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Sono ormai passati alcuni giorni dall’improvviso incontro tra Giorgia Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama per la firma di un “protocollo d’intesa per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”. La notizia dell’accordo Italia-Albania sui migranti è stata già dibattuta in lungo e in largo.
Per i sostenitori della linea dura contro i migranti, l’accordo rappresenta una soluzione ottimale al problema dell’aumento degli arrivi: si prendono i migranti in mare e si portano in un altro paese. Occhio che non vede, urna che non duole. I partiti di opposizione, invece, commentano l’intesa limitandosi ad una critica di natura giuridica: viola il diritto internazionale e quello europeo. Come se il sistema di asilo e di accoglienza europeo fosse lo strumento simbolo dei diritti e delle libertà e non uno schizofrenico percorso ad ostacoli utile solo a sorreggere la Fortezza Europa.
Difficile, in un paese come il nostro in cui la radicalità (intesa letteralmente come qualcosa che “agisce in profondità”) è stata soppiantata dal tifo, trovare un’analisi che non si limiti al commento di giornata, buono per riempire le home page dei giornali o le storie Instagram di qualche filosofo-influencer.
Ed è ancora più difficile, da noi più che da altre parti, dirsi chiaramente che il problema dell’accordo tra Italia e Albania non è solo “procedurale”, non è solo (certamente è anche) una questione di diritto ma ha a che fare con la nostra stessa storia, con la nostra cultura e le sue fondamenta. Sì, perché il protocollo d’intesa firmato lunedì nasconde, a quanto pare molto bene, tutto il nostro portato coloniale. Sembrerebbe strano, in fondo noi siamo brava gente, un popolo di santi, poeti e navigatori. Il nostro è stato un colonialismo straccione, niente a che vedere con quello dei grandi imperi.
O almeno, così abbiamo sempre affrontato e raccontato il nostro passato. Tanto da finire per crederci. Al punto da non riuscire a rendersi conto che costruire due galere per migranti in Albania non è poi tanto diverso da quello che facevano gli imperi coloniali dediti alla tratta degli schiavi.
Credere che l’Albania sia il luogo adatto dove scaricare pacchi di gente non gradita è esattamente in linea con il considerarla una regione italiana, piuttosto arretrata ovviamente, in cui poter fare tutto a nostro piacimento. Perché si, diciamolo senza vergogna, siamo convinti che in Albania a noi italiani tutto sia concesso. Perché in fondo “gli albanesi parlano italiano, ascoltano la nostra radio e guardano le nostre tv”.
Non importa se l’Albania è stata una delle nostre “colonie straccione”, una sorta di ripiego visto che tutte le colonie migliori erano già state prese. Non importa se l’italiano era stato imposto con la forza durante l’occupazione fascista (1939-1943), se oggi i nostri imprenditori trasferiscono le proprie aziende lì semplicemente perché il costo del lavoro è molto più basso e i diritti dei lavoratori meno stringenti.
Per noi gli albanesi sono di famiglia, di quei familiari di cui però ti fidi poco perché non si sa mai, se ti distrai troppo potrebbero rubarti in casa. E allora amici sì, ma solo se siamo noi ad andare a casa loro, a fare i nostri comodi, a strappare piccoli pezzi di terra per costruire galere e non, magari, scuole, ospedali o case.
Possiamo fare tutto questo perché siamo indubbiamente una civiltà superiore, più avanzata o, semplicemente, più ricca economicamente. E non perché, anche noi come il resto delle società occidentali, abbiamo praticato e pratichiamo tutt’oggi forme di dominio, sfruttamento e sopraffazione. Eppure continuiamo a ripeterci che no, noi italiani non siamo capaci di questo.
Ma se proviamo ad allargare lo sguardo, ci possiamo render conto che abbiamo talmente tanto stretto il cappio al collo al paese delle aquile che senza di noi l’economia albanese crollerebbe. Questo la Meloni lo sa bene e se lo ricorda quando in estate va in vacanza dall’amico Edi Rama e consiglia a centinaia di migliaia di italiani che non possono più permettersi le ferie a casa propria di spostarsi oltre l’Adriatico per godere di paesaggi mozzafiato a buon, buonissimo, costo.
Lo sa ancora meglio di noi proprio il primo ministro albanese Rama. Uno che parla un ottimo italiano, follemente innamorato del nostro paese, tanto da prostrarsi al nostro cospetto in ogni occasione, tanto da voler svendere il suo paese pur di compiacere i fratelli maggiori. Come dimenticare la sua comparsata a Porta a Porta il 5 marzo 2019, quando ebbe l’ardire di presentare l’Albania come “una piccola Italia dal punto di vista della lingua, della cultura, dell’affinità. Gli italiani da noi sembrano davvero albanesi vestiti da Versace”. Identificare il proprio paese, con una storia millenaria e una grande cultura, come la sorella minore dell’Italia, che si veste pure male, basterebbe per diagnosticargli una pericolosa sindrome del colonizzato.
Ma proprio come il nonno dei Simpson che non riesce a stare più di cinque secondi senza rendersi ridicolo, Rama è stato capace di superarsi in continuazione. Lo scorso agosto, in piena ubriacatura vacanziera, il primo ministro ha pubblicato un meme in cui paragonava uno dei momenti più tragici della recente storia albanese, l’arrivo della nave Vlora al porto di Bari nel 1991 con oltre 20mila cittadini in fuga dalla fame, con l’arrivo di migliaia di italiani in vacanza in Albania, con tanto di smile e doppia bandiera.
Ma è stato proprio durante la conferenza stampa di lunedì a Roma che si è toccato il punto più alto della negazione della Storia, anche la più recente. Colpito forse da un vuoto di memoria, Rama ha affermato che “quando noi eravamo i profughi e scappavamo dall’inferno, l’Italia ci ha accolto a braccia aperte, dandoci la cosa più preziosa per un essere umano: il futuro”.
Certo, sarebbe una bella soddisfazione per noi italiani se non fosse che quello che è accaduto negli anni Novanta in Italia con l’arrivo degli albanesi è stato tutto fuorché un’accoglienza degna e proiettata al futuro. Lo ricordano i manifesti e la caccia all’albanese della Lega Nord, la paura con cui si affrontava a livello mediatico e politico la prima grande crisi migratoria del nostro paese. Dovrebbe ricordarcelo l’affondamento della Katër i Radës, una motovedetta della marina albanese rubata da un gruppo di trafficanti che il 28 marzo 1997 venne speronata da una nave della Marina Militare italiana provocando 98 morti. E ancora le difficoltà di inclusione degli albanesi in quegli anni, tra ostruzionismo burocratico e razzismo.
Di tutto questo però, non resta memoria. Né in Italia né, a quanto pare, in Albania. Due paesi che hanno deciso di non affrontare il proprio passato, di cancellare parte della loro storia, autoassolvendosi o dimenticando quanto subito. Per poi ritrovarsi a stringersi la mano e darsi pacche sulle spalle per aver deciso, di comune accordo, di costruire due lager per migranti. E noi saremmo la brava gente…
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.