caucasica all’Università Ivane Javakhishvili. Oltre che per Meridiano 13, scrive e ha scritto della regione per Valigia Blu, New Eastern Europe, East Journal e altre testate.