Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Se avete avuto la possibilità di trascorrere l’infanzia in campagna, magari dai nonni, alla fine di ogni estate avrete sicuramente assistito e forse preso parte al rituale principe che segna il termine della bella stagione: la preparazione della conserva. Chili di pomodori maturi, pentoloni che ribollono pigramente, bottiglie e barattoli vuoti, capsule nuove, mestoli di legno e l’immancabile passaverdura con la manovella: l’odore di sugo s’infila dappertutto.
Nello stesso periodo nei Balcani avviene un rito molto simile, che però ha per protagonisti peperoni e melanzane. L’arrivo dell’autunno nella penisola è infatti scandito dai preparativi per la produzione di un’amatissima specialità spalmabile scarlatta, presente in tutte le dispense balcaniche in diverse declinazioni e denominazioni.
La versione più celebre si chiama ajvar, ma ne esiste anche una variazione bulgara (ljutenica), macedone (lutenka) e romena (zacuscă). Il procedimento alla base è lo stesso: le verdure vengono arrostite, spellate, sminuzzate, amalgamate e condite fino a diventare una crema. Consistenza e piccantezza – e ingredienti aggiuntivi più o meno segreti – possono variare.
L’imprescindibile barattolo balcanico: ajvar
Nonostante le varie diatribe sulle sue origini, la prima testimonianza scritta dell’ajvar risale a una ricetta contenuta in un libro redatto in serbocroato ed edito nel 1877 a Novi Sad, allora parte dell’Impero austro-ungarico. Il termine proviene dal turco hayvar, che significa letteralmente “caviale”, a sua volta derivato da una parola persiana. Il paragone con il costoso prodotto ittico è legato all’elevata spesa da sostenere per comprare e trasportare i peperoni dal sud della penisola, che non erano coltivati nell’attuale Serbia, più il costo dell’olio e la necessità di disporre di un fornello.
Secondo alcune fonti il nome si deve anche alla crisi subita dalla produzione di caviale nero belgradese a fine Ottocento, pietanza molto popolare nella capitale ma la cui produzione era altalenante. Così questo “caviale rosso” (crveni ajvar) comincia a essere proposto in sostituzione delle uova di storione, prendendo sempre più piede. Soltanto nella seconda metà del Novecento il contesto socialista rende la preparazione accessibile a tutte le famiglie, portando a una moltiplicazione di varianti. Pare però che a introdurlo per prima nelle kafane belgradesi sia stata la minoranza aromuna macedone, che ne gestiva gran parte e commerciava i peperoni necessari.
Alla base ci sono le melanzane e il peperone corno di toro rosso, varietà che matura a fine settembre, polposa e abbastanza facile da spellare una volta cotta. Arrostiti, sbucciati, privati dei semi, gli ortaggi vengono ridotti a poltiglia con vari procedimenti – coltello, passaverdure, tritacarne, pestello o anche frullatore. Dopodiché il risultato va stufato per varie ore, insieme a olio di girasole, sale, zucchero e spezie. Non è raro imbattersi in versioni che includono aglio, aceto o una nota piccante; la classificazione del prodotto finale infatti segue due criteri: livello di macinatura (fine, media o grossa) e di capsaicina (dolce, piccante, molto piccante).
Una volta che la riduzione si è sufficientemente addensata la crema ottenuta viene imbarattolata, sigillata e pastorizzata. Data la lunghezza e complessità del processo, solitamente l’ajvar viene preparato in grandi quantità, chiamando a raccolta parenti e vicini, per essere conservato e consumato durante la stagione fredda, insieme a giardiniere (turšija) e verdure fermentate. Per dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno basta sottolineare che nella sola Serbia la produzione annuale supera le 600 tonnellate, e soltanto una minima parte è di provenienza industriale.
L’abbinamento per eccellenza è con la carne alla griglia, in primis i ćevapi, ma è estremamente versatile, ed è comunissimo gustarlo anche su una semplice fetta di pane. A oggi le ricette di due varianti, quella della città serba di Leskovac e quella macedone sono depositate presso l’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale.
Il barattolo rosso nelle dispense bulgare e macedoni contiene ljutenica (pronuncia “ljutenitsa”), nota anche come lutenica oppure lutenka nel paese ex jugoslavo. Il nome in questo caso non c’entra con il caviale, ma deriva invece dall’aggettivo “piccante”, e si trova anche in Serbia per indicare una versione di ajvar più pungente, benché la ljutenica bulgara contenga di solito meno capsaicina della ljutenica serba. La produzione su larga scala inizia negli anni Cinquanta, anche a livello industriale, ma la qualità migliore si ottiene preparandola in casa, con le verdure maturate a fine estate.
La ljutenica ha sempre al centro il peperone corno di toro rosso, ma a volte non vengono aggiunte le melanzane. Gli altri ingredienti in genere sono pomodoro, cipolla, carote, aglio, peperoncini, prezzemolo e cumino, inclusi o meno in base alla regione e ai gusti. Il procedimento è lo stesso dell’ajvar: ai peperoni cotti, spellati e tritati vengono aggiunti i pomodori sminuzzati e il tutto viene passato al tritacarne oppure al passaverdure. Il composto si riduce sul fuoco insieme a olio, soffritto e spezie. La consistenza è considerata ottimale quando mescolando con il cucchiaio di legno il fondo della pentola appare pulito.
Per arrostire le verdure in Bulgaria esiste addirittura uno strumento specifico, il čuškopek (letteralmente “grigliapeperoni”), una sorta di forno elettrico con coperchio che ha le fattezze di una pentola, permettendo così una cottura omogenea su tutti i lati. Abbinamento perfetto per le grigliate, la ljutenica può anche accompagnare patate, riso, essere mescolata al formaggio bianco sìrene sbriciolato oppure gustata in una caratteristica insalata insieme a fagioli lessi e aglio, cipolla oppure porro.
La versione romena: zacuscă
Il nome che la specialità scarlatta ha in Romania, zacuscă, si rivela particolarmente curioso. È un termine mutuato dalle lingue slave, nelle quali è una parola tuttora in uso con una accezione che si può riassumere in “piccolo pasto”: in russo ad esempio significa “antipasto”, “stuzzichino” o “spuntino”, mentre in bulgaro “colazione”. Molto probabilmente si tratta di un implicito riferimento alla versatilità e alle molteplici occasioni in cui è possibile consumare il prodotto, non senza una certa sfiziosità.
Per preparare la zacuscă si seguono gli stessi procedimenti già illustrati; alla base della versione romena però non c’è il peperone corno di toro rosso, ma la varietà gogoșari, polposa e tondeggiante, originaria dell’omonimo comune situato nel distretto di Giurgiu, al sud del paese. Ad accompagnarlo melanzane, cipolle, passata oppure concentrato di pomodoro, il tutto insaporito da foglie di alloro. Non mancano ricette che sostituiscono le melanzane con fagioli, funghi o persino pesce (zacuscă de pește).
Traduttrice e interprete. S'interessa di letteratura, storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, dove si è laureata presso l'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot. Collabora con varie case editrici e viaggia a est con Kukushka tours.